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L’ESERCITO ITALIANO DALLA “APOLITICITA’” ALLA CONNIVENZA

6. Le aggressioni agli ufficial

Gli episodi di intimidazione e aggressione contro ufficiali e soldati in uniforme, per lo più ad opera di socialisti, contribuirono a determinare la progressiva degenerazione dell’ordine pubblico ed avvalorarono agli occhi del mondo militare l’immagine di una società civile ormai dominata da elementi antinazionali e antipatrioti, irriconoscente e dimentica dei sacrifici affrontati dai combattenti.

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A.U.S.S.M.E., L-13, fondo Pecori-Giraldi, b.132, fasc.1/5, “Consiglio dell’Esercito-Pratiche varie-anno 1923”, sottof. “Pratiche varie e promemoria di S.E. Pecori Giraldi”, Studio del colonnello Douhet “Il dominio dell’aria”.

L’esercito italiano non poteva attingere alla tradizione consolidata in altri paesi europei, ad esempio in Francia, di considerare e, dunque, rispettare, gli ufficiali come ministri di culto della patria, sebbene, idealmente, fossero investiti dell’alto compito di incrementare l’italianità, addestrando le reclute, educando al patriottismo e contrastando le spinte centrifughe. Il valore e la misura del trauma subito dai militari non sono dati dalla quantità dei soprusi di cui furono vittime, bensì dal fatto che le loro aspettative e le loro ansie rigeneratrici fossero state, ai loro occhi inspiegabilmente, disattese e che, addirittura, la nazione si dimostrasse non solo ingrata, ma ostile e piena di rancore tanto da renderli oggetto di dileggio e violenza224.

Pur rimarcando l’uso propagandistico che nazionalisti e fascisti fecero delle aggressioni e degli “sputi” ai graduati, amplificandone la portata, anche uno storico come Angelo D’Orsi ha stigmatizzato l’insensibilità manifestata dalla popolazione e, in particolare, dal partito socialista, nei confronti della “piccola borghesia reduce dalle trincee”225.

Se è vero che la propaganda fascista dette una strumentale risonanza alle violenze e alle ingiurie subite dai militari ad opera dei socialisti, tali episodi si verificarono e, come affermarono anche alcuni tra i massimi esponenti del movimento operaio, ebbero ferali conseguenze. Nei primi due anni del dopoguerra, infatti, le celebrazioni della vittoria non furono numerose e dovettero svolgersi

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A.U.S.S.M.E., L13, Fondo Pecori Giraldi, “Lettera riservata del Ministro Albricci ai Comandanti di Corpo d’armata, 11 ottobre 1919, oggetto: “Spirito dell’esercito”; cfr anche Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia

dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, Il Mulino, Bologna, 1991, p.553.

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Angelo D’Orsi, La rivoluzione antibolscevica. Fascismo, classi, ideologie 1917-1922, Milano, Franco Angeli, 1985, p.51.

clandestinamente a causa delle incursioni dei sovversivi e si registrarono numerosi casi di ufficiali consegnati alle caserme per non essere coinvolti in scontri coi socialisti226. In una delle relazioni sul fascismo nelle varie province inviate regolarmente dai rispettivi questori all’ispettore generale della pubblica sicurezza, si affermava che lo spirito dell’esercito, fino a quando i fasci di combattimento avessero esplicato la loro azione “contro i partiti del disordine e della violenza (comunisti, rivoluzionari e anarchici costituiti in fronte unico secondo la dottrina leninista e malatestiana)”, le autorità preposte all’ordine avrebbero contare ben poco sulla cooperazione degli agenti e della truppa. “Troppo grave – continuava la relazione del questore di Siena – fu la svalorizzazione della nostra vittoria, troppo atroce l’onta fatta ai nostri 900.000 morti, troppo recente e troppo spesso impunito il vilipendio contro l’esercito e le istituzioni più care al cuore degli italiani e il disprezzo contro ogni principio d’ordine e d’autorità. Agenti e truppa per troppo lungo tempo si videro esposti al dileggio, agli insulti feroci, alle violenze, all’orda delle masse da parte dei sovversivi”227.

