Capitolo I - Mani pulite: quando la corruzione corrode la Democrazia
1. Lo scandalo “Tangentopoli” ... 8
1.1. I pilastri del sistema Tangentopoli ... 10
1.2. Mani Pulite: tra conflitto, controllo di virtù e sfera pubblica ... 15
2. La stagione della “restaurazione”, ovvero quando il problema è la “questione giustizia” ... 23
2.1. La “seconda” repubblica: prove tecniche di autoassoluzione ... 29
2.2. L’agenda politica dei governi di centro-sinistra: tra “questione morale” e “questione giustizia” ... 33
2.3. Un governo “ad personam” ... 42
2.3.1. Le politiche anticorruzione dei Governi di centro-destra ... 47
3. Conclusioni ... 59
Capitolo II - I problemi nel modello democratico italiano 1. Premessa ... 61
2. La commistione tra politica e amministrazione ... 67
2.1. L’inefficacia dei controlli e la bassa trasparenza ... 69
3. La corruzione nell’attività contrattuale dello Stato ... 73
3.1. Gli imprenditori, ovvero, come apprendere “l’arte di corrompere” ... 78
3.2. Lobbying e corruzione ... 82
4. I costi della politica e il ruolo dei partiti nel sistema della corruzione ... 84
5. Conclusioni: quali conseguenze? ... 89
Capitolo III - L'inefficacia delle riforme post-Tangentopoli e il fallimento di "Mani pulite" 1. Le aree di intervento del Comitato di studio ... 97
1.1. Gli aspetti critici nelle riforme sui controlli e il persistere della commistione tra politica e amministrazione ... 99
1.2. I codici di comportamento: problemi applicativi ... 103
1.3. Il difficile cammino verso una effettiva trasparenza ... 105
2. Vecchia e nuova corruzione: l’esito fallimentare di Mani pulite ... 109
2.1. Il fallimento dell’azione repressiva ... 112
2.2. L’inerzia della classe politica ... 118
2.3. Il tessuto socio-culturale ... 121
3. Conclusioni ... 124
1. Il processo politico di approvazione: dal ddl del 2010 alla legge 190/2012 ... 127
2. La prevenzione della corruzione nella legge 190 ... 131
2.1. I soggetti della prevenzione e lo strumento della pianificazione ... 132
2.2. Le norme sulla trasparenza ... 137
2.3. Le regole di integrità ... 139
2.4. La figura del “whistleblower” ... 142
2.5. Le nuove disposizioni in materia di contrattazione pubblica ... 145
3. Le principali modifiche al sistema penale ... 149
4. I decreti attuativi la legge 190 ... 153
4.1. I nuovi obblighi di pubblicità e trasparenza nel D.lgs. 33/2013 ... 155
4.2. Incompatibilità e non conferibilità: il nuovo quadro normativo delineato dal D.lgs. 39/2013 ... 159
4.3. Il nuovo codice di comportamento dei dipendenti pubblici: il D.P.R. n.62/2013 ... 162
Capitolo V - Le Valutazioni ANAC sulla legge 190 e sui decreti attuativi 1. Il Rapporto ANAC 2013 sul primo anno di attuazione della legge 190 ... 164
1.2. L’attività di impulso dell’Autorità all’attuazione delle disposizioni anti-corruzione ... 169
1.3. L’attività consultiva e di vigilanza dell’Autorità: problemi applicativi e di interpretazione del d.lgs. 39/2013 e del d.lgs.33/2013 ... 172
1.4. Segue: Le difficoltà sull’attuazione del decreto Trasparenza ... 174
2. Le valutazioni dell’ANAC 2014-2015 ... 178
2.1. Segue: la trasparenza ... 182
2.2. Segue: inconferibilità e incompatibilità ... 184
2.4. Segue: il codice di comportamento e il “whistleblowing” ... 185
Conclusioni ... 188
Riferimenti bibliografici e sitografia ... 192
Gli anni 90 del secolo scorso, sono stati caratterizzati da uno degli scandali più imponenti che ha profondamente segnato la storia politico-istituzionale del nostro paese, la cui onda lunga, come ci dimostrano le cronache recenti, è arrivata paradossalmente indisturbata fino ai giorni nostri.
La bomba di Tangentopoli, scoppiata nell’Italia della c.d. _ prima_ Repubblica1,svelando al mondo intero un retroscena assai inquietante che ha interessato il mondo politico, istituzionale ed economico del Belpaese, non ha in nessun modo portato a un’inversione di rotta da parte, in primis, di quello stesso mondo: più che un’ottima occasione per riformare il sistema politico-istituzionale ed economico, nell’ottica della massima trasparenza e di un elevato senso dello Stato, le recenti vicende di malaffare (Mose, Expo, Mafia Capitale 2014) ci dimostrano che il sistema ha imparato bene la lezione, soprattutto ha imparato dagli errori commessi, ma a proprio favore. Come spiega Piercamillo Davigo, da Mani Pulite ad oggi c’è stato una sorta di processo di selezione Darwiniana che ha individuato «i ceppi più resistenti agli antibiotici», dove gli antibiotici sono rappresentati dagli organi repressivi che, spiega ancora Davigo, «hanno
paradossalmente migliorato la specie predata»2
Il rovescio della medaglia di questa vicenda, la conseguenza non voluta dagli stessi organi repressivi, è stato dunque l’aver oliato quel sofisticato marchingegno, che non ha visto la luce nell’inverno del ‘92, poiché «ciò che inizia
a partire da quel momento, è la straordinaria esposizione pubblica delle vicende di corruzione, ossia lo scandalo (…)» (della Porta - Vannucci 1999, p.16).
E se ancora oggi la politica si trova sempre a dover fare i conti con una sorta di Tangentopoli 2.0, significa dunque che le vicende dei primi anni 90 non hanno portato a delle risposte, in termini di riforme, seriamente efficaci ma al contrario a degli interventi puramente di facciata che hanno contribuito a diffondere, in una società sempre più assuefatta dalle vicende di malaffare, una consapevolezza: chi ha la volontà di prendere sul serio la legalità? Il sentimento diffuso sembra essere proprio questo, ossia il fatto che non sembra esserci una volontà condivisa, quanto meno nei fatti, di intervenire seriamente;; al contrario, i
1
L’espressione in questione, venne utilizzata in maniera impropria rispetto al suo significato etimologico;; venne introdotta in ambito giornalistico, proprio per evidenziare la fase di trasformazione politica tra il 1992 e il 1994, che interessò il sistema dei partiti nonché gli stessi esponenti nazionali, in seguito allo scandalo Tangentopoli.
