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L’ESERCITO ITALIANO DALLA “APOLITICITA’” ALLA CONNIVENZA

2. La sedizione di Fiume

Giunge notizia che Gabriele D’Annunzio è partito da Ronchi a capo di mille granatieri et di volontari fiumani. Ella sa qual è il nostro preciso dovere in queste ore. Ma io non so persuadermi gravissimo fatto come si è potuto avverare. Le raccomando di provvedere con il più estremo vigore. L’Italia non deve essere tradita da chi ha il dovere di difenderla114.

La guerra di trincea non aveva abbattuto la barriera classista che contrapponeva soldato ed ufficiale, il cui divario, di contro, si approfondì. All’indomani dell’armistizio, pertanto, se l’antimilitarismo proruppe con violenza e, corroborato

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Avanti!, 18 maggio 1920, n.118, “Perquisizioni militari”.

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Avanti!, 3 luglio 1920, n.158, “Come si domano i soldati”.

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A.U.S.S.M.E., L13, Fondo Pecori Giraldi, b.131, Comando Supremo – Inchiesta sui fatti di Fiume, Presidenza del Consiglio, telegramma n.25376 al generale Di Robilant, 12 settembre 1919.

dalla propaganda socialista, si diffuse rapidamente, l’interventismo non smobilitò ma si radicalizzò acquisendo nuove idealità e nuovi obiettivi. La mitopoiesi innescata prima dalle rivendicazioni della “grande proletaria”, poi dalla protesta contro la “vittoria mutilata”, con l’occupazione di Fiume assunse il significato di un’impresa audace e disperata dei pochi coraggiosi votati alla morte pur di salvare l’onore dell’Italia dinanzi al ricatto dei paesi plutocratici e falsamente democratici. L’impresa dannunziana attirò soprattutto i giovani appartenenti alla piccola e piccolissima borghesia che non si aspettavano semplicemente un’estensione dei confini territoriali ma un non meglio precisato rinnovamento del paese e dei tangibili vantaggi personali in un momento di così grave incertezza di cui si riteneva responsabile un indefinito nemico interno contro cui si doveva insorgere. Si rischierebbe, tuttavia, di non cogliere appieno il significato e le implicazioni della sedizione fiumana se la si riducesse ad un mero fatto di costume o ad una poetica fuga dalla realtà: “a Fiume non ci fu soltanto la Poesia in armi, la Letteratura travestita da Politica, ma si fece politica, tout court, e politica di destra”. “Che vale aver segnato le mete e averle raggiunte se oggi la vittoria è impastoiata dalla rinnegazione, dalla rassegnazione e dalla servilità?”, telegrafò D’Annunzio, nel marzo 1919, ad Enrico Corradini, mentre uno dei principali esponenti dell’Ani, Francesco Coppola, lanciò un vibrato monito “a quei pochi sciagurati italiani” che contrattavano con le potenze alleate “il loro nuovo parecchio” insidiando la vittoria:

Ricordatevi di maggio 1915. L’Italia di quel maggio è ancora in piedi, temprata dalla guerra, moltiplicata dalla vittoria, più che mai risoluta a compiere il suo fato. Così come allora fece giustizia dei cattivi italiani di allora, farà giustizia dei pessimi italiani di oggi115.

La prima fase della conferenza di pace aveva disatteso le aspirazioni italiane diffondendo, nell’opinione pubblica borghese e nella stampa, malcontento, ansia ed inquietudini che si tradussero in atteggiamenti settari e vieppiù intransigenti cui Orlando e, successivamente, Nitti, non ritennero di dover porre un argine. Il clima di sovreccitazione accreditò l’idea che la soluzione del contenzioso adriatico si potesse ottenere unicamente ricorrendo ad un atto radicale e risolutivo, eludendo le trattative in corso a Versailles e soverchiando l’autorità governativa.

Il Corriere della Sera ospitò l’appello dannunziano dal celebre titolo “Vittoria nostra non sarai mutilata” e la “Lettera ai Dalmati”, i cui toni decisamente irredentistici ed antiwilsoniani ne fanno i testi più rappresentativi della propaganda nazionalista contro quello che veniva considerato il tradimento della vittoria perpetrato ai danni del popolo italiano dagli alleati occidentali con la connivenza di una parte della classe politica.

