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DALLE PROSPETTIVE DI RIFORMA DEI DELITTI CONTRO LA P.A. ALLA LEGGE N. 86/90

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DALLE PROSPETTIVE DI RIFORMA DEI DELITTI CONTRO LA P.A. ALLA LEGGE N. 86/90

Relatore:

prof. Marino PETRONE

ordinario di diritto penale commerciale nell’Università di Roma “La Sapienza”

Sommario: 1. Premessa: un recente intervento per risolvere problemi antichi. - 2. A) La lunga strada della riforma dei delitti degli agenti pubblici contro la p.a.:

i problemi emersi ed i progetti presentati negli anni ‘60. - 3. I problemi de- gli anni ‘70: il nuovo “statuto penale” della p.a. e l’esigenza di contenere la

“supplenza” del giudice penale. - 4. Segue: il problema della corruzione. - 5. Segue: il problema della determinatezza della fattispecie. - 6. I progetti degli anni ‘80. - 7. Segue: l’allargamento del quadro problematico: a) in te- ma di peculato per distrazione. - 8. Segue: b) in tema di interesse privato.

- 9. Segue: c) in tema di concussione e corruzione. - 10. Segue: d) in tema di omissione di atti di ufficio. - 11. Segue e) in tema di qualifiche sogget- tive. - 12. Segue: f) le esigenze di introduzione di nuove figure. - 13. B) La riforma: a) il quadro generale. - 14. b) le singole fattispecie. - 15. Un giu- dizio critico: le “sviste” del legislatore. - 16. Segue: le “dimenticanze”. - 17.

Segue: l’omissione della disciplina transitoria - 18. Segue: i problemi irri- solti. - 19. Segue: I problemi nuovi. - 20. Conclusioni.

1. Credo sia opportuno, in apertura, rilevare che i temi in di- scussione in questo incontro di studio (soggetti attivi, peculato, con- cussione, corruzione, abuso di ufficio, sindacato, etc.), pur riferen- dosi alla recente legge n. 86 del 1990, non sono certo nuovi: essi, in- fatti, occupano da tempo l’attenzione sia della dottrina e della giu- risprudenza che del legislatore. Lo stesso titolo della mia relazione, del resto, richiedendo di muovere da lontano, ossia dalle “prospetti- ve” della riforma dei delitti contro la p.a., lo conferma.

Nell’affrontare su di un piano generale i vari aspetti della nuo- va disciplina, perciò, non potrò non rifarmi allo sviluppo dei diver- si problemi che l’hanno determinata, anche perché alcuni di essi han- no costituito oggetto di varie esperienze professionali, comunque ar-

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gomento privilegiato dei miei studi: onde il mio contributo all’ap- profondimento della portata di questa legge, in ordine ad essi, può essere più “partecipato”. Pertanto, sia a quelle esperienze che a que- gli studi, finirò, fatalmente, per riferirmi, chiedendovi peraltro scu- sa per i cenni autobiografici.

Ciò è anzitutto da sottolineare in relazione a quel delicato aspet- to della riforma – come vedremo, addirittura motivo dichiarato dell’in- tervento legislativo – costituito dalla riduzione dei poteri di sindaca- to del giudice penale sull’atto amministrativo. Ed infatti, questo te- ma – del quale mi occupai sin dal 1965, quando, nella prima edi- zione della monografia su “La tutela penale degli ordini ammini- strativi”, abbandonando la tradizionale costruzione processuale, im- boccai, credo per primo, la strada della impostazione sostanziale, ora valorizzata dal legislatore, e, a quanto mi risulta, oggi prevalente ha costituito oggetto di ben due precedenti incontri di studio, organiz- zati dal Consiglio Superiore tra la fine del 1984 ed i primi del 1985, nei quali fui relatore, appunto, su tale argomento.

Lo stesso può dirsi per il problema del peculato per distrazione, anche qui, oggi, centrale. Ad esso fu dedicato, già nel 1970, per me- rito della sensibilità giuridica e della lungimiranza del Presidente Laporta, uno studio, di cui fui l’autore, pubblicato nel II volume del- la Raccolta curata dall’ufficio del Massimario della Corte di Cas- sazione, al quale ho appartenuto per ben 14 anni.

Entrambi i problemi, poi, erano “centrali” quando, nel 1978, il Ministro di Grazia e Giustizia costituì una commissione, – della qua- le ebbi l’onore di far parte – incaricata della riforma del libro se- condo del codice penale. L’attenzione si appuntò immediatamente sui delitti contro la pubblica amministrazione ed in particolare sul capo primo del titolo secondo, cioè sui delitti dei pubblici ufficiali.

Conservo ancora il documento di lavoro sul quale iniziammo la no- stra attività: esso riecheggia gli stessi problemi (sindacato e pecula- to per distrazione) che oggi, con la legge n. 86 del 1990, compaiono nuovamente sulla scena e che sono, appunto, problemi antichi.

D’altra parte, se pur sia trascorso tanto tempo da allora, quei problemi, lungi dal sopirsi, si sono, anzi, enfatizzati. E la legge n. 86 del 1990, come vedremo, non consente certo di archiviarli definiti- vamente. Quello del sindacato è sempre vivo ed aperto anche se la riforma, proprio allo scopo di ridurre le ingerenze del giudiziario nel- la sfera della p.a., ha “ridisegnato” le figure criminose che più com-

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portavano quel rischio. Ma il tema continua a presentarsi in modo ricorrente, come un Leitmotiv dal quale non ci si riesce a liberare ed in questo convegno è oggetto specifico di una delle relazioni.

Quanto al peculato per distrazione, esso ha collegamenti stretti con il tema precedente, poiché, uno degli aspetti più delicati della relativa problematica è stato sinora proprio quello dei limiti del sin- dacato del giudice penale sulle scelte discrezionali di destinazione specifica all’interno di una destinazione generica, onde stabilire se vi sia stata distrazione.

2. A) Occorre, peraltro, riconoscere che altrettanto “antica” è l’at- tenzione che il mondo politico ha rivolto a quei problemi. A tale pro- posito devo ricordare, in dissenso con quanto sostenuto da qualche scrittore, che la legge n. 86 non è il risultato di una attività che ri- sale ad un “lustro” fa, perché, a ben guardare, non di un lustro si tratta ma almeno di otto.

Dobbiamo, infatti, andare indietro nel tempo, di trenta, quaran- ta anni addirittura, per individuare quando si è cominciato a parla- re della necessità della riforma dei delitti degli agenti pubblici con- tro la pubblica amministrazione. Ciò si può certamente affermare sol che si “rispolverino” anche vecchi progetti che poi, perché i tempi non erano maturi e per tante altre ragioni, non hanno potuto vede- re la luce.

Vanno così ricordati:

Un primo progetto, elaborato da una commissione nominata dal guardasigilli Tupini (1945-50), che prevedeva la riforma globale del codice penale, e, quindi, anche quella dei delitti in questione. Era da poco entrata in vigore la Costituzione ed i giuristi più attenti co- glievano in tutta la sua portata quel disegno nuovo che, riguardan- do gli aspetti fondamentali della vita del Paese, coinvolgeva anche – e soprattutto – il sistema penale. Eppure ci sono voluti tanti anni perché si diffondesse la convinzione che nella Costituzione è trac- ciata la mappa del nuovo diritto penale italiano!

Un altro progetto, Gonella, del 1960, anche questo globale, pre- vedeva, appunto, sia la riforma della parte generale che della parte speciale: e quindi quella dei delitti in questione. Ed ancora, nella stessa prospettiva si collocavano un progetto Reale, dei primi mesi del 1968 ed un altro progetto Gonella degli ultimi mesi dello stes- so anno.

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Una proposta di legge del 1966, di iniziativa parlamentare (Ruffini ed altri) richiedeva, tra l’altro, perché la distrazione fosse possibile, che avvenisse con atti illegittimi.

Va ricordato, poi, l’articolato emerso dai lavori della Com- missione del 1978, della quale già parlavo. E così, finalmente, si ar- riva agli anni ‘80 ed, in particolare, ai progetti presentati dalla metà degli anni ‘80 in poi, da cui è derivata la legge n. 86 e dei quali mag- giormente avremo modo di occuparci.

Ebbene, già in quei progetti di nuovo codice penale degli anni ‘60 e degli anni ‘70 erano emersi i primi nodi da sciogliere. E ciò soprat- tutto per il passaggio dal regime precedente ad un nuovo assetto, ca- ratterizzato da un potere amministrativo diffuso, dalle accresciute au- tonomie locali, dal potenziamento degli enti pubblici economici, dive- nuti addirittura operatori privilegiati nel mondo dell’economia.

Ed è stato proprio il peculato per distrazione che, sin dall’inizio, soprattutto in conseguenza del problema della distrazione per fini pubblici, ha maggiormente richiamato l’attenzione. E’ subito apparso difficilmente comprensibile a molti e, comunque, segno di eccessiva severità – e quindi ingiusto – che si dovesse punire con pena sino a dieci anni di reclusione, sia il pubblico ufficiale disonesto, il quale si appropri, con una interversione del titolo di possesso, comportando- si uti dominus, della pecunia publica, sia il funzionario che distolga il denaro della pubblica amministrazione da una destinazione pub- blica rivolgendolo ad altra destinazione pur sempre pubblica.