Un’altra relazione, altresì, riferiva le difficoltà incontrate dalle autorità civili nella gestione dell’ordine pubblico per “l’incoscienza e l’impulsività della grande maggioranza dei fascisti, convinti di esser loro lecita ogni cosa” e per “la riluttanza degli agenti della forza pubblica” a contenerne gli eccessi in virtù dell’atmosfera “di simpatia e di favore” di cui si giovava, sin dalle origini, il movimento mussoliniano.

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Giovanni Sabbatucci, La Grande Guerra come fattore di divisione: dalla frattura dell’intervento al dibattito

storiografico recente, in Loreto Di Nucci-Ernesto Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2003, pp.116-119.

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A.C.S., Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione AA.GG.RR.,1922, b.103, G-1, f.1 “Fasci di combattimento – Affari Generali”, sottof.2 “Elenco denunzie”, Relazione del questore di Siena all’Ispettore Trani, 13 giugno 1921.

“Codesta riluttanza – arrivò a sostenere il prefetto di San Miniato – è giocoforza convenire sia logica ed umana, se non legittima; carabinieri, guardie e soldati abituati a vedersi vilipesi, sputacchiati, massacrati da anarchici e socialisti, nei primi giorni dei recenti moti di Firenze si sono visti a lato, a combattere la teppa, i fascisti animosi volontariamente accorsi, e li hanno considerati cooperatori ed hanno con loro fraternizzato”228.

Nelle memorie redatte nel secondo dopoguerra, Marcello Soleri, descrivendo il disorientamento, l’instabilità e l’atmosfera satura di violenza che paralizzava “energie ed iniziative” del paese nei mesi successivi al conflitto, deplorò anch’egli le manifestazioni di spregio contro l’esercito che, seppur isolate, concorsero a rendere

incandescente l’atmosfera del paese229. Ancorché risoluto nel denunciare e

condannare la connivenza di ampi settori delle forze armate col fascismo, Salvemini poté in più occasioni constatare come il clima avverso ed animoso nei confronti degli ufficiali li avesse resi vittime, in ogni parte d’Italia, di violenti attacchi che, in alcuni casi, portarono alla morte230. “Le uniformi dell’esercito vittorioso – scrisse Robert Michels – erano divenute così impopolari nel paese, che il governo impaurito aveva ufficialmente consigliato agli ufficiali di girare possibilmente solo in abiti civili per evitare attacchi violenti da parte della popolazione operaia. Molti ufficiali andarono

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A.C.S., Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione AA.GG.RR.,1922, b.103, G-1, f.1 “Fasci di combattimento – Affari Generali”, sottof.2 “Elenco denunzie”, Relazione del Prefetto di San Miniato all’Ispettore Trani, 24 giugno 1921.

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Marcello Soleri, Memorie, Torino, Einaudi, 1949, p.81.

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Gaetano Salvemini, Le origini del fascismo, Lezioni di Harvard, a cura di Roberto Vivarelli, Milano, Feltrinelli, 1966, p.243.

in congedo pieni di indignazione e di disperazione. L’Italia sembrava votata al bolscevismo”231.

Il presidente del consiglio Nitti, dinanzi alla sedizione di interi reparti dell’esercito ispirati dalla parola di D’Annunzio, espresse più volte alla Camera il convincimento che la gravità di quanto accaduto non era da individuare nell’azione di giovani volontari idealisti accorsi a Fiume, bensì nell’ammutinamento di truppe regolari. Se era comprensibile “l’esaltazione del sentimento” che aveva inevitabilmente acceso gli animi, non era ammissibile che l’esercito italiano avesse tralignato dalla sua tradizione e dalle virtù di obbedienza e disciplina che l’avevano contraddistinta sin dalla sua nascita. Le forze armate erano il baluardo della pace, l’istituzione suprema a servizio della libertà, della democrazia, del Parlamento e della causa nazionale e nemmeno i più nobili ideali avrebbero potuto consentire deroghe, ancorché transitorie, al regolamento. Lo statista meridionale ascrisse la demoralizzazione dell’esercito ed il drammatico “incidente” che ne era conseguito alle difficoltà che i militari avevano dovuto affrontare una volta tornati dal fronte, aggravate notevolmente dall’abolizione della censura. Molti giornali, infatti, avevano usato nei confronti dei reduci un linguaggio offensivo dando luogo ad una campagna di stampa contro l’organizzazione militare che, certamente, ne aggravò il disagio spirituale e ne esasperò gli animi, mettendone a dura prova la solidità e la disciplina.