2
Vannucci A. “The controversial Legacy of Mani Pulite: A Critical Analisis of Italian Corruption and Anti-Corruption Policies”, Bulletin of Italian Politics, Vol.1 No.2 2009, p. 243, nostra traduzione
relativa al falso in bilancio e alla riforma della ex Cirielli, vale a dire i tempi di prescrizione, dimostrano quella ventennale, ma soprattutto volontaria reticenza di una buona parte della classe politica italiana, nel delineare delle riforme efficaci a riguardo.
Ma, se è vero che il potere è (almeno in alcune sue componenti influenti)
criminale, ed essendo il problema, non può – anche - essere la soluzione,
potrebbero allora esserci altre vie in grado di sollecitare la politica a intraprendere un percorso di riforme che non prescinda da quelli che dovrebbero essere principi cardini di un paese democratico, ossia quelle libertà politiche e civili quali, trasparenza, partecipazione, uguaglianza, Stato di diritto?
Ad essere intaccati dalla corruzione sono proprio quei presupposti base di una democrazia, e al contrario di quello che si può comunemente pensare, ossia che il fenomeno interessi prevalentemente paesi in via di sviluppo, dove quei valori e quelle libertà non sono riconosciuti e per questo calpestati, il modello democratico non risulta essere immune dal “virus della corruzione”, anzi, per certi versi sembra quasi crearne un terreno fertile.
Si prenda come esempio il ruolo dei partiti politici in un modello democratico: la nostra Carta Costituzionale all’articolo 49 conferisce agli stessi una funzione strumentale rispetto all’attuazione del principio democratico e della sovranità popolare, permettendo così di congiungere la società civile con le istituzioni. Ma i partiti, come è emerso dagli scandali degli anni 90 e anche da quelli più recenti, rappresentano anche la componente più vulnerabile di quel modello, nonché il principale interlocutore della corruzione, cioè «i partiti nel loro
indebolimento sono progressivamente diventati scalabili e controllabili da parte di interessi di carattere particolare»3. Ecco allora che, nella competizione per il potere, non basta più il tradizionale modus operandi della propaganda, e neanche il ruolo dei media risulta essere più sufficiente;; dunque ci si rivolge alla «Dea
tangente»4 nonché ad altri reati strettamente affini alla corruzione come la compravendita di voti, o il clientelismo, per comprare il consenso.
3
Le parole sono quelle dell’attuale Ministro della Giustizia Andrea Orlandi in occasione di un’intervista nel programma Tv condotto da Gad Lerner su La Effe, “Fischia il vento”, puntata intitolata “Corrotti e impuniti nell’Italia degli scandali.” http://www.repubblica.it/fischiailvento/
4
L’espressione è stata pronunciata da Papa Francesco, durante l’omelia di una Messa, nel novembre 2013, nella quale il Pontefice ha espresso parole durissime nei confronti di coloro che portano il “pane sporco” in casa, guadagni frutto di
governativa la cui mission principale è quella di contrastare la corruzione in tutte le sue sfaccettature, si è potuto poi osservare una certa correlazione tra alcuni tratti caratteristici del modello democratico, come diritti civili e politici e il fenomeno della corruzione;; in questo modo è stato dimostrato come « la tesi di una riduzione della corruzione al crescere delle libertà democratiche, ha conosciuto amare smentite» (della Porta - Vannucci 1999, p.5) e l’Italia ne rappresenta un caso emblematico, dal momento che ad oggi il Corruption Perception Index 2015, ossia l’indice di percezione della corruzione pubblicato annualmente da Transparency, ci colloca al 61° posto della classifica generale, recuperando otto posizioni rispetto al 69° posto “guadagnato” nel 2014, quando l’Italia si trovava a pari punti con paesi come Brasile, Grecia, Bulgaria, Romania e, sorpassata ( 67° posto) da paesi come Sud Africa e Kuwait.5
La clamorosa vicenda dell’inchiesta Mani pulite e, soprattutto la progressiva evoluzione di Tangentopoli 2.0, hanno messo in evidenza, in particolare, il fallimento e la reticenza di buona parte della classe politica rispetto alla necessità e urgenza di delineare delle serie politiche anti-corruzione: anche oggi, infatti, nonostante una oramai quotidiana escalation di casi degni proprio della stagione anni 90, il dibattito politico continua ad essere caratterizzato da un atteggiamento ostruzionistico e per niente collaborativo. È vero anche che un significativo passo avanti è stato compiuto negli ultimi anni, e altri interventi sono al centro dell’odierno dibattito politico: partendo allora dal più importante, la legge 190/2012, conosciuta ai più come “legge Severino”, dal nome dell’allora titolare del dicastero della Giustizia Paola Severino, che ne ha redatto il testo, rappresenta infatti il primo intervento organico anti-corruzione, sebbene presenti alcune zone d’ombra, fino ad arrivare alle più recenti discussioni che hanno agitato gli animi dei nostri rappresentanti nelle aule del Parlamento, ovvero il disegno di legge (DDL) Corruzione “Grasso” (l’attuale presidente del Senato Piero Grasso, promotore del testo) presentato in Senato il 15 marzo 2013, in materia di corruzione, falso in bilancio, riciclaggio, voto di scambio, e divenuto legge, appunto, due anni dopo.
Il caso italiano, può allora essere utilizzato come emblema di un modello democratico fallimentare che non ha saputo (e voluto) arginare il problema di una
tangenti e corruzione. http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/08/papa-contro-francesco-contro-la-corruzione-condanna-la- dea-tangente/770486/
quest’ultima «alcune tendenze comuni alle moderne democrazie- come la crescita
della quantità di risorse allocate con meccanismi di decisione politica (…) o il moltiplicarsi di centri decisionali» (della Porta - Vannucci 1999, p.8).
