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L’esercito dall’Unità alla crisi dello Stato liberale

L’ESERCITO ITALIANO DALLA “APOLITICITA’” ALLA CONNIVENZA

1. L’esercito dall’Unità alla crisi dello Stato liberale

La prima guerra mondiale segnò una svolta decisiva nella storia delle forze armate italiane. L’esercito, in particolare per quanto attiene al rapporto con la società civile e in misura assai maggiore rispetto agli altri paesi, acquisì un potere inusitato in ogni ambito della vita pubblica. La transitoria e parziale abdicazione delle funzioni di comando e di controllo dell’autorità civile a favore di quella militare legittimò la concentrazione nelle mani di quest’ultima di un potere, di polizia e di propaganda, e di una discrezionalità pressoché assoluti e sovente in contrapposizione con gli indirizzi governativi1. Le nuove priorità e le maggiori responsabilità degli ufficiali professionisti, in particolare, contribuirono ad accrescere notevolmente l’interesse per il controllo degli affari militari, in politica interna ed estera2.

Se nell’età umbertina e poi giolittiana le forze armate, dunque, pur non essendo avulse dalla vita nazionale, si erano tenute tradizionalmente ai margini della politica, nel primo dopoguerra, si affermò prepotente il desiderio di assicurarsi un ruolo centrale e determinante nella gestione dello Stato, un ruolo che, idealisticamente, il generale Pecori Giraldi descrisse come il prosieguo “dell’alta missione, già affidata all’esercito, di essere scuola della nazione, cioè fonte di

1

Marco Mondini, La politica delle armi, Bari, Laterza, 2006, pp.29-32.

2

Ezio Cecchini, I professionisti militari e la politica, in Ufficiali e società. Interpretazioni e modelli, a cura di Giuseppe Caforio e Piero Del Negro, Milano, Franco Angeli,1988, pp.85-87.

incivilimento, mezzo di affratellamento delle diverse province italiane, correttivo all’analfabetismo, mezzo di miglioramento fisico e morale della nostra razza”3.

La Grande Guerra venne propugnata da Vittorio Emanuele III come un sacrificio necessario per il completamento dell’unità d’Italia: “I vostri padri – affermò nel proclama che rivolse alle truppe – hanno combattuto in tre occasioni alla conquista dell’indipendenza nazionale: riuscire completarla definitivamente sarà la vostra buona fortuna e la vostra gloria”.

Bonomi, compendiando efficacemente il comune sentire di chi aveva sostenuto l’ingresso nella prima conflagrazione europea, scrisse che il conflitto aveva insegnato “come la nazione diventi potenza e agisca per la sua grandezza”4. La vittoria costituì per l’esercito il compimento del proprio ruolo nazionale poiché aveva conquistato all’Italia il supremo riconoscimento della legittimità ad esistere come nazione, conferendole definitivamente il crisma di potenza ed assegnandole un posto più elevato nella gerarchia internazionale. Considerata un esame rigoroso della capacità morale di un popolo la cui unica legge regolatrice consisteva nella forza di ogni nazione, la guerra, segnatamente per i nazionalisti e per le forze armate che l’avevano combattuta, rappresentò l’occasione di una palingenesi, del riscatto tanto atteso, di un nuovo Risorgimento che avrebbe obliterato l’onta delle sconfitte subite in precedenza5.

3

A.U.S.S.M.E., L13, Fondo Pecori Giraldi, b.131, f.9, “La questione della ferma in relazione agli studi in corso sull’ordinamento dell’Esercito”, studio completato dal maggiore di Artiglieria Fernando Gelich, 5 ottobre 1921.

4

Ivanoe Bonomi, Dal socialismo al fascismo, Roma, A.F. Formiggini Editore,1924, p.125.

5

Roccucci, Adriano, Roma capitale del nazionalismo. 1908-1923, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Biblioteca scientifica, 2001, pp.206, 213, 216.