Il paese non aveva mostrato sufficiente gratitudine nei confronti di coloro che avevano difeso e salvato la patria, mentre, in ogni altra nazione vincitrice, in

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Inghilterra e in Francia, ad esempio, le manifestazioni di riconoscenza tributate all’esercito furono tali da rincuorare e confortare chi aveva combattuto e sofferto. Si doveva pertanto rimediare per il bene dei soldati e per il bene comune232.

Malgrado tali dichiarazioni, il governo Nitti fu caratterizzato da una condotta considerata alquanto longanime nei confronti dell’illegalità di sinistra, portando la compagine militare, dinanzi a quella che appariva una colpevole arrendevolezza perpetrata ai danni della parte “sana” del paese, ad identificare il suo intero operato con la disposizione che imponeva agli ufficiali di girare vestiti in borghese e disarmati, e di restare chiusi nelle caserme durante le manifestazioni e gli scioperi al fine di evitare perturbamenti dell’ordine pubblico. Il ministro della Guerra Albricci, collocato su posizioni diametralmente opposte, temendo, a ragione, che le offese e gli attacchi di cui erano oggetto i graduati potessero deprimere il morale dell’esercito, fece reiteratamente pressioni sul governo affinché si prendessero drastici provvedimenti a tutela dell’esercito, ma le sue richieste vennero disattese. Il generale accusò apertamente il leader liberale di non tutelare come si conveniva gli ufficiali e, in varie infuocate lettere in cui sollecitava l’adozione di adeguate e rapide contromisure, prese ufficialmente le distanze dalla politica “ambigua e neghittosa” del governo, reo di non aver tributato all’esercito i riconoscimenti promessi.

Analogamente, il generale Caviglia deplorò manifestamente l’operato di Nitti giudicandolo un ministero “nefasto” e reo di opprimere “gli animi dei vecchi soldati” e di umiliare gli ufficiali, quasiché l’aver combattuto dovesse ritenersi una vergogna.

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Discorsi parlamentari di Francesco Saverio Nitti. Pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, Vol. IV, Roma, Grafica Editrice Romana, 1975, pp.1542-1547.

In quel delicato momento, altresì, “l’esempio degli alti gradi dell’esercito titubanti nel contrasto fra i loro sentimenti ed il loro dovere di fedeltà giurata al re ed alle leggi dell’Italia, incoraggiava alla rivolta gli ufficiali dei gradi inferiori, specialmente di complemento. Gli alti graduati avrebbero dovuto con l’esempio e con l’applicazione ferma dei regolamenti militari mantenerli sulla linea retta della disciplina, dell’onore, della fedeltà alle leggi italiane”233. L’Associazione Nazionale fra Mutilati e Invalidi di Guerra il 5 luglio 1919 inviò una lettera al Presidente del Consiglio deplorando la violenza e la brutalità cui erano continuamente sottoposti soldati, ufficiali in divisa e mutilati di guerra. L’estensore sottolineò che la protesta si levava “non contro un singolo individuo per un singolo incidente”, ma per i numerosi e gravissimi incidenti registratisi. Guardie di pubblica sicurezza ed agenti prendevano di mira soprattutto i militari, li “caricavano bestialmente” con pugni e calci, talvolta estraevano le rivoltelle. In svariate occasioni, funzionari ed ufficiali dell’arma dei carabinieri avevano assistito impassibili a simili efferatezze. “Più che dei provvedimenti a carico di un funzionario, di un ufficiale dell’arma dei carabinieri, di un agente, di un milite – concludeva le lettera – noi, protestando in particolar modo contro le violenze di ogni genere usate contro soldati ed ufficiali, feriti e mutilati di guerra, chiediamo all’E.V. dei provvedimenti che valgano a far sì che più non si ripeta lo spettacolo triste e nauseante di agenti che, preposti alla tutela dell’ordine, in

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occasione di dimostrazioni popolari, anziché calmare gli spiriti, provochino disordini e reazioni maggiori da parte della folla ingiustamente aggredita”234.