Capitolo I
Mani pulite: quando la corruzione corrode la Democrazia
1. Lo scandalo “Tangentopoli
”Le indagini che hanno portato alla vicenda nota a tutti con il nome di Mani pulite, nascono da una circostanza che ha progressivamente, ma soprattutto inaspettatamente, portato gli inquirenti a scoperchiare un “vaso di Pandora”. Nel febbraio del 1992 un imprenditore di una società di pulizie, Luca Magni, racconta ai carabinieri della richiesta fattagli dal presidente socialista del Pio albergo Trivulzio, struttura pubblica per anziani, tale Mario Chiesa, di pagare per ottenere l’appalto all’interno della stessa struttura. Di certo gli inquirenti non si aspettavano, dopo aver colto in flagrante lo stesso Chiesa nell’atto di intascare una mazzetta da sette milioni di lire, che quella sarebbe stata la goccia che ne avrebbe fatto traboccare il vaso, o che, per dirla con parole di uno dei tre magistrati che composero il pool di Mani pulite, Gherardo Colombo, partendo dall’osservare una foglia si sarebbe arrivati all’albero che la sosteneva. Spiega, infatti, l’ex magistrato: «(…) ogni foglia, ogni ramo rappresentano nuovi filoni di indagine, e, l’albero nel
suo insieme rappresenta il sistema della corruzione, con radici ben salde quasi in ogni settore dei rapporti tra pubblico e privato» (Colombo G. 2015, p. 21)
Utilizzando infatti un metodo sulla falsa riga di quello sperimentato dal giudice Giovanni Falcone, «follow the money», gli inquirenti si trovano di fronte ad un sistema capillare che coinvolge l’organizzazione politica ed economica del
Belpaese. Si scopre allora, che l’affidamento di appalti pubblici avviene dietro il
pagamento di tangenti, e che tale sistema è tanto normale quanto ben regolamentato, basti pensare all’esistenza di un vero e proprio tariffario delle tangenti;; che il denaro va a “rimpolpare” le casse di alcuni partiti coinvolti nello scandalo come PSI, PCI, DC, PRI, ma anche utilizzato per acquistare tessere d’iscrizione di quei partiti, nonché « garantirsi una scalata al suo interno, ovvero
impiegato per godersi una vita agiata, o per assicurarsi un confortevole futuro»
(Ivi, p.32).
Sembrava un caso isolato, invece, una volta che lo stesso Chiesa abbandonato dai suoi stessi compagni di partito, (Craxi lo definì un «mariuolo»
che gettava fango su un partito che fino ad allora non era mai stato coinvolto in indagini per reati gravi contro la P.A.) (Barbacetto- Gomez- Travaglio 2012, p.9) e accusato dagli appaltatori di essere un abituale concussore, inizia a collaborare con gli inquirenti scatenando così una corsa a confessare in anticipo. Di lì a poco il numero di soggetti coinvolti nello scandalo Tangentopoli crescerà progressivamente, interessando un numero impressionante di parlamentari, fra cui ministri e ex presidenti del consiglio, pubblica amministrazione, nonché appartenenti al mondo economico.
È in questo contesto che si verifica la fine di quella che è stata impropriamente definita la _prima_ repubblica che, configurandosi come una sorta di «bancarotta della classe politica» (Belligni 2000), vede l’uscita di scena di sei partiti, fra i quali, il più antico e quello con maggioranza relativa, e l’inizio di una “seconda” repubblica, dove invece si assiste all’ingresso sulla scena di nuovi attori come l’allora Lega Lombarda, (oggi Lega Nord) e sempre l’allora Alleanza Nazionale, che entreranno a far parte della coalizione di destra guidata da un nuovo protagonista, Silvio Berlusconi, ricco imprenditore, proprietario di un impero televisivo, sceso in campo nel 1994, che non solo dominerà il palcoscenico della politica italiana per vent’anni, ma sarà egli stesso al centro di indagini di corruzione.
Le indagini su Tangentopoli procedono come un treno in corsa che travolge nomi illustri della politica e dell’economia, e tutto questo anche grazie allo straordinario supporto offerto dall’opinione pubblica al pool dei magistrati. Un continuo e manifesto sostegno che vede la società civile, protagonista attiva, mostrare tutto il suo sdegno, la sua lontananza dalla logica che domina quel sistema, ma soprattutto la voglia di cambiare e di riformare: «il desiderio di legalità espresso
dall’opinione pubblica, prende spesso le forme inaspettate di un legalismo severo e quasi rigido», spiega ancora Colombo (Colombo 2015, p.50).
Sebbene poi tale sostegno non coinciderà con la durata delle indagini, a causa anche della controffensiva lanciata dalla politica nei confronti della magistratura, anche per riappropriarsi di quella indispensabile linfa vitale, quale l’appoggio della società civile, tuttavia sarà fondamentale, almeno nei primi anni, per la buona riuscita delle stesse;; osserva, ancora, Gherardo Colombo:
«La gente abbraccia la nostra indagine, quasi mitizzandoci come salvatori della
nel primo periodo, anche perché chi ha commesso quel tipo di reati sente l’ostilità dell’opinione pubblica ed è portato a collaborare» (Ibidem).
“La questione morale” sembra dunque tornare al centro delle preoccupazioni non soltanto della stessa opinione pubblica per il tramite dell’operato dei magistrati del pool di Mani pulite, ma anche di quei nuovi partiti che iniziano ad affacciarsi sulla scena politica, il cui distacco dall’establishment della “prima” repubblica, nonché l’iniziale supporto all’azione del pool, risulterà essere più una strategia, del tutto opportunistica, di “cavalcare” l’onda dell’antipolitica e del malcontento generale, con il solo scopo di ripristinare “quell’ordine precostituito” stravolto dalle indagini, iniziando col riallacciare i rapporti con la stessa società civile: “tutto cambia affinché nulla cambi”, nel migliore spirito “gattopardesco”.
Le statistiche di quegli anni, ci rivelano allora la preoccupazione degli italiani per il dilagante fenomeno della corruzione;; nel 1992, la percentuale di coloro che la considerano una “croce” per il nostro modello democratico, è del 60,9% degli intervistati, superando addirittura altri aspetti critici come la disoccupazione, al 29,4% o quello della criminalità (strettamente connesso alla corruzione) al 54,9%. Nel 1996, il 91,8% degli elettori italiani, la considera sempre un problema molto o abbastanza importante, e fra questi, il 30,6% la vede come una delle principali preoccupazioni, a volte secondaria rispetto a quella per la disoccupazione (Belligni, 2000).
