2. La stagione della “restaurazione”, ovvero quando il problema è la “questione giustizia” 23
2.2. L’agenda politica dei governi di centro-sinistra: tra “questione morale” e “questione
Le elezioni politiche dell’aprile del 1996, portano al Governo il centro-sinistra, la cui parentesi, non breve, sarà caratterizzata da un frequente passaggio di consegne, causa continue crisi di Governo, arrivando fino ai primi anni del nuovo secolo.
Nell’arco di questi cinque anni, per la prima volta dallo scoppio dello scandalo Tangentopoli, la questione morale sembra, per così dire, entrare dalla porta e non più dalla finestra: nel programma politico del cinquantesimo Governo italiano, figura, infatti, la lotta alla corruzione. Il progetto ricalca, grossomodo, lo stesso che propose il pool di Milano appena due anni prima, comprendendo proposte come, l’unificazione del reato di concussione e corruzione, per il quale sono previste, ora, pene più severe, incentivi per chi confessa, l’attuazione della c.d. legge Merloni (ter), che nel frattempo ha continuato a restare “lettera morta”, e l’istituzione di un’Authority per la prevenzione della corruzione.
Nel settembre del 1996, viene istituita alla Camera dei deputati la prima Commissione speciale anti-corruzione, composta da deputati bipartisan e coadiuvata da un Comitato di studio, c.d. Comitato dei tre saggi, composto da tre studiosi, fra i quali l’ex Ministro per la Funzione pubblica del Governo Ciampi, Sabino Cassese e il sociologo/politologo Alessandro Pizzorno.
La Commissione, e quindi il Comitato, hanno il compito di studiare il fenomeno corruzione e proporre soluzioni per arginare il problema. Delle dieci proposte formulate in un anno e mezzo di lavoro, solo quattro, riviste e modificate, verranno approvate alla Camera, mentre solo una di quelle diventerà Legge, ossia, la proposta n.2 che prevede la sospensione e/o la decadenza dal ruolo di pubblici funzionari, per coloro che si macchiano di un reato contro la Pubblica
amministrazione. Non passa di certo inosservato, ai più, il fatto che la legge in questione non si estende fino a comprendere la classe politica.
È da annoverare, in questo senso, anche l’istituzione presso il Ministero della Funzione pubblica, di una Commissione di studio per contrastare la corruzione nel settore pubblica amministrazione e migliorarne l’azione.
Altri due riforme approvate, invece, hanno un effetto indiretto sul fenomeno della corruzione, agendo sul sistema dei controlli e nel settore pubblica amministrazione. La prima, che integra e modifica la legge 468/1978, è la legge 94/1997, contenente nuove disposizioni sulla struttura di Bilancio dello Stato, che dovrebbe rendere più trasparenti i programmi di azione pubblica, e in particolare il controllo dei risultati della gestione, sulla falsa riga di quanto già precedentemente disposto dal d.l. 29/1993 e dalla legge 20/1994.
La seconda, invece, è la legge 59/1997, conosciuta come Legge Bassanini, dal nome del suo promotore, e le sue successive integrazioni, quali l. 127/1997 (Bassanini-bis), 191/1998 (Bassanini-ter), nonché la l. 50/1999 (Bassanini-quater) contenente la delega al Governo in materia di decentramento e semplificazione delle procedure amministrativa. Si tratta di un intervento corposo e ambizioso che mette in atto una serie di novità: la legge 59/1997 completa il progetto di semplificazione attraverso il decentramento, da Stato a Regioni e enti locali, di funzioni e competenze, con una maggiore attenzione al livello locale in quanto più vicino al cittadino, in modo da ovviare anche al problema della poca trasparenza e di una discrezionalità distorta, dietro le quali si nascondono pratiche corruttive. Mentre la legge 127/1997 (Bassanini-bis), semplifica in particolare le norme sulla documentazione amministrativa, come il caso delle autocertificazioni, già disciplinate nella legge 241 ma fino a quel momento rimaste “lettera morta”, e le dichiarazioni sostitutive. Infine, il d.lgs. 112/1998 (Bassanini-ter), nell’ambito del conferimento di funzioni e compiti amministrativi agli enti locali in diversi ambiti come, ambiente, territorio, urbanistica e sviluppo economico, semplifica i procedimenti in materia di attività produttive attraverso l’istituzione dello Sportello unico per le attività produttive, che consente alle imprese di razionalizzare e coordinare in un'unica istanza, le procedure di avviamento, chiusura o riconversione di attività.