Numerosi scontri, invero, scaturirono dalle eccessive e spesso violente reazioni degli ufficiali alle offese o alle provocazioni di anarchici, socialisti e comunisti. A Roma, il 27 settembre 1919, circa cinquanta socialisti, dopo aver partecipato alle riunioni tenutesi all’Andrea Costa e alla Casa del Popolo, si incontrarono al Palazzo Bocconi e da lì si avviarono a piccoli gruppi per vie diverse. Alcuni di essi si diressero al Caffè Aragno cantando l’Internazionale, inneggiando a Lenin e alla rivoluzione, e gridando contro l’esercito e D’Annunzio. Gli ufficiali, seduti ai tavolini esterni insieme a nazionalisti, lanciarono contro i socialisti sedie, bicchieri, tazze e tutto ciò che avevano a disposizione. Ne derivò una colluttazione prontamente sedata dall’intervento di funzionari e carabinieri. Furono fermati undici individui e, tra le testimonianze raccolte, un socialista dichiarò di essere stato ferito da un ufficiale con ripetuti colpi di sciabola235. Un caso analogo si verificò nel febbraio 1920 a Porto Santo Stefano, in provincia di Grosseto. Nel pomeriggio del 9, duecento operai della miniera Ilva e dello stabilimento “Prodotti chimici e concimi”, terminato il lavoro, mentre percorrevano la strada che dalla stazione conduceva all’abitato, si fermarono nel piazzale antistante la caserma dei bersaglieri e degli artiglieri assegnati al Forte Pozzarello. Circa cinquanta operai avanzarono fin sotto le finestre pronunciando ad alta voce frasi offensive e sollecitando i militari ad uscire. In quel momento, alcuni

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A.C.S., Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione AA.GG.RR., 1920, b.105, G-1, f.104 “Associazione Nazionale fra Mutilati e Invalidi di Guerra”, lettera al Presidente del Consiglio, 5 luglio 1919.

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A.C.S., Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione AA.GG.RR., 1919, b.84, C-2, f.2 “Roma – Movimento sovversivo”, Questura di Roma, nota n.31813 al Prefetto di Roma e al Direttore Generale di P.S., 27 settembre 1919.

graduati appartenenti al 3^ Reggimento Bersaglieri con sede a Livorno e soldati del 2^ Reggimento Artiglieria con sede a Spezia, risposero alla provocazione esplodendo sei colpi in aria che, tuttavia, non intimorirono la folla assembratasi davanti alla caserma, bensì l’eccitarono ancora di più. Un operaio sparò contro il portone d’accesso, già aperto, e, da una finestra, venne preso di mira e colpito alla testa da un proiettile di moschetto. Ne furono sparati altri e, poco dopo, accorsero un capitano dei carabinieri, il tenente del 3^ Bersaglieri Del Bon e il sottotenente del 2^ Artiglieria Cavani, che si adoperarono per impedire agli operai di invadere l’edificio, e, sebbene la folla tumultuante li percuotesse violentemente con mezzi di fortuna, riuscirono a riportare la calma. Il prefetto di Grosseto, nella sua relazione, volle rendere edotto il ministro dell’Interno sulla futilità dei motivi da cui era scaturito l’incidente. “Tali fatti – scrisse – traggono origine da beghe precedentemente occorse fra militari e borghesi a proposito di feste da ballo alle quali parteciparono o intendevano partecipare i militari, conformemente ad invito loro pervenuto”. La sera dell’8 febbraio, infatti, bersaglieri ed artiglieri non erano stati ammessi ad una festa privata col pretesto che a taluni era sembrato fossero ebbri e che non avevano mantenuto il contegno adatto in altre circostanze del genere. I militari, adontati vieppiù dalla presenza alla festa di soldati di marina, domandarono spiegazioni e, non considerandole soddisfacenti, giunti sulla strada soprastante alla baracca ove si ballava, cominciarono una fitta sassaiola contro il tetto e le finestre, finché il tenente Del Bon non intimò loro di rientrare nel Forte236.

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A.C.S., Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Div. AA.GG.RR., 1920, b.69, C-1, f.463 “Porto Santo Stefano (Grosseto) – Incidenti tra militari e operai”, Prefetto di Grosseto, nota al Ministero dell’Interno, 18

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