I dati in questione, mettono in evidenza, in particolare, una delle principali conseguenze della corruzione, che proprio nel periodo di Tangentopoli ha avuto maggiore manifestazione: il costo politico, che chiama in causa il tipo di reazione della società civile dinanzi a quegli scandali. La corruzione, infatti «inquinando la
democrazia», corrode, come si accennava più sopra, proprio i suoi capisaldi più
importanti, nutrendosi di «alcune tendenze comuni alle moderne democrazie», ma ancor di più, minando la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e degli stessi rappresentanti, scoraggiando impegno civile e partecipazione.
1.1. I pilastri del sistema Tangentopoli
Come accennato più sopra, l’arresto di Mario Chiesa ha rappresentato solo un piccolo tassello che ha scatenato un enorme «effetto domino», e una volta che lo
stesso inizia a collaborare, la valanga di avvisi di garanzia pioverà in capo non solo ad appartenenti al circuito politico, ma anche al mondo degli affari.
Mario Chiesa, allora aspirante sindaco di Milano, quando arriva al Trivulzio trasforma in un sistema regolamentato, ciò che prima del suo arrivo era affidato ad un meccanismo “artigianale”: il sistema di appalti e tangenti, era infatti, già presente alla “Baggina”, e Chiesa, portando in “dote” la precedente esperienza maturata nei primi anni settanta presso una struttura ospedaliera milanese, normalizza la prassi (Barbacetto- Gomez- Travaglio 2012).
Il numero di imprese coinvolte è elevato, e il meccanismo si basa su gare truccate a regola d’arte e su cartelli di imprese che per sfuggire al “rischio” concorrenza cedono alle lusinghe della corruzione che diventa per questo una perversa forma di tutela per le stesse: protezione politica dalla concorrenza in cambio del “contributo” economico generato dalla «lottizzazione» degli appalti. L’organizzazione a cartello è il modus operandi utilizzato dalle imprese per muoversi più serenamente, in accordo con i partiti, nell’universo degli appalti pubblici. È una prassi redditizia per le stesse: ci si aggiudica a turno le gare o si partecipa alla spartizione del bottino attraverso i subappalti, in ogni caso chi vince paga ai partiti in base a un vero e proprio tariffario delle tangenti, ma soprattutto si guadagna l’ambita etichetta di “impresa di partito”, (Vannucci 2012, p.48) una solida garanzia per i futuri affari. Così viene descritto il meccanismo, dietro l’organizzazione a cartello di alcune imprese coinvolte nello scandalo tangentopoli: «Se si guardano gli imprenditori che operano nel settore pubblico, si può percepire
una lottizzazione tra costoro, finalizzata alla spartizione del mercato delle commesse pubbliche. Si forma tra di loro una specie di patto di non belligeranza, così che, quando vengono invitati alle gare,(…) hanno già raggiunto un accordo sull’impresa che di volta in volta deve aggiudicarsi gli appalti» (Barbacetto,
Gomez, Travaglio 2012, p. 24).
Chiesa è come un fiume in piena che rompe gli argini, anche perché le prime confessioni hanno scatenato una vera e propria corsa a confessare in anticipo da parte degli imprenditori coinvolti, nell’intento di scongiurare il rischio arresto e mitigare i danni. Ha inizio ora “quell’effetto domino”, che, come evidenziato da uno dei magistrati, ha permesso l’evolversi delle indagini in “Mani Pulite” (Ivi, p. 17). Così, dal Trivulzio, si arriva ad altre strutture sanitarie e assistenziali, fino ad approdare alla pubblica amministrazione e agli appalti di
opere pubbliche strategiche, in particolare nel settore dei trasporti, come la metropolitana a Milano, la cui realizzazione nasconde un cospicuo giro di tangenti proveniente da tutte le imprese coinvolte: impiantistica, costruzione dei parcheggi, forniture di materiale rotabile, i vari lotti della terza linea della metropolitana, in tutti questi appalti è previsto un pagamento extra. (Ivi, p. 23). Destinatari dei pagamenti, i più importanti partiti della “prima” repubblica che indirizzano le tangenti in gran parte al finanziamento occulto degli stessi.
A quello che gli stessi magistrati ben presto chiameranno il “sistema”, evidenziandone proprio il carattere di sistematicità, non si sottrae nessuno: dalle piccole imprese si passa alle più grandi e importanti realtà imprenditoriali del paese: i grandi costruttori come Ligresti, e i colossi industriali come FIAT e Olivetti. Tutti aderiscono a quella pratica che i magistrati chiameranno “dazione
ambientale”,(Ivi, p. 27) un modus operandi talmente pervasivo, da essere
diventato naturale, appunto, ambientale: «la “dazione” era cosa automatica, ossia, non c’era la necessità di richiedere o offrire denaro o altre utilità in cambio di appalti»1, poiché il “così fan tutti” era diventato prassi consolidata e regolamentata.
«È un sistema di regolazione dei rapporti tra imprese e i politici. Le prime si
spartiscono, in accordo con i partiti, gli appalti pagati con denaro pubblico. I secondi ricevono in cambio, (..) una percentuale da destinare ai costi della politica» (Ivi, p.28). Così descritto, il sistema, non lascia dubbi sul rapporto tra
corrotti e corruttori, nonostante la sottile linea di demarcazione tra il reato di corruzione e quello di concussione. Infatti molti imprenditori, soprattutto i più noti nel panorama economico italiano, nel tentativo di mitigare la propria posizione e passare così per vittime concusse “innocenti”, adottano proprio la strategia della concussione, e quindi dell’essere stati indotti, costretti e ricattati dai politici. Ma il meccanismo della “dazione ambientale”, unito alla prassi accertata e consolidata dell’organizzazione a cartello, nonché, le confessioni di alcuni imprenditori e faccendieri che non accettano di passare come capro espiatorio della situazione, riveleranno invece «un accordo paritario (...) tra due soggetti che si trovano sullo
stesso piano», mentre solo raramente verrà accertato il reato di concussione
(Colombo 2015, p. 20).
1
Le parole sono quelle dell’allora magistrato Antonio Di Pietro, sempre in occasione di un’intervista durante la trasmissione “fischia il vento” condotta da Gad Lerner. Vedi sopra, nota 3.