Infine il d.lgs. 286/1999, emanato nell’ambito della delega al Governo in materia di decentramento e semplificazione amministrativa (l.59/1997 c.d. Bassanini), introduce una nuova disciplina organica sui controlli interni di gestione, adottando una logica tipicamente manageriale. In questo senso si introduce una distinzione tra le varie tipologie di controllo, ribadendo il confine tra indirizzo politico e gestione amministrativa e completando la riforma della dirigenza, collegando la valutazione dell’operato dell’amministrazione con la responsabilità dirigenziale sui risultati.
Al di là dei significativi interventi sopra citati, i governi di centro-sinistra di quegli anni si distinguono soprattutto per una maggiore attenzione alla c.d.
questione giustizia, rendendo così ancora più palese l’unico vero problema per la
classe politica;; fino a quel momento i tentativi di intervenire duramente sul sistema giudiziario, così da colpire e “azzoppare” le indagini su Tangentopoli, non avevano portato a risultati fruttuosi.
L’agenda politica del governo, subisce così un’improvvisa «conversione a U» (Barbacetto, Gomez, Travaglio 2012, p.681), giacché il programma con il quale si è presentata inizialmente, cambia rotta passando, appunto, dall’apparente centralità della «questione morale», alla palese centralità della «questione giustizia».
Dapprima, si “calpesta” ancora una volta la volontà del popolo rispetto all’esito del referendum del 1993 sull’abolizione del finanziamento pubblico;; la legge n.2 del 1997, infatti, lo reintroduce sotto forma di contribuzione volontaria, dando la possibilità ai cittadini di destinare, all’atto della dichiarazione annuale dei redditi, il 4 per mille dell’imposta sul reddito al finanziamento dei movimenti e partiti. Questi ultimi possono partecipare alla ripartizione delle risorse in proporzione ai voti ricevuti e a condizione che «abbiano (…) almeno un
parlamentare eletto alla Camera e al Senato».
Inoltre, la legge prevede, per le persone fisiche, le società di capitali e gli enti commerciali, che erogano il loro sostegno economico a partiti e movimenti, la possibilità di detrarre un importo del 22 per cento dell’onere, salvo che nelle dichiarazioni dei redditi dell’anno precedente a quello nel quale hanno versato i contributi, abbiano riportato delle passività.
La legge 2/1997, non avrà particolare successo, soprattutto perché la sfiducia e il malcontento della società civile è ancora presente e, inevitabilmente,
si riflette proprio sull’entità della contribuzione volontaria, che di fatto non supererà i 20/40 miliardi, rispetto ai 110 stimati (della Porta -Vannucci, 1999 p. 178).
Successivamente, con il necessario supporto dell’opposizione di centro- destra, si mette mano al codice penale e di procedura, con una serie di leggi assolutorie «ad personas» (Barbacetto, Gomez, Travaglio 2012, p. 682).
Il primo intervento riguarda l’art. 323 del codice penale sul reato di abuso d’ufficio, per il quale, ora, la legge 234/1997 dispone all’art. 1 che il pubblico ufficiale che «intenzionalmente procura a se o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale», è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Scompare, infatti, rispetto al vecchio testo, il riferimento all’abuso «non patrimoniale», e soprattutto, i termini della pena passano da cinque a tre anni, con conseguenze quali: niente intercettazioni, no custodia cautelare in carcere e termini di prescrizioni ridotti. Il Governo e la maggioranza parlamentare, decidono così di togliere alla magistratura uno strumento molto utile per le indagini, poiché una volta accertato l’abuso d’ufficio, spesso dietro lo stesso si nasconde uno scambio di tangenti, di conseguenza si arriva al reato di corruzione.
Le conseguenze della nuova legge si riflettono subito sui processi in corso, aventi come oggetto proprio il reato in questione: poiché non più previsto come tale dalla legge, questo comporta l’assoluzione degli indagati, tra i quali lo stesso primo Ministro di allora Romano Prodi, nonché la fine di un’inchiesta scottante detta “Affittopoli”( case di proprietà di enti previdenziali affittate a basso costo), che si stava sviluppando proprio in quel periodo.