E l’ingiustizia era apparsa ancor maggiore perché la giurispruden- za, in un primo tempo, aveva ravvisato il peculato per distrazione an- che nel caso di mero storno all’interno della stessa amministrazione.

I problemi del sindacato, poi, costituivano in buona parte pun- tuale riflesso di tali aspetti.

Per il resto, era già emersa la necessità di estendere il delitto di concussione all’incaricato di un pubblico servizio, non risultando ra- gioni sufficienti per giustificare la limitazione del fatto previsto dall’art. 317 soltanto al pubblico ufficiale. Come è noto, infatti, nel- la visuale del codice del 1930, non tutti i delitti in questione pote- vano avere come autore, oltre che un pubblico ufficiale, anche un incaricato di un pubblico servizio. E così, in questo gruppo di reati interessati dalla riforma – che ha riguardato ben 13 dei 15 articoli (ora diventati 18 a causa delle interpolazioni ed aggiunte) che van- no dal 314 al 328, con esclusione solo del 325 e del 327 – ben tre

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non ammettevano, come figura soggettiva di autore, l’incaricato di un pubblico servizio: e cioè la concussione, l’abuso di ufficio in ca- si non preveduti specificamente dalla legge (c. d. abuso innominato d’ufficio che oggi è diventato l’abuso d’ufficio tout court) e l’interes- se privato in atti d’ufficio. Ora, mentre per i secondi due non era an- cora emersa la necessità di una estensione all’incaricato di un pub- blico servizio (estensione che, peraltro, la nuova legge ha pure di- sposto) per la concussione, invece, sin da quei progetti si riteneva che anche tale soggetto, abusando dei poteri inerenti al servizio, po- tesse creare nel destinatario lo stato di metus tipico di quel reato.

Nel progetto del 1960, peraltro, ci si proponeva di risolvere an- che un problema tecnico, cioè quello della estensibilità o meno delle pene accessorie previste dall’art. 314 comma 2 per il peculato (e dall’art. 317, comma 2, tramite rinvio, per la concussione), all’ipote- si tentata. Il problema è stato, poi, risolto su di un piano generale, in sede giurisprudenziale, in quanto, come è noto, la Corte di Cassazione, dopo alcune oscillazioni, si è orientata nel senso che, essendo il ten- tativo una figura autonoma di reato, ne consegue che la pena acces- soria, quando è prevista soltanto per la figura consumata, senza che vi sia una espressa estensione anche alla fattispecie tentata, si appli- ca solo alla prima, in rispetto del principio di stretta legalità.

Nel 1968, nel progetto Reale, le riforme proposte riguardavano gli artt. 314, 317, 321 e 324 c.p.. Spiccava, al primo posto, quale figura da riformare, il peculato per distrazione a finalità pubbliche. Osservava il Ministro Reale, nella relazione: “Si è ritenuto di precisare che non costituisce distrazione l’uso del denaro o di altra cosa mobile appar- tenente alla pubblica amministrazione per le finalità di istituto della singola amministrazione”. Ed infatti, all’epoca, la giurisprudenza era oscillante sul punto e soltanto quella successiva ha poi affermato con decisione che il crinale tra la distrazione per fini pubblici punibile e quella non punibile fosse da ricercare nel fine istituzionale dell’ente:

onde tutto ciò che avveniva all’interno di tale fine non era distrazio- ne punibile. Il progetto estendeva, inoltre, la concussione all’incarica- to di un pubblico servizio ed aggiungeva, in tema di corruzione im- propria, una norma premiale, prevedendo la non punibilità del cor- ruttore che denunciasse il fatto prima del decorso di tre mesi dal com- pimento dell’atto. In tema di interesse privato, infine, il progetto ri- chiedeva che dal fatto fosse derivato un profitto per l’agente o per al- tri ovvero un danno per la pubblica amministrazione.

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Nel progetto Gonella del 1968, l’impostazione è sostanzialmente la stessa. Nel nuovo testo proposto per l’art. 314, tuttavia, troviamo, quanto alla distrazione, una formula nuova: ossia la destinazione a finalità diverse da quelle della p.a.. Si faceva così un ulteriore passo avanti rispetto al progetto Reale, proponendo la nozione più restrit- tiva possibile di distrazione e considerando comunque non punibile la distrazione per fini pubblici, anche se fuori dal fine istituzionale dell’ente. Si accedeva, così, a quella tesi – che qualche commentato- re sostiene accolta nella nuova legge – secondo la quale, tutte le vol- te in cui avviene per un fine pubblico, quale che sia, la distrazione non integra il peculato, perché a questo è essenziale la strumenta- lizzazione del potere pubblico a fini privati.

3. Questi erano i problemi affrontati nelle proposte di riforma, in materia, sino alla fine degli anni ‘60. Ma qualcosa di decisivo ac- cadeva frattanto, così da portare poi il Ministro Guardasigilli, nel 1978, a proporre di intervenire più ampiamente per ritoccare lo “sta- tuto penale” della pubblica amministrazione. Il malcostume cresce- va come un’onda impetuosa e purtroppo ha continuato a crescere sempre più. In diretta conseguenza la Magistratura, giustamente, rea- giva, determinando peraltro una contro-reazione di rigetto, basata sull’addebito di “supplenza”. Si è, così, enfatizzato il problema del

“sindacato” che è stato strettamente – ed impropriamente – ricolle- gato con la supplenza della Magistratura. Già negli anni ‘70 ci si la- mentava perché i giudici facevano “troppa supplenza”, intervenendo troppo nei fatti della pubblica amministrazione, travalicando i pro- pri poteri ed esorbitando dalle proprie funzioni: creando così un pro- blema istituzionale di fondo quale è quello che deriva da uno squi- librio nella distinzione dei poteri.

Ho avuto già altre volte modo di manifestare la mia opinione sul punto, soprattutto in convegni di magistrati, e non vorrei essere ripetitivo. Ma credo di non poter fare a meno di ricordare quanto ebbi modo di rilevare, su questo problema, nell’intervento al XVIII Congresso dei Magistrati Italiani, tenutosi a Viareggio nel 1985 (1).

(1) Il testo dell’intervento é pubblicato negli atti del Convegno (in Legalità e Giustizia, fasc. 1-3, 1986, ESI, Napoli) col titolo Il salvataggio del “servizio-giustizia”: un giudice “nuovo” per un ruolo immutabile.

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C’è supplenza corretta e supplenza scorretta: e, ovviamente, quella di cui ci si deve lamentare è solo la seconda.

Il giudice penale, entro certi limiti, deve fare necessariamente supplenza, nel senso di quella corretta: ciò è coessenziale alla stessa funzione giurisdizionale penale. Il giudice interviene, infatti, con il

“controllo” penale, quando i controlli amministrativi non hanno fun- zionato. Dunque la cosiddetta supplenza della Magistratura, finché si manifesta nei suoi rigorosi limiti (ossia quale verifica della sussistenza degli estremi di un reato), non presenta nulla di anormale, perché non è altro che l’esercizio fisiologico dei poteri di controllo del giu- dice penale sulle fattispecie integrative di reato nelle quali possano essere coinvolti, a causa della loro attività, i pubblici amministratori.

Il problema, invece, è un altro: se la norma penale è mal for- mulata, o se il magistrato si fa vincere dalla tentazione di dare in- gresso ad esigenze diverse da quelle che la norma sottende, la giu- risdizione penale finisce per entrare anche li dove non dovrebbe.

E’ di questo, allora, che si deve discutere, cercando i rimedi al- la supplenza scorretta; non certo del normale controllo del giudice penale sulla realizzazione di fatti di reato nell’ambito dell’attività am- ministrativa.

Se, poi, il legislatore volesse eliminare anche questa “ingerenza”, non avrebbe a disposizione che due strade: o quella di prevedere delle pregiudiziali amministrative obbligatorie, o quella di… abolire dal si- stema penale i delitti degli agenti pubblici contro la pubblica ammini- strazione! Soluzioni entrambe impraticabili, la prima perché contra- stante con la Costituzione, la seconda… per ovvie ragioni. Onde, finché nel codice penale saranno presenti reati degli agenti pubblici contro la pubblica amministrazione, il giudice sarà sempre funzionalmente chia- mato a verificare se determinate fattispecie si sono integrate, e, nel far questo, non potrà non entrare nella sfera della pubblica amministra- zione, controllandone la legittimità dell’operato, piaccia o non piaccia.

Quanto si è ora osservato, peraltro, spiega perché, nel 1978, la commissione ministeriale costituita per la riforma della parte spe- ciale del codice penale, della quale ho già parlato, ritenne esigenza prioritaria quella di affrontare la materia disciplinata dal capo pri- mo del titolo secondo del libro secondo.

E così, in quella commissione, anziché cominciare dal titolo pri- mo, finimmo per occuparci proprio di ciò che, poi, ha costituito pre- valente oggetto della legge n. 86 del 1990: cioè di “ridisegnare” il pe-

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culato per distrazione e l’interesse privato in atti di ufficio e di ri- solvere il problema della corruzione.