In questo modo l’accordo spontaneo e consenziente, oltre a porsi in aperto contrasto con principi cardini di una liberal-democrazia, come uguaglianza e trasparenza, finisce col distorcere e inquinare le relazioni di mercato;; pertanto, a subirne l’esito negativo, è lo stesso principio di concorrenza, giacché imprese senza scrupoli, spesso inefficienti ma astute e abili nel tessere rapporti di fiducia ed elargire buoni compensi, hanno la meglio su chi rispetta le regole del gioco della concorrenza. Inoltre a pagarne le conseguenze sono gli stessi cittadini, non solo nella loro veste di contribuenti, dal momento che i prezzi per realizzare opere pubbliche subiscono un incremento esagerato (basti pensare al costo dei lavori per la linea 3 della metropolitana di Milano: 192 miliardi di lire contro gli “appena” 45 per la metro di Amburgo), il cui onere ricade proprio in capo agli stessi, ma anche come utenti/utilizzatori finali di servizi spesso scadenti, superflui o, addirittura, eterni incompleti, la cui realizzazione appaga solo gli “appetiti monetari” di politici e imprenditori insaziabili.
Il “sistema”, poi, arriva a coinvolgere anche le più importanti aziende di Stato come Enel, Anas, o l’Iri, l’ente pubblico istituito in epoca fascista al fine di evitare il crollo dell’economia italiana, messa a dura prova dalla crisi del 1929, che negli anni ottanta è stato al centro di indagini per dei fondi neri provenienti da due società dello stesso ente. Le indagini sullo scandalo finanziario, che ebbero inizio proprio alla procura di Milano, avrebbero probabilmente permesso già da allora di portare alla luce il sistema di corruzione tangentopoli, ma per un presunto conflitto di competenza, furono trasferite alla procura di Roma (come successe poco tempo prima per il caso P2), nota con l’appellativo di “porto delle nebbie”, per via di casi clamorosamente insabbiati. Ma sono soprattutto le indagini che coinvolgono l’Eni, ad attirare maggiormente l’attenzione degli inquirenti e dell’opinione pubblica, e far emergere quella che è stata definita “la madre di tutte le tangenti”, riconducibile allo scioglimento della joint venture, tra la allora chimica pubblica Eni e quella privata Montedison, ossia “l’affare” Enimont. Lo scioglimento comportò per le casse dello stato una spesa esagerata: le azioni Enimont furono infatti riacquistate dall’Eni pagando un prezzo spropositato, quantificato in circa 600 miliardi di lire in sovrappiù rispetto al reale valore di mercato. E fu quell’operazione a destare il sospetto del pagamento di una maxitangente, “la madre” appunto, quantificata in 150 miliardi di lire, che sarebbero finite, per il tramite di un faccendiere, nelle mani dei più importanti partiti di maggioranza (Barbacetto, Gomez, Travaglio 2012, pp.
180-200). Tali indagini ebbero poi, come esito inaspettato e tragico, il suicidio dei rispettivi presidenti delle due aziende che scatenarono una delle prime offensive della politica contro l’operato del pool.
Nel frattempo, come per contagio, iniziano ad indagare le procure da nord a sud dell’Italia, rilevando sempre quello stretto legame tra politica e affari, che dimostra la pericolosa sistematicità e pervasività del fenomeno.
Un altro pilastro portante del sistema tangentopoli è il ruolo dei c.d. cassieri e faccendieri di partito. Nella loro veste di cassiere, il compito è quello di coordinare il flusso di tangenti dal momento della raccolta presso gli imprenditori, fino alla spartizione, in base alle percentuali preventivamente pattuite, ai principali partiti di maggioranza e anche a quelli minori. Così allora, erano state fissate le percentuali delle tangenti provenienti da ogni appalto per la realizzazione della metropolitana di Milano: «37,5% al Psi, 18,75 al Pci-Pds, altrettanto alla Dc, il 17 al Psdi, l’8% al Pri» (Ivi, p. 23).
Abili tessitori di relazioni sociali, spesso liberi professionisti con regolare tessera di partito, i faccendieri o mediatori, dispongono di un capitale sociale fatto di elevata affidabilità, competenze tecniche ma soprattutto informazioni riservate, che discendono da quello scarso grado di trasparenza amministrativa, che spinge, imprenditori in primis, a cercare protezione e mediazione da questa figura, la quale permette così ai potenziali contraenti di accertarsi sull’affidabilità reciproca al fine di instaurare vantaggiosi affari. Il “sistema Tangentopoli” è ricco di questi personaggi presenti all’interno dei principali partiti di maggioranza, i quali dispongono, ciascuno, anche di più di una figura che ricopre tale ruolo. Ingranaggio fondamentale di un sofisticato marchingegno, con regole e precise suddivisioni di compiti e di ruoli, il faccendiere sarà una figura centrale anche per le indagini di “Mani Pulite”;; “gola profonda” che permetterà agli inquirenti di portare alla luce un mondo parallelo e parassita rispetto a quello istituzionale.
È questo dunque il contesto dove trova origine quell’attrito tra politica e magistratura, e le ragioni sono sostanzialmente due: da un lato l’offensiva delle indagini che investe il mondo della politica e dell’economia, andando a toccare da vicino esponenti di partito, ministri, ex presidenti del consiglio;; dall’altra, come si è già accennato più sopra, il supporto che l’opinione pubblica dà ai magistrati togliendolo inevitabilmente alla classe politica e scatenando, così, una
competizione tra i due poteri che se lo contendono. Tale conflitto finirà poi col riflettersi proprio sull’opinione pubblica, influenzandone l’atteggiamento.
1.2. Mani Pulite: tra conflitto, controllo di virtù e sfera pubblica
La difficile convivenza tra potere politico e giudiziario, in realtà, non trova origine con la stagione di Tangentopoli;; è innanzitutto un rapporto che rimanda alla struttura istituzionale voluta dalla Costituzione, dove l’art. 104 garantisce «l’ordineautonomo e indipendente da ogni altro potere» della magistratura, ossia quel
principio di separazione dei poteri che, prima ancora che essere una garanzia costituzionale, è un pilastro fondamentale per uno stato liberale;; ma è anche un rapporto influenzato dalle profonde trasformazioni che hanno investito nel corso dei decenni le istituzioni politiche dei regimi rappresentativi.
Nel nostro paese è in particolare dagli anni ‘70 che la convivenza inizia a manifestare la sua sofferenza, a causa soprattutto di un potere politico debole di fronte al problema del terrorismo e della mafia e, per contro, di un potere giudiziario che dà risposte più concrete sostituendosi all’inadempiente classe politica.