Altro clamoroso «colpo di spugna», che guarda caso si inserisce proprio nella fase finale dei processi Tangentopoli, è la legge 267/1997 che riforma l’art. 513 del C.p.p., riguardo alle dichiarazioni rese dall’imputato durante le indagini preliminari e utilizzabili in occasione del processo. In sostanza, se l’imputato di un reato chiama in causa, nelle sue dichiarazioni rese in fase preliminare, una persona accusata di un illecito che è in qualche modo collegato a quello dell’imputato, e non riespone poi quelle accuse in occasione del processo a carico dell’accusato, non sottoponendosi neanche all’interrogatorio circa le sue dichiarazioni da parte dei difensori dell’accusato, quelle dichiarazioni non possono essere considerate valide in sede di processo. Saranno considerate tali, ai fini dell’accusa, solo se l’indagato in questione, richiamato dai Pm, si presenta in aula confermando quanto già precedentemente dichiarato. Di fatto, però questo non si
verificherà, poiché spesso l’imputato sceglierà la via del silenzio (avvalendosi della facoltà di non rispondere) o non presentandosi in aula, con conseguente assoluzione dell’imputato.
Dietro un valido principio garantista, come quello del giusto processo e del contradditorio e, più in generale, un diritto fondamentale riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, si nasconde in realtà l’ennesimo tentativo, riuscito, di una classe politica troppo attenta ad autoassolversi, ma anche, in questo modo, ad autoaccusarsi senza troppa vergogna. La conferma di quello che è il vero scopo della riforma, arriva proprio dalle conseguenze della legge in questione: l’assoluzione di personaggi di spicco nelle indagini “Mani Pulite”. Tuttavia, in seguito alle critiche di diversi esponenti della magistratura, che solleveranno una palese questione di illegittimità costituzionale della legge, la Corte Costituzionale, con sentenza 361/1998, dichiarerà l’incostituzionalità del nuovo art. 513 c.p.p..
Ma successivamente al passaggio di consegne tra il premier uscente Romano Prodi, e il subentrante Massimo D’Alema, il nuovo governo mette subito al vertice della propria agenda politica la questione, trovando un escamotage che coinvolge direttamente la Carta Costituzionale: l’art 111 della Costituzione, “cambia pelle”, e in nome, ancora una volta, di legittimi principi garantisti come, il giusto processo o la ragionevole durata, (quest’ultimo, in realtà, tutt’altro che garantito, giacché gli imputati di reato connesso in questo modo dovranno ripresentarsi al processo per confermare quanto già precedentemente, dichiarato, ma in realtà, come dimostrano le cronache di quegli anni, spesso difficilmente lo faranno, ) si nasconde sempre un atto assolutorio. Così, nell’arco di pochi mesi, si approva una legge costituzionale che fra i commi aggiunti, prevede: «La
colpevolezza dell’imputato non può essere approvata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore».
Nel frattempo, a cavallo tra il 1997e il 1998, viene istituita la Commissione bicamerale per la riforma dell’ordinamento della Repubblica. La Commissione, che inizialmente non avrebbe dovuto occuparsi di Giustizia, ma solo di «federalismo, parlamentarismo e forma di governo» (Barbacetto – Gomez – Travaglio 2012, p. 646), di fatto poi finisce per ricomprendere proprio la questione giustizia, per la quale viene studiata e proposta una bozza che, in otto punti, riassume quella che
dovrebbe essere la riforma del Titolo IV della Costituzione, provvedendo, fra le altre cose, alla separazione delle carriere tra giudici e Pm, aumentando i membri del Csm eletti dalla politica, disponendo la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale.
In seguito alle pesanti critiche provenienti dall’Anm, condivise, tra l’altro, dall’allora capo dello Stato, Scalfaro, in occasione di un congresso organizzato dalla stessa Associazione, e da esponenti di diversi partiti, il progetto della bicamerale tramonta definitivamente (Ivi, p. 654).
Altro intervento inerente la c.d. questione giustizia, è legge 165/1998 conosciuta come “Legge Simeone-Saraceni”, dai nomi dei suoi promotori, che modifica l’art. 656 del codice di procedura penale sull’esecuzione delle pene detentive, prevedendo, ora, la sospensione dell’ordine di carcerazione per le pene brevi, in particolare per quelle inferiori ai tre anni.
La legge, che modifica quella precedente chiamata “Gozzini” del 1986, la quale prevedeva, invece, l’esecuzione della pena e quindi la carcerazione del condannato, il quale, dietro apposita istanza poteva poi chiedere di scontare la pena in affidamento ai servizi sociali, prevede ora che il condannato in via definitiva, non varchi più la soglia del carcere, di fatto restando libero, poiché la pena è sospesa fino a che non gli viene notificata, e da lì avrà trenta giorni di tempo per richiedere, con istanza, l’affidamento ai servizi sociali o altra misura alternativa alla carcerazione.