4. Quest’ultimo problema, come si è visto, era presente nelle pro- poste di modifica degli anni ‘60. Esso era sufficientemente emerso in tutta la sua portata, ed in alcune di queste si era già lanciata l’idea di cercare di contenere il dilagante fenomeno, col prevedere una causa di non punibilità per il cosiddetto “corruttore pentito”. Si era, giusta- mente, notato che il legame tra il corruttore e il corrotto è talmente saldo e indissolubile – a causa del carattere plurisoggettivo del reato di corruzione, con la conseguente punibilità di entrambi – che non si sarebbe mai potuto rompere, se non rendendo non punibile il corrut- tore. E ciò non si può ottenere che agendo in due modi. O col siste- ma, già attuato di fatto da molti giudici penali, di ricondurre, in virtù dei labili confini tra i due reati, molti casi di corruzione alla concus- sione: con la conseguenza che il corruttore, trasformato in vittima, può rendere testimonianza e, dunque, fornire la prova del reato (strategia giudiziaria, questa, se pur proficua, certamente non corretta). O con- cedendo per legge l’impunità al corruttore, attraverso una specifica causa di non punibilità, onde ottenere la prova della corruzione.

Di questa seconda soluzione si continuò a parlare anche nei la- vori della Commissione del 1978.

5. L’importanza dei lavori di questa commissione – seppur essi non siano stati utilizzati né pubblicati – è, tuttavia, ben maggiore.

Nella relazione conclusiva, infatti, veniva chiarito che, per risol- vere adeguatamente il problema del sindacato, era necessaria una migliore tipicizzazione delle fattispecie, in modo che esse non fos- sero così elastiche da lasciare spazi per un’attività creatrice del giu- dice penale.

Ed, a ben guardare, è questo il punto nodale del problema del sindacato. Per impedire le esorbitanze del giudice penale occorre for- nirgli norme che, rispettose del principio di sufficiente determina- tezza, traccino un disegno preciso dei vari tipi di reato. Onde, quan- do si tratta di reati collegati all’attività amministrativa, sia ben deli- neato il quadro di ciò che il giudice penale deve controllare ed, in particolare, sia ben preciso il limite di verifica della corretezza dell’at- tività discrezionale. Quel principio, del resto, non è solo ricavabile dall’art. 25, comma secondo, della Carta, ma è riconducibile, in de- finitiva, allo stesso principio di uguaglianza. Il potere giurisdiziona-

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le, infatti, è un potere diffuso, e se le norme penali sono formulate in modo generico, ogni giudice può trovare in ciascuna di esse i con- tenuti più vari, secondo vedute personali: onde la parità dei cittadi- ni di fronte alla legge resta evidentemente compromessa.

Si era dunque già evidenziato, nel 1978, che per risolvere il pro- blema dell’attrito tra amministrazione e giurisdizione penale, biso- gnava non solo individuare bene i poteri del giudice penale ma an- che, e forse soprattutto, agire sulle fattispecie rendendole più preci- se. Questa chiave di lettura, peraltro, non dette risultati immediati, malgrado la stesura della suddetta relazione e la bozza di articolato che fu predisposta. Ma fu certo un modo di impostare il problema che poi si ritrova nelle proposte successive.

Frattanto, i rapporti tra il giudice penale e la pubblica ammini- strazione sono andati sempre più deteriorandosi. Da una parte, infat- ti, i giudici penali, soprattutto P.M. e pretori, hanno proceduto con fre- quenza contro pubblici amministratori; dall’altra, se pur essi con ciò non abbiano fatto altro (salvo casi isolati) che esercitare le loro fun- zioni, i pubblici amministratori si sono doluti di questa “invadenza”.

Di tale malessere vi è un’eco nella stessa relazione che accom- pagna uno dei disegni di legge che hanno preceduto la legge n. 86 del 1990. In essa, infatti, si accostano due concetti che, al di là del bisticcio letterale con cui sarebbero sintetizzabili (malcostume–mal- contento), non sono per nulla ravvicinabili. Nella relazione del mi- nistro Martinazzoli, al disegno di legge n. 2844 del 1985 si afferma che da una parte bisogna intervenire più incisivamente sui fatti–rea- ti commessi dagli amministratori pubblici, inasprendo la risposta pu- nitiva; e che, dall’altra, bisogna eliminare – sono le stesse parole del Ministro – casi di “ingiustificato sindacato del magistrato penale sul merito delle scelte amministrative”.

Ora, quanto all’”ingiustificato sindacato”, esso si potrebbe ricolle- gare a quella che ho definito la “supplenza scorretta”; ma, come ve- dremo ancora, questa va colpita con altri rimedi, e non modificando il codice penale. Quanto, invece, alla supplenza corretta cioè, all’intervento tramite il controllo penale dove ci sono scelte discrezionali da parte del pubblico funzionario, se si può accettare la esclusione, dalla sfera del controllo, del “merito”amministrativo, non si può certo escludere da quella sfera ogni altra attività discrezionale, ed in particolare quella vi- ziata da eccesso di potere e, quindi, da illegittimità, perché ciò potreb- be porre la giurisdizione penale in un inaccettabile stato di sudditanza.

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6. Ma è tempo di esaminare i vari progetti presentati negli an- ni ‘80: e neanche qui, a ben guardare, ci muoviamo nell’arco di un lustro dalla legge 86, come invece qualcuno ha rilevato, perché mol- ti progetti risalgono ai primi anni del decennio.

Ritengo utile ricordare non solo quelli governativi ma anche quel- li di iniziativa parlamentare, perché l’enumerazione, anche se può sembrare minuziosa o, addirittura, un po’ puntigliosa, pur non aven- do pretese di esaustività, serve a delineare il clima di questa rifor- ma, ed a sottolineare come intorno ad essa ci sia stata tanta mate- ria di discussione, forse troppa.

Nella nona legislatura, alla Camera venivano presentati i seguenti progetti, di iniziativa sia parlamentare che governativa: n.410.

Trantino ed altri; n. 1780, Azzaro ed altri; n. 2709, Andò ed altri;

2793, Violante ed altri; buon ultimo il disegno di legge di iniziativa governativa n. 2844, del ministro Martinazzoli, in data 22 aprile 1985.

Contemporaneamente al Senato venivano presentati altri pro- getti: n. 28, Filetti ed altri; n. 1250, Vassalli ed altri. Su quest’ultimo va particolarmente richiamata l’attenzione perché, tra tutti, è quello che meglio si avvicina alle reali esigenze della riforma dei delitti in questione.

Ma intervenne la fine della legislatura e tutte queste proposte non riuscirono a vedere la luce.

Con l’avvento della decima legislatura, alla Camera c’è stato ad- dirittura un diluvio di progetti di legge: n. 242, Tatarella ed altri; n.

414 Mellini ed altri; n. 775, Nicotra ed altri; n. 1140, Gargani ed al- tri; n. 2119, Andò ed altri; n. 2149, Fracchia ed altri; n. 1623, Fiandrotti ed altri; n. 3516, Battistuzzi ed altri; e finalmente, anche qui buon ultimo, il secondo disegno di legge governativo, il n. 2441 del ministro Vassalli, datato 7 marzo 1988.

7. Tutto questo materiale ha, ovviamente, aperto un ampio fron- te di discussione. Al di là delle variabili, restavano costanti quei due punti già ricordati, ossia l’inasprimento della risposta punitiva e, so- prattutto, l’eliminazione del dissidio tra giurisdizione penale ed am- ministrazione.

Ma altri problemi intanto – e già nel decennio precedente – erano venuti all’attenzione della dottrina penalistica, prima, e del legislatore poi, così da originare un ampio ventaglio di proposte. Queste si pos- sono riassumere in vari punti, a seconda dei reati a cui si riferiscono.

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a) Quanto alla figura che è stata oggetto di maggiore attenzio- ne, cioè il peculato per distrazione, si è insistito anzitutto, ovvia- mente, nel sottolineare l’esigenza di delineare meglio la condotta di distrazione. Ed era fatale che una definizione legislativa basata su di un termine estremamente equivoco, comunque elastico, quale è quel- lo di “distrarre”, non potesse risultare appagante; si era così pro- spettato di formulare un concetto diverso, usando soprattutto diffe- renti espressioni, come ad esempio: “destinare ad altro fine”, preci- sando ulteriormente il punto di riferimento di quel fine. La dottri- na, insomma, aveva da tempo messo in luce che occorreva definire il peculato per distrazione con una terminologia legislativa più pre- cisa e più univoca, che non lasciasse quindi margine alle incertezze ed alle soluzioni soggettive ed eventualmente arbitrarie, costituenti fatale premessa di una supplenza scorretta.

Da un punto di vista sanzionatorio, poi, la distrazione a fini pub- blici, se proprio doveva essere punita – e si è già visto che se ne pro- poneva la depenalizzazione, come nei progetti Gonella – doveva es- serlo quantomeno più lievemente rispetto ai casi in cui fosse avve- nuta per fini privati.

Ma sullo sfondo di queste proposte si collocava l’eterna questione del sindacato. Ci si chiedeva, da un lato, se fosse configurabile il pe- culato per distrazione nell’ipotesi di funzionario dotato di poteri di- screzionali di scelta e, dall’altro, se tale scelta fosse sindacabile da parte del giudice penale. La dottrina prevalente rispondeva negati- vamente a tale quesito, rilevando che, altrimenti, si sarebbe violato il limite della sfera discrezionale della pubblica amministrazione, nel- la quale il giudice penale non potrebbe penetrare senza sconfinare nel merito dell’atto amministrativo.