Così, il sociologo e politologo Alessandro Pizzorno, ci propone un breve
excursus storico di questo rapporto, cominciando proprio da quelle che secondo
lui rappresentano le cause endogene, rispetto al sistema giudiziario, che hanno portato all’espansione di quel potere, mettendo poi in evidenza la «singolarità – ancora una volta - del caso italiano».
Alla base di questa espansione ci sarebbe un processo di trasformazione che, come osserva Pizzorno, è comune a tutte le democrazie liberali mature (Pizzorno 1998, p. 6) e che ha innanzitutto investito «la struttura dello stato nei regimi rappresentativi», la società, la natura della legislazione e conseguentemente la domanda di giustizia. In particolare, Pizzorno individua due processi di trasformazione responsabili del cambiamento: da un lato l’emergere dei partiti politici che, in un modello parlamentare puro, mettono in discussione, fino a indebolire, il ruolo del Parlamento quale unica «sede di un procedimento
razionale di persuasione» (Pizzorno 1998) dove si formano le decisioni. Si afferma
invece un modello dove decisioni, idee e opinioni, vengono discusse in un altro contesto e poi successivamente riproposte in sede istituzionale. È a questo punto
che si inserisce un secondo processo di trasformazione, ossia l’emergere della
sfera pubblica libera e pluralista;; una cerchia spesso ristretta composta da
appartenenti alla classe politica, intellettuali, associazioni, giornalisti, opinionisti, appartenenti al mondo dell’economia, che rappresenta un contesto autonomo rispetto a quelli dove tradizionalmente si incontrano le idee e si prendono le decisioni, e la cui attività, oltre a condizionare e a riflettersi sulla sfera elettorale, produce un bene prezioso per la classe politica: il riconoscimento politico.
Tale modello, come osserva Pizzorno, conduce a quella che viene definita
politica programmatica, dove i partiti, condizionati ora anche da una più ampia e
variegata platea elettorale (suffragio universale), si fanno portatori di programmi finalizzati a riorganizzare la società, e spingono verso un nuovo tipo di legislazione organizzatrice, che ora abbraccia diversi settori della vita sociale dando vita così allo Stato sociale. Per questo la legge passa da essere generale e astratta, a programmatica e specifica, comportando così non solo un aumento del flusso legislativo, ma anche degli organi istituzionali autorizzati a emanare norme. A questa espansione normativa corrisponde allora anche un cambiamento delle funzioni espletate dal potere giudiziario, che si ritrova ora a dover far i conti con un’area soggetta all’attività giudicante, decisamente più ampia.
A questo punto, Pizzorno, rileva un’ulteriore trasformazione del tradizionale assetto rappresentativo, che sfocerà proprio nel conflitto tra i due poteri. Il Parlamento continua a perdere le sue funzioni originarie, soprattutto quella di indirizzo politico, a vantaggio di un governo sempre più unico protagonista della vita istituzionale e politica, che schiaccia così anche il potere dell’opposizione, la quale, non solo non è più in grado di supervisionare il suo operato ma troverà «più conveniente negoziare che denunciare» (Ivi, p.63);; a questo si aggiunga poi anche il ruolo centrale dei media, quale contesto dove ora si svolge il dibattitto pubblico dei grandi temi politici, impoverendo ulteriormente il Parlamento delle sue funzioni.
È qui, secondo Pizzorno, che inizia a intervenire il potere giudiziario, per compensare alla debole presenza del Parlamento, e quindi dell’opposizione, e arginare lo strapotere del governo.
Altro cambiamento rilevante messo in evidenza è il passaggio da una politica programmante a una moraleggiante, dove, osserva Pizzorno, si sceglie l’immagine di una persona, un simbolo: da un lato il cittadino, tende a identificarsi con simboli e tematiche morali, dall’altra il dibattito politico si concentra proprio su
quei temi, cercando così di catturare il consenso. Così si è arrivati alla
personalizzazione della politica, dove si dà importanza all’etica dell’uomo politico,
più che alle sue doti politiche e amministrative. Anche la sfera pubblica è interessata da tali cambiamenti, per il tramite dei media, i quali svolgono un ruolo fondamentale in questa fase di “personalizzazione”, giacché contribuiscono a mettere in risalto la persona, più che le sue capacità.
Questa “personalizzazione” non è, ora, di solo appannaggio della classe politica come lo era un tempo, bensì anche di altre figure, fra le quali quella dei magistrati.
Tutte queste trasformazioni hanno poi influenzato anche la natura della partecipazione alla politica;; quella motivazione ideologica alla base di una partecipazione militante, cede ora il passo a una motivazione arrivistica,
carrieristica e, conseguentemente, anche l’impegno politico da volontario diviene
sempre più remunerato. È a questo punto, come evidenzia Pizzorno, che i partiti passano dall’autofinanziamento a finanziamenti da fonti extrapolitiche;; dal secondo dopoguerra in poi, infatti, i costi che i partiti politici affrontano diventano via via sempre più consistenti, così da richiedere contributi da parte di enti economici pubblici o parastatali, nonché di grandi gruppi industriali.
È qui che iniziano a nascere le “collaborazioni” tra il mondo degli affari e la politica, ovvero quello che poi si rivelerà l’habitat ideale per la corruzione, tant’è che è proprio negli anni settanta che scoppiano i primi scandali legati ai contributi versati alla politica dalle grandi lobby economiche;; è così che nel maggio del 1974 per scongiurare il pericolo corruzione e concussione da parte dei grandi gruppi economici, viene approvata la legge n. 195 (c.d. Piccoli) sul finanziamento pubblico ai partiti.
Questi cambiamenti, che si sono intensificati a partire dal secondo dopoguerra, sono quelle cause endogene al sistema giudiziario che hanno spinto verso una progressiva espansione del suo potere. In particolare il potere giudiziario inizia a sopperire alla debolezza di un Parlamento, e quindi di un’opposizione, oramai relegati a un ruolo puramente formale ma soprattutto, con il passaggio a una politica moralizzante, dove si da maggiore attenzione all’etica e non tanto alle capacità politiche e dinanzi a una corruzione dilagante, l’espansione del potere giudiziario si manifesta allora come controllo di virtù.