La legge in questione, tuttavia, si inserisce in un momento cruciale dei processi su Tangentopoli, intanto perché fra i reati compresi nella stessa si trovano proprio quelli legati allo scandalo scoppiato nel 1992, e poi perché proprio in questo periodo si sta svolgendo il processo sulla c.d. “madre di tutte le tangenti”, ovvero l’affare Enimont, che vede coinvolti illustri personaggi del mondo politico e imprenditoriale, i quali grazie alla tempestiva modifica dell’art. 656 c.p.p., non varcano la soglia del carcere.
Inoltre, la l. 165, avrà come conseguenza probabilmente trascurata da una classe politica troppo attenta alle sue necessità assolutorie, quella che verrà definita «emergenza criminalità», che si diffonderà in quegli anni nel paese, a causa del fatto che il nuovo art. 656, contempla tra le fattispecie di reato soggette alla sospensione della carcerazione, anche i c.d. delitti di strada, e che per questo
spingerà, appena qualche anno dopo, a rivedere nuovamente la legge nel tentativo di mitigare quell’effetto negativo.
Nel 1999 viene approvata la legge n.157, che, ancora una volta, aggira l’ostacolo dell’esito abrogativo del referendum del 1993, rimediando al fallimento della contribuzione volontaria della legge del 2/1997. La legge prevede: un contributo di lire 4000 moltiplicato «per il numero di cittadini della Repubblica, iscritti nelle liste elettorali per l’elezione della Camera dei deputati», e di lire 3.400 per le elezioni europee, con un aumento complessivo del contributo per le spese elettorali da 134 miliardi a 175 (Veltri E. – Paola F. 2012);; abbassamento della soglia per accedere al finanziamento, dal 3% dei voti, all’appena 1%;; il tetto per le erogazioni liberali viene portato da 100 a 200 milioni di lire;; sospensione dell’erogazione del rimborso in caso di inosservanza degli obblighi stabiliti dalla legge o in caso di «irregolare redazione del rendiconto», almeno «fino ad avvenuta regolarizzazione».
Infine, come ultimo atto in prossimità dell’epilogo del quinquennio governativo del centro-sinistra, a compimento di una stagione di riforme dal netto sapore assolutorio che sembrano preparare un terreno favorevole per quelle poi varate negli anni successivi dal governo di centro-destra, ritroviamo alcuni interventi in materia fiscale.
Tra le diverse proposte che la Commissione anti-corruzione riceve in quegli anni, figura quella relativa alla depenalizzazione del falso in bilancio c.d. reato” sentinella”, vista la stretta affinità con quello della corruzione, dal momento che per occultare fondi neri contenenti anche risorse destinate ai partner politici in affari, che di certo non possono figurare nei bilanci, le imprese imputano tali flussi di denaro a voci quali, consulenze, spese per servizi, prestazioni ecc… Le cronache di Tangentopoli, sono ricche di conti bancari in paradisi fiscali, come la vicenda del conto “Protezione”, che nascondeva un’operazione finanziaria illecita e una consistente tangente destinata al Psi, o come i due conti svizzeri di cui era titolare Mario Chiesa;; celebre, a riguardo, la frase che il Pm Antonio di Pietro, all’inizio delle indagini nel 1992, rivolse all’avvocato di Chiesa, dopo aver scoperto l’esistenza di questi conti chiamati con i nomi di due note marche di acqua minerale: «avvocato, riferisca al suo cliente che l’acqua minerale è finita» (Barbacetto- Gomez- Travaglio 2012).
Nel novembre del 2000, il nuovo Governo Amato subentrato a D’Alema nell’aprile di quello stesso anno dopo le dimissioni di quest’ultimo, vara il d.l. 340/2000, in materia di semplificazione amministrativa e delegificazione, dove vengono inseriti una serie di articoli relativi alle società di capitali, abolendone il procedimento c.d. “omologatorio”, stabilendo così che, ad autorizzare la nascita delle società, nonché le principali operazioni, sia ora un notaio e non più un tribunale. L’emendamento in questione è stato inserito per ovviare alla lentezza dei tribunali nei procedimenti di omologazione, nonché per conformare il procedimento in questione a quello presente in altri paesi europei, in una più generale ottica comunitaria. In molti, invece, vedono in questa modifica l’ennesimo strumento sottratto ai giudici attraverso il quale scoprire operazioni finanziarie illecite.