Eppure la giurisprudenza della Corte di Cassazione aveva avu- to modo, da tempo, di chiarire che non sempre il controllo sull’uso del potere discrezionale del funzionario impinge nel merito dell’at- to amministrativo, comportando sconfinamento dai poteri della giu- risdizione.

Tutto questo risulta chiaramente ed in modo convincente dalla lunga motivazione della sentenza sul caso Ippolito, (Sez. IV, 15 no- vembre 1967) nella quale la Corte chiarì come, pur trattandosi di una ipotesi in cui vi era stata una scelta discrezionale, tuttavia que- sta era pienamente sindacabile, perché non tutto ciò che appartiene alla discrezionalità amministrativa è, per ciò stesso, merito dell’atto

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amministrativo, ossia opportunità, convenienza dell’atto. Nell’uso del potere discrezionale, infatti, il pubblico funzionario potrebbe cadere in sviamento di potere, e, ove si profili tale disfunzione, c’è eccesso di potere, che, come è noto, è un vizio di legittimità e non di meri- to: onde il giudice penale che controlla se il funzionario dotato di potere discrezionale ha operato una scelta rientrante nei confini che la legge gli attribuisce, controlla la legittimità e non il merito dell’at- to amministrativo.

Suscita, pertanto, qualche perplessità quanto si afferma nella re- lazione al disegno di legge n. 2844, già ricordato, ove si sostiene che sono frequenti le esorbitanze nel merito dell’atto amministrativo. Se, infatti, con ciò ci si vuole riferire al controllo sulla corrispondenza tra destinazione del denaro o dell’altra cosa mobile e fini stabiliti dalla legge, l’affermazione non è del tutto esatta, perché, se pur si tratti di atto discrezionale, in quel controllo ci si ferma pur sempre all’esame della legittimità dell’atto amministrativo.

8. b) L’altra figura impostasi all’attenzione sia degli studiosi che dei politici, era l’interesse privato in atti d’ufficio.

E certamente, al di là delle ragioni politiche che possono aver spinto a ridisegnare il reato, c’erano, sul piano tecnico, nella formu- lazione dell’art. 324 c.p., che riproduceva esattamente la norma cor- rispondente del codice Zanardelli (art. 176), degli aspetti che lascia- vano dubbi e richiedevano un buon intervento legislativo. Così, ad esempio, si continuava a discutere se sussistesse interesse privato nel caso di mera coincidenza tra l’interesse pubblico e l’interesse priva- to; o, nel caso di violazioni formali (ad esempio: mera violazione del dovere di astensione in quanto tale, senza che ci fosse stata con- temporaneamente, sul piano sostanziale, una vera e propria presa di interesse). E la giurisprudenza appariva orientata nel senso più ri- goroso, suscitando le critiche della dottrina.

Onde sembrava inevitabile abbandonare l’equivoco concetto di

“presa di interesse”.

9. c) Per la concussione i problemi aperti erano estremamente seri.

Nelle relazioni che accompagnavano i progetti che ho già ricor- dato si metteva soprattutto in luce la necessità di assorbire nella con- cussione alcuni casi di corruzione. Si voleva, insomma, legalizzare

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quella prassi giudiziaria, di cui già parlavo, volta ad ottenere la sco- perta del reato, trasformando il corruttore in vittima di un delitto di concussione ed incoraggiandolo, così alla denuncia. Questo appari- va maggiormente possibile, e comunque necessario, nei casi di cor- ruzione impropria, cioè per un atto conforme ai doveri di ufficio, che, secondo alcuni di questi progetti, avrebbe dovuto dar luogo, per- lomeno in parte, ad una nuova figura: la cosiddetta concussione am- bientale, ossia quella commessa sfruttando, senza averlo determina- to, lo stato di soggezione del privato.

In alcuni progetti – ed in particolare nel n. 2844 del ministro Martinazzoli e nel n. 2441 del ministro Vassalli – si proponeva que- sta nuova figura criminosa, ora inserendola nella descrizione della concussione tradizionale, ora riconducendola al peculato mediante profitto dell’errore altrui, al quale, forse, era maggiormente avvici- nabile; in tale figura di peculato, infatti, si approfitta, senza averlo determinato, dell’errore ed in questa forma di concussione si appro- fitterebbe, senza averlo determinato, dello stato di soggezione.

I veri problemi della concussione, discussi in sede dottrinale e giurisprudenziale, non erano tuttavia emersi in tutta la loro portata.

Così, soprattutto, quello della distinzione dalla corruzione.

L’intervento legislativo appariva qui davvero inevitabile, poiché in alcune sentenze della Corte di cassazione, anche a Sezioni Unite, si era operato uno sconfinamento nel senso di estendere eccessiva- mente il campo della concussione a danno della corruzione. E così, la già ricordata linea di politica giudiziaria aveva finito per prevale- re addirittura a livello di giurisdizione di legittimità.

In una famosissima sentenza delle Sezioni Unite del 1982, (ri- corrente Dessì), la Corte affermò che, in tema di criteri differenzia- li tra concussione e corruzione, non rileva la circostanza della con- trarietà dell’atto ai doveri d’ufficio. Sarebbe, in altre parole, confi- gurabile la concussione anche quando l’atto per compiere il quale l’agente pubblico riceve una somma di denaro o altra utilità, sia il- legittimo, perché anche in tal caso il privato certat de damno vitan- do: vuole cioè evitare il danno che gli deriverebbe dal… non ottene- re un atto illegittimo! Ed a nulla è valso lo sforzo della dottrina te- sa a sottolineare che il non ottenere un atto illegittimo non può in- tegrare danno giuridicamente rilevante: l’esigenza di ampliare l’area della concussione e le pur accettabili ragioni di politica giudiziaria, che l’hanno determinata, sono state tali da far perdere di vista la li-

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nea fondamentale di distinzione tra corruzione e concussione. Donde la necessità di risolvere questo problema si poneva in modo certo più impellente; ma il legislatore l’ha ignorata.

D’altra parte, neanche la proposta di introduzione della nuova figura di concussione è stata trasfusa nella legge. Sono state mosse molte critiche alla configurabilità della concussione ambientale ed, a mio avviso, tutte hanno colto nel segno. A chi sosteneva che la con- cussione ambientale è la “vis grata civibus”, si è giustamente obiet- tato che questa non è vis publica. Non c’è nessuna violenza, nessu- na costrizione e neanche induzione, nella concussione ambientale:

chi dà, dà perché è convinto, per ragioni sue proprie, di dover dare, e di questo non si può far carico al pubblico ufficiale; che, anzi, se lo si facesse, si finirebbe per violare il principio di personalità della responsabilità penale. Si è ancora aggiunto che la prova del fatto sa- rebbe irraggiungibile, diabolica. Si è, infine, osservato – ed a mio av- viso questa obiezione è decisiva – che lo stato di soggezione è con- cetto vago: soprattutto se, come in questo intervento legislativo, si parta dalla premessa di volere meglio tipicizzare le figure crimino- se, onde rispettare il principio di sufficiente determinatezza. E’, in- fatti, quasi impossibile rispettare tale principio, con una norma che ipotizza uno stato di soggezione non direttamente determinato dal pubblico ufficiale. Per convincersene basta por mente alla sentenza n. 96 del 1981 della Corte Costituzionale, con la quale è stato eli- minato il delitto di plagio, perché lo stato di soggezione richiesto dall’art. 603 c.p. non era empiricamente verificabile. Molto proba- bilmente questa pretesa concussione ambientale, una volta nata nel nostro ordinamento, sarebbe in breve scomparsa per dichiarazione di incostituzionalità della norma (ai sensi dell’art. 25 comma 2° Cost.).

L’unica proposta innovativa – peraltro non accolta – riguardan- te la concussione, dunque, toccava un aspetto di questo reato che ri- chiederebbe ben diversa soluzione; mentre le altre esigenze che la dottrina aveva da lungo tempo segnalate, non venivano per nulla re- cepite.

Quanto alla corruzione, per tale reato sussistevano, ugualmente, esigenze non solo sistematiche ma anche di politica giudiziaria, da soddisfare. E così, non soltanto quella di distinguerla dalla concus- sione – e qui si possono richiamare gli argomenti esaminati prece- dentemente – ma anche quella di favorirne la prova. In un sistema di “corruzione istituzionalizzata”, come si è detto in una delle rela-

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zioni ai disegni di legge, non si otterrà mai la scoperta della corru- zione se non si staccherà il corruttore dal corrotto. Se si vuol in- centivare la denuncia di questo reato, pertanto, sono inevitabili le misure premiali.

E così, ripetendo quanto già si proponeva negli anni ‘60, alcuni progetti si sono posti nell’ottica della non punibilità del corruttore, nel caso che costui abbia denunciato entro un certo termine il cor- rotto e gli estremi del fatto di corruzione. Neanche tali proposte, pe- raltro, hanno trovato accoglimento nella legge n. 86.

10. d) Ma anche altri reati degli agenti pubblici, oltre quelli si- nora ricordati, aspettavano di essere “rivisitati”: tuttavia, solo alcu- ne tra le proposte che ho già citato se ne occupavano.

Uno di questi reati, per così dire, trascurati, è l’omissione di at- ti d’ufficio.