Nell’estate del 1919, si diffuse una vasta ed articolata iniziativa golpista sotto l’egida dei nazionalisti, dei fasci di combattimento e degli arditi che poterono avvalersi anche dell’appoggio di alti ufficiali dell’esercito e della marina, fra cui il duca d’Aosta, Cagni, Millo, Giardino, Grazioli. I programmi minimi miravano ad un colpo di mano su Spalato da attuarsi mediante la I divisione d’assalto che stava

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Angelo D’Orsi, La rivoluzione antibolscevica. Fascismo, classi, ideologie (1917-1922), Milano, Franco Angeli, 1985, p.60.

rientrando a Venezia dalla Libia; un disegno rivoluzionario a più ampio raggio, elaborato dallo Stato Maggiore della 3^ Armata, auspice D’Annunzio, avrebbe dovuto portare alla costituzione di una repubblica delle tre Venezie, con la Dalmazia e Fiume, presieduta da Emanuele Filiberto di Savoia Aosta che avrebbe rinunciato alle prerogative reali. I progetti più radicali avevano come obiettivo finale un vero e proprio pronunciamento che si sostituisse ai poteri costituiti e riprendesse la guerra sulla frontiera orientale.

I nazionalisti diressero ed improntarono delle loro ideologie il movimento di opinione di cui D’Annunzio divenne il principale cantore ed ispiratore; Mussolini ripropose i temi dell’imperialismo proletario e del necessario egoismo nazionale mobilitando la piccola borghesia a favore della marcia di Ronchi ma muovendosi con circospezione e sagacia, attento a non compromettere i rapporti intessuti con le forze politiche in campo. Il vate, se il 30 maggio 1919 si dichiarò pronto a cogliere la “quindicesima vittoria”, solo dieci giorni dopo sconfessò le voci che lo accreditavano come il principale organizzatore di un’imminente congiura militare, mentre un blocco di forze politiche, economiche ed istituzionali, ordiva il colpo di mano sulla città dalmata nei termini di un affondo contro il governo di Nitti che aveva sabotato la vittoria, prova generale di un attacco allo stato di cui la marcia su Roma avrebbe costituito il coronamento116.

Mussolini fu oggetto di numerose invettive lanciategli da D’Annunzio che lo accusava di tradimento per non essere accorso al suo fianco: “Voi state lì a cianciare

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– scrisse in una delle lettere inviate al futuro duce – mentre noi lottiamo d’attimo in attimo con un’energia che fa di questa impresa la più bella dopo la dipartita dei Mille. Dove sono i combattenti, gli arditi, i volontari, i futuristi?”117.

Se a parole Mussolini, in virtù del dichiarato nazionalismo e del personale rapporto col comandante, sposò toto corde l’impresa dannunziana, nei fatti si limitò a promuovere una sottoscrizione per Fiume sul Popolo d’Italia e non considerò mai realmente l’ipotesi di partecipare all’impresa come dimostrano inequivocabilmente le rassicurazioni che, tramite il prefetto Lusignoli da cui fu contattato, fece a Giolitti: non avrebbe sostenuto in alcun modo la sedizione fiumana118. Il sostegno del futuro duce non andò oltre le anodine invettive, le sottoscrizioni in favore dei legionari e i roboanti alalà, e quando Giolitti ordinò la spedizione contro la città dalmata al generale Caviglia, mentre in Italia si paventava lo scoppio violento della protesta fascista, si assistette, di contro, ad un inopinato sussulto di buon senso: da ciò si inferisce, come ha rilevato De Falco sin dal 1921119, che il movimento mussoliniano intendesse subordinare ai suoi disegni di milizia posta al servizio del capitalismo agrario ed industriale anche quelli che millantava come i supremi interessi del paese, ovvero l’acquisizione di Fiume e della Dalmazia, e i fini ideali. Il Natale di sangue segnò l’epilogo dell’avventura fiumana e, com’era nei disegni di Mussolini, gli restituì l’iniziativa e gli consentì di coadunare attorno a sé i legionari, i combattenti e gli irredentisti di ritorno da Fiume.

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Carteggio Arnaldo-Benito Mussolini in Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965, p.560.

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Cesare Maria De Vecchi, Il quadriumviro scomodo, Milano, Mursia, 1983, p.35.

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Giuseppe De Falco, Il fascismo milizia di classe, in Il fascismo visto da repubblicani e socialisti, Bologna, Cappelli, 1921, pp.23 e sgg.

I generali oltranzisti incoraggiarono fortemente D’Annunzio a procedere nell’occupazione di Fiume serbando il proprio diretto intervento per le fasi successive del progetto sedizioso. Essi cercavano in una politica avventuristica quel ruolo di prestigio di cui non avrebbero più potuto disporre in un esercito ricondotto sul piede di pace e sottoposto ad un rigido controllo politico. Ancorché abbondantemente preannunciata, l’impresa dannunziana colse di sorpresa governo e Stato Maggiore poiché Nitti, Badoglio e Diaz120 erano persuasi che la congiura militare non si sarebbe mai tradotta in azione121.