Anche il d.lgs. 74/2000, in materia di reati tributari, sembra creare un terreno favorevole per l’evasione e per la corruzione, declassando la sotto- fatturazione o l’omissione, da reato di frode fiscale a «dichiarazione infedele», punita con la reclusione da 6 mesi a 3 anni, e individuando delle soglie di punibilità dell’evasione al di sotto delle quali l’intervento penale è escluso, ovvero delle soglie così alte che finiscono per legittimare l’evasione fiscale, dietro la quale si nasconde spesso la creazione di fondi neri.
Di segno opposto alle due riforme sopra, sono invece: la legge 300/2000, con la quale il Governo Amato provvede alla ratifica di alcuni atti internazionali, fra i quali la Convenzione europea relativa alla lotta contro la corruzione, del 1997, e la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri;; la legge 97/2001, riguardo agli effetti disciplinari dei procedimenti penali nei confronti dei pubblici dipendenti, che sembra mitigare quella condizione di “intoccabilità” dei dipendenti pubblici, prevedendo, fra le altre cose, la sospensione cautelare, anche in caso di condanna non definitiva;; d.lgs. 231/2001, che disciplina la responsabilità amministrativa degli enti per reato commesso da un soggetto appartenente agli stessi.
Da segnalare, poi, anche il d.lgs. 165/2001 che emana il Testo unico sul pubblico impiego, una riforma, come spiegato nell’articolo 1 dello stesso, che intende «accrescere l’efficienza delle amministrazioni», ovvero «razionalizzare la
spesa per il funzionamento delle pubbliche amministrazioni», così come indicate,
Come si è accennato più sopra, molte delle riforme varate nell’arco di tempo che va dal 1997 al 2001, seppure legittimate da nobili e validi principi garantisti come giusto processo, contradditorio, ragionevole durata, di fatto hanno finito col mortificare e calpestare gli stessi. Così, dietro il principio di ragionevole durata del processo, si cela in realtà l’esatto opposto, ovvero escamotage che allungano i tempi medi così da favorire l’effetto della prescrizione e risolvere i problemi dei molti illustri imputati di “Mani Pulite”.
È ciò che è accaduto con la riforma dell’art. 513 del c.p.p., e della conseguente modifica dell’art. 111 della Costituzione, che in nome di un (apparente) tanto agognato contradditorio e giusto processo, hanno invece reso la durata del processo «irragionevole»;; ma è anche il caso del pacchetto c.d. “Carotti”, che pure accompagnava una riforma ritenuta di grande spessore, il decreto legislativo 51/1998, che istituendo la figura del «giudice unico», razionalizzando il lavoro dei magistrati, riducendo i tempi della giustizia, e permettendo così agli stessi di concentrarsi sui processi più importanti, mentre, per contro, ha dilatato i tempi della giustizia, inserendo per esempio, una quinta fase di giudizio, il «deposito degli atti», e vanificando così la riforma del giudice unico.
Allo stesso modo, anche le riforme, (appena viste), varate nel settore fiscale, di fatto, intervenendo proprio in fasi cruciali dei processi che hanno visto imputati personaggi di spicco del mondo imprenditoriale italiano, hanno agevolato la loro posizione. Falso in bilancio, frode fiscale, finanziamento illecito ai partiti, ovvero i principali reati contestati, oggetto di cambiamenti che hanno stravolto le precedenti disposizioni, così da attenuare la posizione di coloro che dovevano risponderne.
Certo, se si pensa che entrambi gli interventi in materia societaria hanno trovato giustificazione in più generali adempimenti comunitari, e per contro, paradossalmente, i governi di centro-sinistra del biennio 1999-2001 non hanno trovato il tempo di ratificare la “Convenzione penale sulla corruzione” siglata nel 1999 a Strasburgo ed entrata in vigore nel 2002, (la ratifica arriverà solo nel 2012) con la finalità di coordinare l’azione penale contro la corruzione e avvicinare le legislazioni dei paesi membri, così da creare un fronte unico, questo alimenta ancora di più quella convinzione che, lo scopo della classe dirigente della
“seconda” repubblica è tutt’altro che arginare ciò che solo per la società civile e la sfera pubblica è un problema.