Quel controllo che in normali circostanze dovrebbe essere svolto dall’opposizione e che invece ora abbandona, lasciando scoperto il ruolo di “supervisori” dell’operato del governo, costretti o sedotti da una forma di
microconsociativismo (Ivi, p.51) dove è più conveniente trattare e scambiare, ora è
nelle mani di un potere giudiziario sempre più protagonista della vita politica di un regime liberaldemocratico, ovvero antagonista della classe politica, nonché principale destinatario di quella domanda di controllo di virtù, proveniente dalla società civile.
È in particolare questa modalità di espansione del potere giudiziario a creare malumori e un certo fastidio nella classe politica italiana;; ma come accennato più sopra, Pizzorno evidenzia anche la singolarità del caso italiano di fronte a queste trasformazioni.
La caratteristica dell’indipendenza della magistratura italiana nei confronti del potere politico è una garanzia costituzionale che, a seconda del periodo storico considerato, ha alternato momenti di indipendenza formale e quindi solo “su carta”, ad altri anche nella sostanza. Gli anni cinquanta e i primi anni sessanta, per esempio, a causa anche di un CSM composto per lo più da membri più anziani e gerarchicamente superiori, allineati con la maggioranza di governo, alcuni dei quali provenienti dall’esperienza fascista, che soffocano eventuali comportamenti difformi, sono di fatto gli anni caratterizzati da una collusione di ceto, (della Porta - Vannucci 1999, p.52) in cui l’indipendenza del potere giudiziario è solo formale.
La seconda metà degli anni sessanta fino ai primi anni settanta, invece porta con sé significative novità in seno al CSM, grazie soprattutto al profondo mutamento della situazione, in particolare sociale e culturale, spinta dai movimenti studenteschi e sindacali.
Tali mutamenti, come osserva Pizzorno, si riflettono tanto sul sistema politico quanto su quello giudiziario. Nel primo caso, la strategia della classe politica dinanzi a una sfera pubblica pericolosamente minacciosa, a causa delle «forze che si andavano manifestando» al suo interno, fu quello che Pizzorno chiama “consociativismo imperfetto” (Pizzorno 1998, p.69), dove i due partiti protagonisti, DC e PCI, rispettivamente eterno vincitore e eterno oppositore escluso dal potere, collaborano per garantire una situazione di equilibrio dinanzi ai continui conflitti sociali. Tale collaborazione sfociò, poi, negli anni caldi delle proteste, in un «cogoverno» (Ivi, p.71) tra i due partiti, non solo con l’intento di
arginare la minaccia di quella sfera pubblica ma anche per far fronte all’emergenza terrorismo, piaga degli anni settanta. Così, la collaborazione tra i due protagonisti della scena politica di quegli anni, fu tale da congelare completamente la funzione di sorveglianza, peraltro già fragile, che l’opposizione esercitava nei confronti dell’operato del governo;; un controllo assente nonostante negli anni ottanta quel consociativismo che aveva dominato il decennio precedente fosse venuto meno.
Dall’altra parte, il sistema giudiziario, e in particolare il suo organo di autogoverno, fu stravolto da tali eventi;; la componente più anziana e “allineata” vede ridurre la sua egemonia dinanzi alle nuove leve di magistrati influenzati da quei movimenti studenteschi. Né scaturì così, un conflitto ideologico all’interno dell’Associazione nazionale magistrati che dominò per tutto il decennio successivo, mutando la composizione del CSM, che con un nuovo metodo di elezione, vide l’ingresso proprio di quelle nuove leve della magistratura.
Questi cambiamenti interni al sistema giudiziario, uniti alla debolezza di un’opposizione succube di un governo unico protagonista della vita politica, nonché all’indebolimento della motivazione ideologica(Ivi, p.73) che disincentiva l’autocontrollo dell’etica nella classe politica, fanno si che ad esercitare quel
controllo di virtù sia ora la magistratura.
Il progressivo protagonismo della magistratura nello scenario politico italiano, inizia così a manifestare la sua forza nella lotta alla piaga del terrorismo e della mafia, rispetto alle quali la classe politica si rivelerà inerte e inoperosa;; così la magistratura, assumendo le veci dello Stato in questa battaglia che la vedrà tra l’altro più volte tristemente coinvolta da episodi di stragismo, inizia ad acquistare fiducia da parte di una società civile sempre più attiva sostenitrice di questa battaglia. Oramai agli occhi dell’opinione pubblica, anche causa di quegli episodi di stragismo nei confronti dei giudici che scatenarono una manifesta indignazione popolare, la classe politica era bollata come corrotta e complice di un sistema di malaffare che a poco a poco la magistratura stava scoperchiando.
La collisione tra le due navi, nel bel mezzo di una tempesta, era ora avvenuta, e si aggravò ulteriormente quando la magistratura, proseguendo sempre con il suo controllo di virtù, si imbatté nello scandalo di Tangentopoli. In verità, la scoperta dell’intreccio tra politica e affari risale già agli anni settanta, quando in piena crisi petrolifera, si scopre un consolidato sistema di tangenti tra
imprenditori di quel settore, parlamentari e addirittura ministri2;;prosegue poi con le
indagini che nei primi anni ottanta portano alla scoperta di un sistema parallelo che interferisce con l’attività istituzionale, ossia la loggia massonica P2, alla quale prendono parte, fra gli altri, esponenti del mondo della politica, arrivando poi a quelle sui fondi occulti provenienti da due società appartenenti all’ente pubblico IRI. (Colombo 2015 pp. 14-16). Già in occasione di queste indagini la politica manifesta la sua insofferenza di fronte all’ingerenza dei giudici, sferrando un contrattacco supportato dai livelli più alti di quella parte della magistratura collusa con la classe politica, che oltre a fare da scudo alle indagini, partecipa anche alla spartizione delle tangenti (della Porta - Vannucci 1999).