Quando D’Annunzio cominciò a partecipare sempre più assiduamente alle agitazioni per Fiume, Nitti non credeva possibile che potesse verificarsi realmente un colpo di mano sulla città dalmata né tanto meno che avessero potuto parteciparvi elementi militari. Il presidente del consiglio nutriva piena fiducia nel ministro della Guerra Albricci, in Diaz e Badoglio e in tutti i generali che avevano avuto un ruolo primario nel conflitto, e giudicava ben saldo lo spirito di disciplina e di obbedienza del generale Caviglia per eventuali repressioni. Come affermò nelle sue memorie, Nitti non si avvide, “e fu grave errore, che il sottosuolo era minato”: il fascismo, appena nato, non costituiva, ancora una seria minaccia, sebbene fosse evidente che Mussolini perseguiva fini diversi da D’Annunzio; i nazionalisti, a suo parere, “erano gente non seria più adatta a vociare che ad agire”; il vero pericolo era in realtà nell’esercito. Il governo, con la consueta debolezza che ne caratterizzava l’operato,

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Armando Diaz sarebbe stato nominato ministro della Guerra del primo governo fascista. Rimase in carica sino al 30 aprile 1924, allorché dovette lasciare il dicastero per motivi di salute. Il 7 ottobre 1922, interpellato dal re circa il contegno che avrebbe assunto l’esercito in caso di scontro coi fascisti, Diaz, pur non sottacendo le innegabili simpatie fasciste degli uomini in uniforme, dichiarò che avrebbe fatto il suo dovere. Consultato nuovamente dal sovrano tre settimane dopo, confermò quanto affermato ma osservò che sarebbe stato meglio non mettere alla prova l’esercito.

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dopo la vittoria, “per non scontentare alcuno”, non aveva ridotto le spese militari né congedato la pletora di ufficiali di complemento. Allorché divenne presidente del consiglio, Nitti trovò “la situazione più pericolosa e più assurda”, “il disordine che preparava il fallimento”: grave risentimento ingenerò la sua politica di pace e, dunque, la sua opposizione ad ogni avventura militare, ove generali ed ufficiali minacciati di disoccupazione avrebbero potuto trovare impiego. L’avventura di Fiume fu il prodotto di tale esplosiva situazione: “parve un’improvvisazione e non era, o almeno la improvvisazione era solo nella scelta del momento e delle circostanze”, ma minò irrimediabilmente l’autorità dello stato che fu costretto a tollerarla e a trattare con gli ufficiali in rivolta da pari a pari.

Lo statista meridionale scrisse di aver appreso soltanto in seguito ciò che allora ignorava, ovvero che si era ordita una vera trama cospirativa col sostegno e il consiglio di alcuni generali ed ufficiali superiori122.

Il progetto fu delineato e predisposto da militari e nazionalisti sin dalla fine di agosto; D’Annunzio esitò prima di passare all’azione poiché voleva rassicurazioni. Il piano prevedeva che il vate avrebbe si sarebbe lanciato nell’impresa, seguito dal primo gruppo di ufficiali congiurati, il 18 settembre, tuttavia, per un errore negli accordi o nelle comunicazioni, gli ufficiali disertarono in gran parte i loro reggimenti parecchi giorni prima e D’Annunzio ne fu avvisato l’11 settembre. A quel punto non avrebbe potuto rinunciare all’iniziativa sediziosa né procrastinarla ulteriormente: partì per Ronchi la mattina del 12 settembre. “Quello che avveniva – osservò Nitti –

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Francesco Saverio Nitti, Rivelazioni. Dramatis personae, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,1948, pp.327-332, 341-342.

non poteva avvenire senza la protezione e la complicità dei capi militari. Io ho la sicurezza che il generale Diaz e il ministro della Guerra Albricci furono come me ingannati. L’inganno non venne da D’Annunzio, ma da ufficiali dell’esercito attivo e soprattutto da alcuni capi. D’Annunzio sembrò il creatore del movimento e certo contribuì a crearlo, ma fu anche e soprattutto l’esecutore di una situazione che era all’infuori di lui. Io sapevo che situazioni e fermenti esistevano fra gli ufficiali, soprattutto in quelli che dovevano andar via e, per rendermene conto, avevo pregato il generale Diaz di fare un giro d’ispezione in tutta la zona d’occupazione, ed egli era tornato dandomi assicurazione che no avevamo motivo alcuno di preoccupazione. Io non ho nessun motivo di sospettare della sua buona fede. E’ evidente, invece, che molti militari, che dovevano informarlo, lo informarono assai male o gli mentirono, perché avevano interesse che avvenisse ciò che avveniva”. Il grave atto d’indisciplina ruppe le tradizioni dell’esercito italiano e il generale Caviglia si dichiarò disponibile per un’immediata liquidazione della “trista avventura”. “D’annunzio – scrisse Nitti – si eccitava ed eccitava, ma aveva temerarietà più che vero coraggio e impulsività più che intelligenza di direzione”. Allorché Giolitti, che “vedeva tutto dal punto di vista della politica interna”, ordinò di attaccare, nell’intento di por fine rapidamente all’occupazione di Fiume, Nitti credeva che D’annunzio, dopo tanti giuramenti, si sarebbe fatto uccidere piuttosto che arrendersi ad abbandonare la città ma, al contrario, dopo qualche colpo di cannone, egli ordinò la resa: “tante proclamazioni di