E’ noto che la relativa norma penale dovrebbe costituire un pre- sidio importante per l’adempimento dei doveri funzionali da parte degli agenti pubblici. E spesso è stata proprio la minaccia di una de- nuncia per tale reato a “smuovere” il funzionario inerte o esitante.

Ma la formulazione e, soprattutto, l’interpretazione dell’art. 328 non apparivano del tutto adeguate. Si avvertivano, così, varie esi- genze di ammodernamento di tale figura.

Si era, in primo luogo, sottolineata la necessità di abbandonare la visuale formalistica, che sembrava prevalere in giurisprudenza, on- de porsi in sintonia con i principi costituzionali, soprattutto con quel- lo di offensività, secondo il quale, come è noto, già al livello di fat- tispecie astratta, non può esservi reato se il fatto non è lesivo – vuoi nella forma del danno che del pericolo, purché questo sia concreto –di un interesse socialmente apprezzabile (sia o meno costituzional- mente garantito) Si era così, anzitutto, prospettata la introduzione di una nozione più sostanzialistica dell’omissione di atti d’ufficio, ri- chiedendosi un pregiudizio per la p.a. o per il privato. Ma non si era mancato di suggerire anche una più precisa delimitazione del fatto punibile, specie con riferimento alla individuazione del momento con- sumativo, nel doveroso rispetto del già ricordato principio costitu- zionale di sufficiente determinatezza.

E, del resto, la disciplina della figura non era apparsa soddisfa- cente neanche sotto il profilo della risposta sanzionatoria, essendo risultata troppo lieve la pena prevista dal codice Rocco.

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Ebbene, malgrado tali esigenze, dell’omissione di atti d’ufficio non si parlava affatto nel disegno di legge n. 2844 presentato dal mi- nistro Martinazzoli nella IX legislatura.

In questa, peraltro, le proposte in materia non erano mancate, so- prattutto nella prospettiva di una più precisa previsione del fatto-rea- to. E così, la riforma dell’art. 328 era stata proposta dal Senatore Vassalli (proposta n. 1250, già ricordata) col richiedere che rifiuto, omissione o ritardo avvenissero “senza giustificato motivo” e che, in mancanza di un termine legale espresso, occorresse la previa messa in mora da parte di chi aveva titolo ad esercitare l’azione civile risar- citoria. Anche nella proposta n. 2793 presentata alla Camera dall’On.

Violante si prospettava una modifica dell’art. 328, distinguendosi ri- fiuto da omissione e prevedendosi per questa la richiesta dell’interes- sato ed, in alternativa al compimento dell’atto, l’esposizione delle ra- gioni del ritardo o la indicazione di un “termine ragionevole” in cui si sarebbe compiuto l’atto. Una proposta identica alla norma poi passa- ta con la legge n. 86, infine, era contenuta nel disegno di legge n. 2226, approvato solo dalla Camera e decaduto per fine legislatura.

Nella X legislatura, mentre il disegno governativo (n. 2441 del ministro Vassalli) non proponeva modifiche all’art. 328, a tale risul- tato miravano varie proposte di legge: così la n. 775 (Nicotra), la n.

1140 (Gargani) e la n. 2149 (Fracchia).

11. e) Da ultimo va ricordato il problema delle qualifiche sog- gettive che, pur meritando una posizione prioritaria, è stato alquan- to trascurato in questa riforma, sia perché la proposta è stata inse- rita soltanto all’ultimo momento, sia per il modo in cui – forse an- che in conseguenza di ciò – la nuova norma è stata formulata.

Non ve n’era cenno alcuno né nel disegno Martinazzoli né in quello Vassalli. Forse era sembrato sufficiente il reiterato intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Ed in verità le pronunce in materia erano state ben tre: la sen- tenza Carfì del 10 ottobre 1981, la sentenza Tuzet del 23 maggio 1987 e le sentenze Vita nonché Cresti ed altri, del 28 febbraio 1989.

Ma queste decisioni non avevano affatto eliminato il problema, anzitutto perché riguardavano solo gli operatori bancari ed in se- condo luogo perché non erano perfettamente in linea tra di loro e, comunque, avevano suscitato contrasti con le sezioni semplici. Esse, poi, avevano sollevato anche varie e fondate critiche in dottrina.

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Il problema si presentava sotto il profilo della necessità di im- boccare finalmente la strada della nozione oggettiva di agente pub- blico, abbandonando la visuale soggettiva che sembrava accolta nel codice Rocco (ma in realtà non lo era) e che aveva creato una serie di equivoci ed un’estensione indeterminata del concetto di pubblico ufficiale. Non meno urgente appariva la precisazione della posizio- ne degli enti pubblici economici in genere, se pur non si trattasse di aziende di credito.

12. f) Fin qui sono state evidenziate le esigenze emerse quanto ai necessari interventi sull’esistente.

Ma si era da tempo profilata la necessità di creare nuove figure di reati.

Ed infatti, l’inasprimento della risposta punitiva, cui alcune pro- poste dichiaratamente si ispiravano, non poteva avvenire soltanto ri- descrivendo le fattispecie criminose esistenti, ma doveva necessaria- mente comportare anche la previsione di nuove ipotesi, le quali col- massero le lacune che erano state riscontrate: lacune notoriamente incolmabili senza una legge, nel sistema penale caratterizzato dal di- vieto di analogia.

Ebbene, nel disegno di legge n. 2844 si prevedevano tre figure criminose nuove, la prima delle quali è stata eliminata nel corso dell’iter parlamentare, mentre le altre due sono entrate nel sistema con la legge n. 86: e precisamente, la concussione ambientale (già ricordata), la corruzione in atti giudiziari e l’utilizzazione di segreti di ufficio.

Nel disegno di legge Vassalli, n. 1250, presentato al Senato, si prevedevano invece ben nove figure criminose nuove. E’ molto im- portante ricordarle, perché molte di esse evocano casi nei quali si sono prospettati, sia in giurisprudenza che in dottrina, dubbi sulla norma da applicare: e, probabilmente, si trattava (e si tratta ancora, per le proposte non accolte) di vere lacune, che hanno spesso com- portato la non punibilità per difetto di rilevanza penale del fatto.

Anzitutto il peculato d’uso. Come è noto, si è sinora discusso se tale ipotesi potesse rientrare o meno nella previsione dell’art. 314 c.p., quanto meno come forma di peculato per distrazione. Sul pun- to si erano manifestate opinioni contrastanti e, dunque, il dubbio im- poneva una previsione apposita: come, appunto, è avvenuto tramite la legge n. 86.

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Ancora: la malversazione ai danni dello Stato. E’ una figura cri- minosa di cui si sentiva da tempo l’esigenza. Se ne parlò in rela- zione all’abuso di finanziamenti pubblici in un Convegno interna- zionale, che si tenne a Roma negli anni ‘70, sulla criminalità eco- nomica, e nel quale ebbi modo di presentare un apposito studio, che è negli atti di quel convegno. Ne risultava che, salvo alcune spe- cifiche norme in materia agraria, in tutti gli altri casi, chi riceveva dei finanziamenti pubblici e non li destinava allo scopo stabilito, non era penalmente perseguibile, salvo che fosse configurabile la truffa o che si fosse provato l’accordo col funzionario che aveva con- cesso l’erogazione, risultando così, questa, fin dall’inizio destinata ad una finalità diversa da quella legale: onde era possibile ricon- durre il fatto al peculato per distrazione. In tal caso il destinatario del finanziamento concorreva col pubblico funzionario; altrimenti la destinazione diversa, data dal privato al denaro ottenuto dallo Stato, rimaneva priva di rilevanza penale. Emerse che il fatto esi- geva una previsione penale apposita, se pur l’intervento penale co- stituisca, in virtù del principio di sussidiarietà, l’extrema ratio. Unica remora per non inserire questo reato tra i delitti in questione sa- rebbe stata la sua natura di reato comune e non “proprio”, perché il soggetto attivo non è un agente pubblico. Senonché, la precisio- ne sistematica può talora cedere di fronte all’opportunità della pe- nalizzazione, onde deve riconoscersi che questa figura bene è en- trata nel nuovo codice penale, tramite la legge n. 86 del 1990.

Ed ancora: la corruzione in atti giudiziari. Il codice, come è noto, la prevedeva quale circostanza aggravante della corruzione:

si riteneva tuttavia in prevalenza che dovesse essere elevata a figu- ra autonoma di reato, sia per sottrarla al giudizio di comparazio- ne, sia per darle uno specifico rilievo, evidenziando il particolare disvalore del fatto. Anche tale esigenza risulta soddisfatta dalla leg- ge n. 86.

Il predetto disegno di legge n. 1250 prevedeva, inoltre, l’istiga- zione (non accolta) del p.u. alla corruzione, onde superare una in- giustificata disparità di trattamento, essendo l’istigazione punita dal testo originario del codice soltanto se proveniente dal privato. Ed an- che tale proposta è stata accolta dalla nuova legge.

Infine: nel testo originario del codice non era prevista l’utilizza- zione di segreti di ufficio, mentre vari episodi hanno dimostrato che si tratta di un fatto non infrequente e di non poca gravità.