Si mette allora in discussione l’indipendenza del potere giudiziario dall’esecutivo (già dalle carte segrete della P2 era emerso il progetto di porvi fine), fino a toccare uno dei temi più scottanti, tanto caro a quella classe politica che non vede di buon occhio l’attivismo giudiziario e che nel corso dei decenni tornerà al centro del dibattito pubblico: la responsabilità civile dei magistrati, oggetto di un referendum nel 1988 con il quale si cercò di indebolire proprio quell’attivismo. (Pizzorno 1998, p. 89)
Nonostante questo tentativo, l’esercizio del controllo di virtù da parte della magistratura porterà comunque a scoperchiare il sistema Tangentopoli, non solo grazie al supporto dell’opinione pubblica, ma anche a «una riduzione della
politicizzazione della magistratura, intesa come deferenza verso i politici» (della
Porta -Vannucci 1999, p.55). E anche in questo caso la controffensiva della politica non si fece attendere, sebbene nei primi anni delle indagini l’atteggiamento della stessa sia stato di smarrimento;; così, le iniziative contro il pool andranno dal discredito personale nei confronti degli stessi, minacce di attentati, denunce da parte di esponenti del governo per attentato alla Costituzione, ordini di ispezioni in procura, fino ad arrivare a interventi legislativi contenenti proposte di amnistia per i politici coinvolti negli scandali di corruzione.
La progressiva espansione del potere giudiziario in Italia, come accennato più sopra, presenta delle specificità che vanno oltre la garanzia costituzionale dell’indipendenza dal potere politico. In particolare, come osserva Pizzorno, l’essere stata incaricata del compito di risolvere un triplice problema sociale, come
quello del terrorismo, della mafia e del sistema di corruzione, rispetto al quale la classe politica si è dimostrata incapace, esercitando così una funzione diversa rispetto a quella che la stessa Costituzione le ha affidato;; infatti da interprete ed esecutore della legge, diventa «amministratore di una complessa realtà sociale». Tuttavia, la maggiore visibilità della magistratura, anche in Italia, è frutto di quelle trasformazioni storiche, viste più sopra, che hanno interessato i regimi rappresentativi democratici nel corso dei decenni e che ruotano attorno a due circostanze: la prima è il controllo di virtù, e in particolare il fatto che il suo esercizio non è più nelle mani dell’opposizione;; l’altra è l’emergere della sfera pubblica, la sua centralità rispetto all’attivismo del potere giudiziario, ma anche la competizione di quest’ultimo con la classe politica per l’indispensabile riconoscimento e giudizio della stessa (Pizzorno 1998, p.98)
Alla luce di quanto esposto sopra, il rapporto tra i due poteri potrebbe essere scandito in tre fasi che vanno, in particolare, dall’inizio dello scoppio dello scandalo nel 1992 fino al suo epilogo.
La prima fase, ossia i primi due anni delle indagini, rappresenta una sorta di “Belle époque” per la magistratura che, oltre a cavalcare l’onda dell’indignazione popolare, approfitta anche della vicinanza di quella «arena elitaria», nonché di un’ampia copertura mediatica, (Belligni 2000, p.4) oltre che una crisi economica che investe in pieno i conti pubblici sempre più in dissesto.
Si inizia allora a parlare di «rivoluzione dei giudici», per indicare il protagonismo di un potere giudiziario per nulla propenso a collusioni di ceto, che manifesta tutta la sua intransigenza di fronte al malaffare e a una classe politica oramai screditata agli occhi di tutti e paragonabile ad una nave ingovernabile in balìa di una violenta tempesta, la cui (prima) reazione sarà quella del “si salvi chi può”!
Il ruolo che tradizionalmente la Costituzione ha affidato alla magistratura, sarà oggetto di profonde trasformazioni: da esecutori della legge diventano portavoce e simbolo della ritrovata “questione morale”, tanto che la società inizia a vederli come valida alternativa rispetto a una classe politica incapace di «trasmettere la domanda» della stessa (Belligni, 2000). È a questo punto che la fiamma del conflitto si ravviva.
Si apre così la seconda fase di questo travagliato rapporto che vede la classe politica, dapprima disorientata, spiazzata e quasi indifesa, reagire di fronte
ad una magistratura che l’ha umiliata, “usurpato” il potere e l’appoggio della società civile.
A cavallo tra il 1993 e il 1994, dopo le elezioni con il nuovo sistema maggioritario, fa il suo ingresso un nuovo protagonista della scena politica il quale, disponendo di un notevole impero mediatico, riesce a far spostare l’attenzione dell’opinione pubblica in particolare, dalla questione morale alla “questione
giustizia” (Ivi, p.10). Per i giudici di Mani pulite, e più in generale per l’intero
sistema giudiziario, ha inizio una fase fatta di pesanti accuse di discredito personale, ispezioni, procedimenti disciplinari;; si parla del potere giudiziario come di un potere «fuori controllo», alla base del quale domina una certa ideologia;; l’attenzione si catalizza allora sulle inefficienze dell’apparato giudiziario e in particolare sulle lungaggini dei processi. Torna così al centro del dibattito pubblico la questione sull’indipendenza e sulla responsabilità civile dei magistrati. D’altra parte questi ultimi, pur accusando il colpo di una repentina disaffezione popolare dovuta anche al fatto che le indagini a poco a poco conducono a scoprire «la
corruzione di persone comuni» come «l’ispettore del lavoro che prende la bustarella per attestare la regolarità del cantiere…il privato che ottiene irregolarmente la concessione edilizia per chiudere la veranda»(Colombo, 2015
p.50-51), continuano a vivere di quella rendita prodotta nei primi anni delle indagini;; la dimostrazione arriva dalla sollevazione dell’opinione pubblica, incentivata anche dalle dichiarazioni in tv del pool, di fronte al decreto dell’allora ministro di Giustizia del I° governo Berlusconi, Alfredo Biondi, con il quale si limitavano i poteri di arresto dei giudici in merito ad alcuni reati, fra i quali quelli di Tangentopoli, imponendo anche la scarcerazione di chi era già stato incriminato. Questa è una fase completamente incentrata su una competizione costruita a colpi di nuovi filoni di indagini che si estendono fino a comprendere anche esponenti della stessa magistratura, interventi legislativi che le ostacolano, continue pressioni nei confronti dei magistrati. L’oggetto del contendersi, come evidenziato nell’analisi da Pizzorno, è in particolare il riconoscimento della sfera pubblica, e quindi l’appoggio dell’opinione pubblica.
Le conseguenze di questa lunga stagione di conflitti fra i due poteri, ci introducono all’ultima fase che vede soprattutto la fine delle indagini di “Mani Pulite”, la sconfitta della magistratura, e che produce in particolare due risultati: il primo è la totale mancanza di volontà della politica di arginare un problema come