eroismo non potevano finire in modo più ridicolo”, “trattò Fiume come le sue amanti che abbandonava dopo averle sfruttate ed esaurite”123.

La prima reazione di Nitti alla notizia dei fatti di Fiume fu dura: la sera del 12 settembre telegrafò al generale Di Robilant, comandante dell’8^ armata schierata al confine jugoslavo, di provvedere col più estremo rigore isolando i ribelli da ogni contatto con l’esterno. Il giorno successivo, moderati i toni, non parlò più di condanne per rivolta e diserzione agli ufficiali che vi avevano preso parte, non ordinò un’immediata repressione e, orientandosi verso una soluzione politica atta a guadagnar tempo, d’intesa con Diaz ed Albricci, decise di inviare sul posto Badoglio, del quale approvò pienamente la linea politica propugnata, che assunse la carica di commissario straordinario militare della Venezia Giulia con autorità su tutti i comandi e poteri amplissimi. Di Robilant, in seguito, dichiarò che fu proprio l’arrivo di Badoglio ad impedirgli di stroncare immediatamente la sedizione. Secondo Alatri, Nitti si volle affidare al sottocapo di Stato Maggiore poiché Di Robilant non era riuscito nell’intento di soffocare in tempi brevi la rivolta, impresa che il presidente del consiglio aveva ritenuto, evidentemente, realizzabile. Rochat ha giudicato positiva la missione di Badoglio poiché riuscì a contenere e a far superare all’esercito la crisi dannunziana evitando che producesse lacerazioni ed irreparabili fratture nella disciplina. Il sottocapo di Stato Maggiore, infatti, temendo che la situazione delineatasi potesse rivelarsi esiziale, si adoperò per rinsaldare la fedeltà delle truppe, per riaffermare le tradizioni che avevano contraddistinto la compagine militare sin

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Francesco Saverio Nitti, Rivelazioni. Dramatis personae, Napoli,Edizioni Scientifiche Italiane,1948, pp.327-332, 341-342.

dalla sua costituzione e per salvaguardarne l’unità e la compattezza. Tali obiettivi ai sarebbero ottenuti evitando azioni armate contro i militari accorsi nella città dalmata ma reagendo risolutamente qualora fossero stati attaccati reparti regolari, svolgendo una capillare opera di propaganda al fine di contenere le crescenti defezioni124.

Nel suo intervento alla Camera del 13 settembre 1919, Nitti espresse il profondo senso di amarezza suscitato dai fatti di Fiume che, per la prima volta, sia pure per fini idealistici, avevano visto la sedizione infiltrarsi nell’esercito italiano il cui unico dovere e la cui sola norma era sempre stata l’obbedienza. Un’azione di volontari era cosa ben diversa dalla partecipazione di soldati regolari che, rompendo la disciplina, si mettevano contro la patria come chi li avesse indotti, con blandizie, ad atti di sedizione. Chiunque avesse parlato “un diverso linguaggio” sobillando, “con fatuità”, le folle operaie per provocare scioperi a detrimento della già esile produzione, chiunque avesse promosso “avventure perigliose” eccitando l’Italia contro le nazioni amiche, non era altro che “un avvelenatore” che inquinava l’intero paese. Il presidente del consiglio, dunque, rilevando, suo malgrado, come “la follia” stesse dilagando proprio in coloro che più avrebbero dovuto avvertire “il peso delle responsabilità”, stigmatizzò ogni manifestazione di militarismo verso cui dichiarò che non avrebbe usato la benché minima indulgenza: l’Italia avrebbe dovuto “ricomporsi, e per la sua stessa grandezza, per il suo stesso avvenire” occorreva serenità, lavoro, pace all’interno anche al fine di “dare all’estero affidamento di meritare il credito di