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Qualcuno ha trovato in tale comportamento una analogia con l’insider trading, ma l’accostamento è impreciso, poiché tale ultima figura non è caratterizzata dalla natura necessariamente segreta del- la notizia, ma solo dal suo carattere privilegiato: la notizia insider, infatti, è soltanto sconosciuta al pubblico nel momento in cui l’agen- te (insider primario o secondario) la sfrutta, avendola conosciuta pri- ma degli altri; ma essa è destinata – se pur talora solo in un mo- mento successivo – ad essere pubblicizzata.

Come già accennato, le cinque nuove figure criminose sinora ri- cordate, (alcune peraltro, come ad esempio la corruzione in atti giu- diziari o l’istigazione del p.u. alla corruzione, sono rimaneggiamen- ti, per enucleazione o aggiunta, di reati già esistenti) oggetto della proposta Vassalli, hanno trovato posto nella nuova legge.

Le altre quattro nuove ipotesi previste dal disegno di legge n.

1250, invece, non sono state trasfuse nella legge n. 86: la concussio- ne ambientale, il peculato mediante abuso della funzione di controllo, il peculato di energie di lavoro e l’assenteismo, così, restano fuori dal nostro sistema penale.

Quanto alla prima fattispecie, si è già detto quali ne fossero i caratteri e quali sono stati gli ostacoli ad introdurla.

Della seconda, poi, è assai interessante la delineazione fatta nel- la proposta ora ricordata. Questa partiva dal presupposto che la ve- rifica della legittimità delle destinazioni pubbliche dovesse essere sot- tratta al giudice penale, per devolverla in via esclusiva agli organi del controllo amministrativo. Quasi a “compensazione”, poi, si pre- vedeva che il funzionario addetto al controllo, il quale si prestasse ad una “copertura” di destinazioni illegittime, dovesse rispondere di questo reato particolare. Si spostava così sul fronte del controllo am- ministrativo il problema della responsabilità del peculato per distra- zione, con una soluzione che, se pur idonea a ridurre (senza peral- tro eliminare) le ipotesi di “sindacato”, appariva assai discutibile sul piano dei principi.

Il peculato di energie di lavoro è ipotesi corrispondente ad un fatto alquanto diffuso e che, nel progetto Vassalli, veniva configura- to come reato necessariamente abituale.

Quanto all’assenteismo dei pubblici dipendenti, infine, si tratta, com’è noto, di un comportamento del quale tanto si è discusso, so- prattutto per i suoi possibili rapporti con la truffa ai danni dello Stato, e che tuttavia non è riuscito sinora a trovare giusta colloca-

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zione all’interno delle figure esistenti: onde sarebbe stata opportuna l’introduzione della nuova fattispecie criminosa.

13. B) La riforma, peraltro, non ha risposto adeguatamente alle esigenze da cui è nata. E ciò, malgrado la lunga gestazione (le pri- me proposte, come si è visto, risalgono agli anni ‘60) e l’intensa fa- se conclusiva del dibattito parlamentare, durata quasi cinque anni.

Ma proprio questo dato già basterebbe a far cogliere quanto tor- mentata sia stata l’elaborazione di quella che, poi, è diventata la leg- ge n. 86 del 1990. Tanti erano, del resto, i problemi, tanti i disegni di legge, tante le voci che si sono pronunciate sulla materia e trop- pe le discussioni che si sono aperte. E dopo alterne vicende, si è ar- rivati all’approvazione frettolosa della legge, nell’aprile 1990.

Si può ora tracciare un quadro, se pur sintetico, delle innova- zioni introdotte dalla legge.

Come ho già accennato, dalla riforma sono stati interessati 13 articoli dei 15 compresi tra il 314 ed il 328 del c.p. (con esclusione del 325 e del 327); ne sono stati aggiunti 5 ed abrogati 2. In questo modo gli articoli compresi tra il 314 e il 328, sono diventati ben 18, poiché si sono “interpolati” il 316 bis, il 317 bis, il 319 bis, il 319 ter e il 323 bis.

Sono stati, inoltre, modificati gli artt. 357 e 358, che danno le nozioni di pubblico ufficiale e di incaricato di un pubblico servizio.

Ciò premesso, la portata dell’intervento legislativo va esaminata anzitutto su di un piano generale e, quindi, con riferimento alle sin- gole ipotesi di reato.

a) Un primo risultato è stato quello della ridefinizione delle qua- lifiche soggettive. Come si è or ora accennato ed ancora si vedrà più avanti, le figure del pubblico ufficiale e dell’incaricato di un p.s. sono state ridisegnate, con una formulazione diversa da quella risultante dal testo originario del codice ed in chiave decisamente “oggettiva”.

Nel contempo si sono eliminate le limitazioni nella “soggettività attiva” per i reati del gruppo in questione, rendendo comune a tutti la previsione in chiave dualistica ed alternativa (pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio). Si sono esauditi, così, i voti che si erano fatti sin dai progetti Reale e Gonella, degli anni ‘60, so- prattutto quanto alla concussione, estendendone all’incaricato di un pubblico servizio l’ambito soggettivo. E ciò è avvenuto anche per l’abuso di ufficio.

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Sempre su di un piano generale, sono state ritoccate le sanzio- ni: tuttavia, sostanzialmente, ciò è avvenuto riducendole, e non, co- me parrebbe a prima vista, inasprendole. Ed infatti, quanto al pe- culato per distrazione ed alla malversazione per distrazione, la pena è scesa in ogni caso, perché tali figure sono state ricondotte all’abu- so di ufficio. Onde, se pur ricorra l’abuso d’ufficio a fini patrimoniali, la pena si è comunque dimezzata (massimo di cinque anni, a fron- te dei dieci o otto precedenti). Analogo “ribasso” ha riguardato l’in- teresse privato in atti di ufficio, ricondotto anch’esso all’abuso di uf- ficio e, quindi, punito con pena ridottasi a due anni di massimo, a meno che non sia commesso a fini patrimoniali. Del pari, per una delle aggravanti della corruzione giudiziaria la pena è scesa da quel- la di sei-venti anni a quella di quattro-dodici anni

Di fronte a questo indebolimento della tutela, diventa scarsa- mente significativo il fatto che per la corruzione impropria il mini- mo sia salito da quindici giorni a sei mesi e che per la corruzione propria susseguente la pena sia salita da quella di uno-tre anni a quella di due-cinque anni.

Le stesse considerazioni valgono in ordine alle altre modifiche sanzionatorie: si tratta, infatti, solo di piccoli ritocchi in peius, men- tre le modifiche più consistenti, sopra ricordate, sono in melius.

Se dovessimo, quindi, fare un bilancio complessivo della inciden- za della riforma sulle pene, io avrei molta esitazione a sostenere che le pene sono state inasprite nel complesso, visto che, per i reati non poco gravi (peculato per distrazione, interesse privato) – se pur non siano, tra quelli in questione, i più gravi – le pene sono state ridotte.

Analoghe considerazioni valgono quanto alla eliminazione delle pene pecuniarie congiunte. Su questo punto vi è stato accordo, per- ché si è ritenuto che la pena pecuniaria fosse estranea al disvalore tipico di questi reati e costituisse quindi una aggiunta assolutamen- te superflua. Li dove, però, la previsione, essendo alternativa, rende più mite la risposta sanzionatoria, tale pena è rimasta. E così , in tema di omissione di atti di ufficio (figura di reato sostanzialmente

“banalizzata”), nel comma secondo del nuovo art.328 la pena pecu- niaria è ancora prevista in alternativa a quella detentiva, onde, an- cor oggi, pur di fronte a violazioni di doveri funzionali, si può ap- plicare soltanto la multa.

Per i reati del gruppo in questione, (salvo che in cinque casi), inoltre, è stata introdotta l’attenuazione del fatto di particolare tenuità,

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tramite il nuovo articolo 323 bis. Di questa attenuante si avvertiva l’esigenza e, pur nel quadro, già descritto, di un sistema sanzionato- rio divenuto complessivamente più mite, essa può essere, forse, un utile strumento per mitigare la pena nei casi in cui è ancora parti- colarmente elevata, come nel caso del peculato (per appropriazione).

Sul piano generale l’intervento legislativo si conclude con l’at- tribuzione della competenza per i reati in questione al Tribunale, ra- tione materiae. E’ una innovazione di tipo processuale che, però, ha un notevole significato politico ed istituzionale, perché, spostando la competenza per molti di questi reati (ad esempio l’abuso di ufficio e l’omissione) dal pretore al tribunale, sembrerebbe rivolta a sottrarre ai c.d. pretori d’assalto la possibilità di intervenire nei confronti del- la p.a.: che è un modo ulteriore, se pur del tutto improprio, di ri- solvere il problema del sindacato.

14. b) Sul piano delle singole fattispecie, occorre ricordare che sono state ridefinite o “manipolate” ben quattro figure criminose: il peculato, la corruzione, l’abuso innominato e l’omissione di atti di ufficio.

Sono stati, inoltre, abrogati 2 articoli, il 315 ed il 324: onde, se ci si fermasse alla superficie delle cose, sembrerebbero eliminate le figure della malversazione e dell’interesse privato in atti di ufficio che, invece, come vedremo, sono rifluite nell’alveo di figure più am- pie e cioè del peculato e dell’abuso di ufficio. Deve, anzi, sottolinearsi che con la riforma, in sostanza, nessuna delle precedenti figure è sta- ta eliminata.

Sono state, infine, introdotte cinque figure criminose nuove, già sopra esaminate (peculato d’uso, malversazione a danno dello Stato, corruzione in atti giudiziari, istigazione da parte dell’agente pubbli- co alla corruzione, utilizzazione di segreti d’ufficio).

Su questi aspetti della riforma, ovviamente, non mi soffermerò, essendo previste altrettante specifiche relazioni. Lascio, quindi, il compito a chi mi seguirà.

Ritengo, invece, doveroso esprimere un giudizio generale sui va- ri interventi sin qui illustrati. E le critiche sono inevitabili.

15. In primo luogo non si può fare a meno di notare che, nell’ap- provare frettolosamente la nuova legge, il legislatore sembra essere incorso in talune “sviste” ed in talune dimenticanze.

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Quanto alle prime, mi riferisco a quelle che appaiono inconte- stabili, mentre per i punti “opinabili” la sede naturale è la discus- sione, da svolgere in rapporto a quanto diranno gli altri relatori.

La prima svista è quella che concerne l’art. 319 ter, relativo alla corruzione in atti giudiziari. Figura, purtroppo, di non poca impor- tanza, questa, che il legislatore ha giustamente estrapolato dall’in- terno della corruzione, elevandola a reato autonomo. Nel far questo, però, è accaduto che, nel passaggio tra i vari testi, approvati, deca- duti, ripresentati, e così via, la formulazione originaria sia mutata, così da risultare non del tutto felice.

La nuova norma incriminatrice comparve nella IX legislatura, nella proposta del Senatore Vassalli (n. 1250) e nel disegno gover- nativo n.2844, già più volte ricordati, ed era limitata alla corruzione propria; fu, quindi, riproposta, negli stessi termini, nella X legislatu- ra, nel disegno governativo n. 2441. Senonché, in sede di approva- zione da parte della Commissione Giustizia della Camera, la previ- sione veniva ampliata, comprendendovi anche la corruzione impro- pria. Ora, se è vero che, sul piano meramente logico, l’ipotesi della corruzione giudiziaria impropria è ben configurabile (es: giudice che riceva denaro per depositare tempestivamente una sentenza), non è men vero che,consistendo la corruzione impropria nel compimento di un “atto di ufficio” e quindi legittimo, non è configurabile quel fi- ne di “favorire” o “danneggiare” che è richiesto dalla nuova norma con espressioni ricavate da quella del testo originario del codice, nel quale avevano certo un senso, in quanto l’aggravante era prevista per la sola corruzione propria.

Ma vi è di più: l’art. 319 ter prevede la stessa pena sia per la cor- ruzione giudiziaria propria che per quella impropria: e questo non sembrerebbe logico, visto che nei casi ordinari sono state previste delle pene nettamente diverse, per le due forme di corruzione ed, in particolare, minori per la corruzione impropria. Ora, se pur l’esten- sione non sia stata “accidentale” (come risulta dalla relazione dell’Onorevole Battello), non si può pensare, per gli aspetti ora se- gnalati, che ad un difetto di coordinamento (2).

(2) I due inconvenienti - a differenza di altri che saranno segnalati avanti - non sono stati, peraltro, eliminati neanche con la legge 7 febbraio 1992, n. 181, intervenu- ta nel corso della pubblicazione del presente volume.

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16. Quanto alle “dimenticanze”, può rilevarsi:

a) Nell’art. 321, che prevede le pene per il corruttore – ed anche qui si tratta, con sconcertante coincidenza, della corruzione – non è ricordato l’art. 319 ter: proprio quello in relazione al quale si è ap- pena finito di mettere in luce la “svista” del legislatore. Stando alla lettera della legge, ciò dovrebbe significare, paradossalmente, che il privato corruttore non è punibile proprio in uno dei casi più gravi, tanto gravi da aver dovuto costituire oggetto di una nuova autono- ma previsione: cioè della corruzione in atti giudiziari.

Si potrebbero operare, è vero, dei “tentativi di salvataggio”, ri- salendo all’indietro da un articolo all’altro, come propose l’Onorevole Battello, nella discussione al Senato, escludendo, così, che vi fosse una lacuna nell’art. 321. Ma ciò non gioverebbe molto. Si tratta, in- fatti, soltanto di un espediente verbale. La realtà è, invece, un’altra:

l’art. 319 ter è stato dimenticato nei richiami interni dell’art. 321, du- rante uno dei tanti “passaggi” tra i due rami del Parlamento, perché è entrato come articolo aggiuntivo, e non c’è stato coordinamento.

E, quando ciò è emerso, si è cercato, ma a mio parere vanamente, di salvare la norma (3).

b) Una ulteriore dimenticanza riguarda le pene pecuniarie con- giunte (non quelle alternative, che indeboliscono la risposta punitiva), eliminate, in questi reati, come si è visto, perché ritenute inopportu- ne. Ora, imboccata questa strada, il legislatore avrebbe dovuto elimi- narle anche per le altre ipotesi comprese, per collocazione, nel grup- po di reati oggetto della riforma, se pur non toccate in alcun modo da essa: e precisamente, nel caso dell’art. 325. Anche questa norma, infatti, prevede la pena pecuniaria cumulativa e, stando alla nuova fi- losofia alla quale si ispira la legge n. 86, essa avrebbe dovuto certa- mente scomparire, non essendovi nessuna ragione per differenziare questo dagli altri casi, salvo la constatazione che questa figura cri- minosa era già ben formulata e non esigeva una ridefinizione.

c) Altra dimenticanza riguarda il coordinamento dell’art. 328 con l’art. 17 della legge n. 117 del 1988, sulla responsabilità civile dei ma- gistrati. Com’è noto, tale norma aveva modificato l’art. 328 del co- dice penale, raccordandolo con l’art. 3 della stessa legge, che preve-

3) A tale inconveniente, invece, ha rimediato la legge n. 181 del 1992, già ricor- data nella nota precedente, con l’art. 2.

(25)

de il diniego di giustizia. E’ vero che ormai le ragioni di giustizia compaiono nel primo comma dell’art. 328; non sarebbe stato inop- portuno, tuttavia, prevedere una disciplina differenziata per l’omis- sione di atti di ufficio del magistrato, considerata, da un lato, l’im- portanza della funzione svolta e, dall’altro, la pesantezza del carico giudiziario che, come è noto, sta comportando interventi continui in chiave di deflazione penale, tramite leggi di depenalizzazione, am- nistie etc.

D’altra parte, se si tiene conto che, come vedremo fra breve, nel primo comma dell’art. 328 che prevede i c.d. atti privilegiati o qua- lificati, si colpisce soltanto il rifiuto e non anche l’omissione, ci si rende conto di come questa dimenticanza diventi ancora più grave.

Si deve, peraltro, ricordare che la Commissione Giustizia della Camera, nel discutere un testo che prevedeva nell’art. 328 un terzo comma analogo a quello introdotto dalla legge 117, lo eliminò, es- sendosi osservato (On. Fidelbo) che altrimenti vi sarebbe stata coin- cidenza tra responsabilità civile e penale.

d) Un’altra dimenticanza concerne il coordinamento con le leg- gi speciali. Nel modificare l’art. 323 del codice penale, nel quale con- fluisce ora anche l’interesse privato in atti di ufficio, non si è con- siderato che vi sono altre due ipotesi, speciali, di interesse privato, fuori del codice. E precisamente: nell’art. 228 della legge fallimen- tare, ove è previsto l’interesse privato dal curatore fallimentare, pu- nito con pena maggiore di quella prevista dal “vecchio” art. 324 c.p., ossia la reclusione da due a sei anni, oltre alla multa: e nell’art. 2637 del codice civile, che prevede l’interesse privato dell’amministratore giudiziario e del commissario governativo, punendolo con tale stes- sa pena.

Ora, se la reclusione da due a sei anni poteva anche apparire proporzionata (in considerazione di una maggiore gravità dei casi previsti dalle leggi speciali: ma il punto è assai controverso) quando l’interesse privato in atti di ufficio, per così dire, “comune”, era pu- nito con pena da sei mesi a cinque anni, non lo è più oggi, che l’in- teresse privato, confluito nell’abuso di ufficio, può comportare la re- clusione fino a cinque anni solo se commesso per fini patrimoniali, mentre, se commesso per fini non patrimoniali, è punito con pena fino a due anni (ossia, la terza parte di quella prevista per le ipote- si speciali): e che, comunque, per entrambi i casi, è scomparsa la pe- na pecuniaria congiunta.

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17. Ma la dimenticanza più vistosa, è quella che riguarda la di- sciplina transitoria.

Si tratta di un problema non poco delicato, che concerne so- prattutto la “sorte” delle figure di reato che, a prima vista, sembre- rebbero eliminate dal sistema: ossia, anzitutto la malversazione e l’in- teresse privato, la cui esplicita previsione è scomparsa dal codice, a seguito della abrogazione espressa degli artt. 315 e 324 (art. 20 leg- ge n. 86); ed inoltre il peculato per distrazione, non più previsto dal

“nuovo” art. 314, riformulato con esplicita previsione della sola con- dotta di appropriazione. Ma il problema si pone anche per l’abuso di ufficio, a causa della riformulazione dell’art. 323.