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Cfr. Luigi Emilio Longo, L’esercito italiano e la questione fiumana, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito,Ufficio Storico, 1996; Piero Pieri-Giorgio Rochat, Badoglio, Torino, Utet,1974.

cui ha bisogno”. L’Italia non avrebbe mai potuto resistere ad una politica di avventure senza sprofondare nella miseria, nell’anarchia; si rendeva necessario, pertanto, reagire energicamente, stroncare le lotte fratricide e dare al popolo la coscienza della sua responsabilità. Nitti dispose una rapida inchiesta per accertare le responsabilità militari. A parere del presidente del consiglio, numerosi soldati che “avevano agito sconsideratamente” erano stati ingannati poiché si era fatto credere loro di dover ritornare a Fiume, pertanto, sarebbe stato applicato l’articolo 238 del codice penale dell’esercito che li avrebbe giudicati disertori qualora non si fossero presentati nei cinque giorni previsti125.

Secondo la testimonianza del generale Caviglia, i documenti del Comando Supremo attestavano come gli Italiani non si sentissero legittimati a mantenere Fiume e come si ricorresse, di conseguenza, a relazioni personali per ottenere, come favore, ciò che al contrario costituiva un diritto. La remissività dimostrata dal governo fu all’origine della ribellione di Fiume. A Ronchi, chiosò il generale, si preparò la “scampagnata eroicomica fra le austere ed ancora insanguinate rovine e fra i cimiteri della grande guerra”: le conseguenze, “per quei capi scarichi”, sarebbero state mitigate dallo scopo, in fondo nobile, dell’impresa, poiché la nazione desiderava fortemente che Fiume fosse italiana; gravi, invece, furono le ripercussioni che l’atto sedizioso ebbe sull’esercito e sul prestigio e l’autorità dello Stato, in un momento in cui, peraltro, la sovranità era insidiata da più parti. “Essa servì agli alleati per sabotare la nostra vittoria sull’Austria-Ungheria e ci fece perdere la Dalmazia. La nazione si

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Discorsi parlamentari di Francesco Saverio Nitti. Pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, Vol. IV, Roma, Grafica Editrice Romana,1975, pp.1488-1494.

avvide che, mentre essa aveva vinto la guerra, il governo s’era lasciato battere nella pace”. Sebbene irriducibilmente avverso al governo Nitti e all’istituzione parlamentare, la cui autorità sarebbe stata restaurata agli occhi dei combattenti unicamente consentendo ai loro rappresentanti di entrarvi largamente, Caviglia era un convinto lealista nei confronti dei poteri costituiti poiché espressione della volontà nazionale e si sarebbe opposto a qualsiasi pronunciamento militare. La notizia dell’ammutinamento di interi reparti regolari, infatti, lo colpì profondamente: ancorché persuaso della legittimità della causa fiumana, il generale giudicò la defezione delle truppe sensibili al richiamo di D’Annunzio, che volle così rinverdire le proprie glorie militari e politiche, un grave atto d’indisciplina. L’impresa di Ronchi trovò ampi consensi per l’ingiusto trattamento subito dagli alleati e per l’incapacità della classe politica ma, soprattutto, in quanto il popolo italiano era ancora “immaturo per la libertà”. Sebbene il paese corse realmente il pericolo di una rivoluzione militare, il vate, a parere di Caviglia, non possedeva “le principali qualità per ben guidare la gioventù italiana in un piano di conquista dello stato”. Fra gli ufficiali che parteciparono alla spedizione alcuni si avvidero presto dell’errore commesso e, “consci del grave colpo inferto alla disciplina dell’esercito”, constatarono come la città fosse caduta progressivamente preda di una “tirannia anarcoide” e come l’obiettivo del comandante fosse, in realtà, non la salvezza di Fiume bensì la rivoluzione in Italia126. Anche in Italia, la conoscenza esatta degli avvenimenti alienarono a D’Annunzio le iniziali simpatie. La questione fiumana, ancorché non

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Enrico Caviglia, Il conflitto di Fiume, Cernusco sul Naviglio, Garzanti,1948, pp.10, 78-81, 129-131, 138, 294; Paolo Alatri, Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica (1919-1920), Milano, Feltrinelli,1959, pp.350-351.

avesse trovato una soluzione, ben presto non costituì più un pericolo per l’ordine nazionale.

L’atto di D’Annunzio – affermò Badoglio – fu certamente dettato da un sentimento mobilissimo di amor di Patria, come mobilissima era stata la di lui azione durante la guerra. Ma egli non aveva tempra di comandante: era soltanto un gran suscitatore di energie, un prodigioso

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