Su tale problema, giungere a delle immediate conclusioni non è semplice, in quanto si aprono questioni assai complesse. E ciò pro- prio per la mancanza di specifiche norme in proposito. Eppure il mi- nistro Vassalli, nella relazione che accompagnava il disegno gover- nativo n. 2441, più volte ricordato, aveva rilevato che occorrevano anche le norme transitorie, concludendo tuttavia col ritenere oppor- tuno che fossero formulate “quando saranno definite le linee fonda- mentali della riforma”. Senonché, quando ciò è avvenuto, il legisla- tore, frettoloso, pur dopo la lunga gestazione (anzi, forse, proprio per questo), ha dimenticato le norme transitorie. E, così, non sem- bra essersi reso conto che, senza specifiche disposizioni di legge sul- la successione delle varie figure, si sarebbero potute prospettare (ed è già avvenuto) diverse soluzioni, e, tra queste, alcune addirittura

“devastanti” dal punto di vista della repressione degli illeciti dei pub- blici amministratori.

Eppure, in altre occasioni, l’esigenza di prevedere il regime tran- sitorio aveva prevalso sull’urgenza e le norme transitorie erano sta- te emanate. Mi voglio riferire, tanto per fare solo un esempio, alla legge n. 194 del 1978 sull’interruzione della gravidanza, dove, nell’art.

22, il legislatore aveva risolto il problema dell’aborto di donna con- senziente, verificatosi prima della entrata in vigore della legge, affi- dando al giudice il compito di esaminare se ricorressero o meno le condizioni perché in base alla nuova legge si dovesse ritenere esclu- so l’aborto di donna consenziente e disciplinando, così, il regime dei fatti pregressi. Tale norma contribuì anche a risolvere il problema del referendum, di cui le precedenti norme del codice penale erano state oggetto, poiché anche in base ad essa l’Ufficio Centrale poté af- fermare che c’era stata una modificazione sostanziale di disciplina

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della materia nel passaggio dal codice alla nuova legge, onde cessa- rono le operazioni referendarie. Il regime transitorio, dunque, pre- senta una rilevanza che si può spingere anche ad effetti ulteriori ri- spetto alla mera vicenda successoria, quali, appunto, quelli di un re- ferendum abrogativo.

Nel nostro caso, invece, il legislatore si è limitato, nell’art. 20 della legge, a stabilire che sono abrogati gli art. 315 e 324 del codi- ce penale.

Di fronte ad una disposizione così precisa, si potrebbe essere in- dotti a concludere che, siccome gli artt. 315 e 324 sono stati abro- gati, si è verificata un’ abolitio criminis: onde, stando all’art. 2, com- ma secondo, del codice penale, i fatti di malversazione ed interesse privato (ma il problema in parte, come già accennato, si pone anche per il peculato per distrazione e per l’abuso d’ufficio) commessi pre- cedentemente (al pari di quelli successivi, del resto) non sono più punibili, se pur vi sia stato giudicato. Ed, infatti, si è già levata qual- che voce in tal senso.

Questa soluzione, tuttavia, non pare accettabile, soprattutto sul piano metodologico. E’ noto, infatti, che se l’abrogazione di una nor- ma penale non è pura e semplice ma è accompagnata da una nuo- va norma penale la quale ridisegna la figura criminosa, ovvero se, comunque, il fatto risulta riconducibile ad altra norma, preesistente o nuova, stabilire se ci sia stata o meno abolitio criminis, è un pro- blema tutto ancora da risolvere e che richiede una attenta indagine interpretativa.

L’art. 20 della legge n. 86, dunque, in sé stesso non significa nulla: o meglio significa soltanto che, sul piano formale, la malver- sazione e l’interesse privato in atti d’ufficio, non sono più discipli- nati espressamente da apposite norme del codice penale. Si tratta, invece, di vedere se, ora, queste figure sono disciplinate da altre nor- me, e se, in tal caso, queste norme si possono applicare anche ai fatti pregressi.

In tale operazione un rischio non lieve si prospetta: ossia quello di applicare retroattivamente ed in malam partem la norma penale.

Orbene, possiamo quì prescindere dal richiamare le discussioni svoltesi, soprattutto nella dottrina tedesca, circa i criteri sulla cui base risolvere il problema (teoria del “fatto concreto”, della “conti- nuità del tipo illecito”, della “piena continenza”) tutti, in definitiva, insoddisfacenti.

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Più promettente, forse, è la prospettiva aperta dal ricorso al prin- cipio di specialità; tenendo conto, però, che può presentarsi come speciale sia la vecchia norma che la nuova.

Ed infatti, se nel rapporto tra la vecchia e la nuova norma era speciale la prima ed è più ampia e generale la seconda, sempre che il fatto previsto dalla precedente si possa far rientrare nella seconda, non c’è dubbio che ci sia successione meramente modi- ficativa e non abolitio: onde va applicata, tra le due norme, la più favorevole. Ed infatti, se la nuova norma è generale, è segno che essa comprende tra le varie sottofattispecie anche quella prevista come fattispecie principale dalla norma precedente e quindi non vi sarebbe nessuna ragione per ritenere che c’è stata abolitio cri- minis. Se invece era generale la precedente ed è speciale la se- conda, onde non tutte le sottofattispecie rientranti nella precedente continuano ad essere reati in base alla nuova, bisognerebbe ac- certare se il fatto che è stato commesso è di quelli che rientrano nella nuova norma speciale e solo in tal caso vi sarà successione modificativa: altrimenti si deve ritenere essersi verificata una abo- litio criminis.

Casi di questo genere, del resto, si verificano non infrequente- mente. Ad esempio, quando fu abolito il reato di procurata impo- tenza alla procreazione (art. 552 c.p.), si discusse se la sterilizzazio- ne costituisse ancora reato in quanto rientrante nelle lesioni aggra- vate, ai sensi dell’art. 583 c.p.. La soluzione prevalente è stata quel- la positiva, perché l’abolizione della norma speciale faceva riespan- dere la sfera di applicazione della norma generale: questa, in pre- senza della norma speciale, si era vista sottrarre alcuni casi, onde, una volta eliminata la norma speciale non poteva che riallargarsi. La soluzione non è diversa – se pur il fenomeno lo sia – quando la nor- ma generale non è la precedente bensì la nuova.

A questo punto, peraltro, il tema, nella sua ricostruzione dom- matica, va, ovviamente, abbandonato, restando, invece, del massimo interesse, l’esame delle posizioni giurisprudenziali.

E’, così, assai interessante notare che il problema è stato già af- frontato dai giudici di merito ed è anche arrivato all’esame della Corte di Cassazione. Una sentenza delle Sezioni Unite del 20 giu- gno 1990, che sembra essersi ispirata al criterio della continuità del tipo di illecito, ha affermato che, sempre che sussista un nesso di continuità e di omogeneità delle rispettive previsioni, non si appli-

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ca il comma secondo dell’art. 2 del c.p. ma il comma terzo, verifi- candosi, quindi, non una abolitio criminis, ma una vicenda di suc- cessione di leggi penali meramente modificativa: onde, tra le due norme, si applica quella che è più favorevole al reo. Così la Cassazione, nella sentenza sopra ricordata, ha sostenuto che, “tra il nuovo testo dell’art. 323 c.p. e i precedenti artt. 323 e 324 c.p., sus- siste un nesso di continuità e di omogeneità delle previsioni, che ri- conduce l’interferenza di tali precetti nel più complesso fenomeno di successione di norme incriminatrici, nell’ambito del quale la nuo- va legge, se – da un lato – ha ampliato, sotto qualche aspetto, le previgenti previsioni incriminatrici ed escluso – dall’altro – la rile- vanza penale di alcune ipotesi già punite come reato, rispetto ad al- tre ipotesi ha mantenuto tale rilevanza, imponendo per esse l’indi- viduazione della norma più favorevole applicabile ai sensi dell’art.

2 comma 3 c.p.”.

18. La riforma, poi, non è neanche valsa a placare le dispute sui numerosi problemi riguardanti i delitti degli agenti pubblici con- tro la p.a.. Non pochi di essi, infatti, sono rimasti irrisolti e, in ag- giunta, se ne sono aperti di nuovi.

a) Quanto ai problemi irrisolti, mi sembra opportuno comincia- re da quello delle qualifiche soggettive, poiché le relative nozioni, pur essendo confinate nell’ultimo capo (il terzo) del titolo secondo del li- bro secondo, costituiscono, ovviamente, la base della disciplina.

Ebbene, se pur basata in entrambi i casi sul criterio oggettivo, la di- stinzione tra pubblico ufficiale ed incaricato di un pubblico servizio non si può dire che sia stata migliorata dalla nuova legge. L’incari- cato di un pubblico servizio continua a collocarsi in quella posizio- ne intermedia tra l’esercizio della pubblica funzione e il servizio di pubblica necessità, in cui si trovava in precedenza: con una defini- zione in un certo senso “residuale” che non giova certamente al chia- rimento del relativo concetto. Né può dirsi che la estensione anche all’incaricato di un p.s. di tutti i reati (tra quelli oggetto della rifor- ma) già previsti per il pubblico ufficiale, elimini la necessità di di- stinguere le due figure. Infatti, anche in questo limitato campo, sus- sistono differenze di disciplina tra le due figure (ad esempio, in te- ma di corruzione) e, comunque, queste differenze permangono in re- lazione al altre categorie di reati (es. reati di falso) ed agli altri ef- fetti penali per i quali la distinzione rileva.

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