Prezzolini, concluse le ostilità, osservò come la stessa debacle dell’ottobre 1917 si fosse rivelata un bene poiché aveva costretto il paese a scoprire una nuova coscienza unitaria. Secondo il generale Giardino, il ripiegamento sul Piave aveva risanato l’esercito e il popolo6, mentre, al contrario, l’impresa di Vittorio Veneto aveva avuto paradossalmente un effetto negativo: gli italiani, persuasi di aver riportato un successo militare di primissimo ordine, suscitarono e portarono alle estreme conseguenze una politica da grande potenza.

L’unione sacra che avrebbe dovuto saldare esercito e paese, il mito della vittoria e gli onori tributati a coloro che l’avevano combattuta a prezzo di immensi sacrifici non impedirono che, a pochi mesi dal termine delle ostilità, gli uomini in divisa vedessero conculcata e svilita la propria immagine presso la società civile che manifestò, in maniera ancor più radicale, con aggressioni ed assedi alle caserme, una profonda animosità nei confronti del mondo militare.

L’amarezza, il risentimento e la delusione dell’esercito italiano per la mancanza di un’adeguata celebrazione della vittoria e di chi l’aveva conseguita, sono in realtà da ascrivere al complesso e sovente contraddittorio rapporto che da sempre aveva caratterizzato forze armate e nazione. Dopo anni di reciproca incomprensione, di incomunicabilità e di isolamento cui era stato condannato nell’Italia liberale, l’esercito attendeva, come giusto riconoscimento dell’alta prova sostenuta, una rinnovata unione con la società civile. Le sconfitte subite a Lissa, Custoza e, in seguito, ad Adua, avevano sanzionato l’inadeguatezza delle nostre forze armate ad

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inverare, nelle asperità del confronto bellico, il mito della guerra come prova suprema e legittimante della nazione. L’esercito aveva mancato a più riprese la vittoria e, palesando una connaturata inettitudine ad assolvere al suo precipuo compito nazionalizzante, vide progressivamente sgretolarsi il prestigio e la credibilità di cui, al contrario, godevano le istituzioni militari degli altri paesi europei. Le istanze e le sollecitazioni emerse negli uomini in divisa, dunque, attenevano non solo ai progetti di riforma e di riordinamento delle forze armate o al miglioramento del trattamento economico: la vittoria avrebbe dovuto rappresentare, per il mondo militare, l’occasione di una completa e meritata riabilitazione, il suggello di una ritrovata vicinanza, o meglio fusione, con la società civile. Ammantata di una incontestabile autorevolezza e di una popolarità conquistata sul campo di battaglia, la classe militare avrebbe posto una netta cesura con un passato che, segnatamente per ufficiali, pesava come un opprimente, indecoroso e umiliante fardello. La sacralizzazione e la mitopoiesi cui diede origine l’evento bellico, l’idealizzazione di numerose battaglie e il culto dei soldati caduti nascevano dalla necessità di trascendere la drammatica realtà della morte, di giustificare, legittimare e dunque rendere più accettabile e sopportabile la guerra. Il mito consentiva altresì di esaltare la figura del soldato come modello di uomo proposto alla nazione, e nascondere le sempre più accentuate fratture tra soldati ed ufficiali, accomunandoli nella stessa esperienza traumatica e al contempo paradigmatica. La propaganda antimilitarista del partito socialista, il rapporto della Commissione d’inchiesta su Caporetto, interpretato dalla compagine militare come un maldestro tentativo del Parlamento di celare le proprie

responsabilità a spese della sua reputazione, l’esasperazione del clima politico e l’incapacità della classe dirigente a farsi promotrice di una memoria condivisa della guerra e la scelta di non utilizzare la commemorazione della vittoria come mezzo catalizzatore del consenso, concorsero inesorabilmente ad aggravare il già profondo distacco tra esercito e paese. In luogo dei riconoscimenti, vi fu l’ingratitudine e, in luogo delle celebrazioni, gli assedi nelle caserme. Il potere coesivo della guerra avrebbe potuto contribuire a riparare, quantomeno sul piano morale, il dilacerato tessuto connettivo della nazione sublimando la sofferenza patita in una recuperata e costruttiva solidarietà umana, tuttavia, soverchiato dalla virulenza destruente e perniciosa dell’esasperazione e delle accuse, nulla poté dinanzi alle intimidazioni contro gli ufficiali additati al pubblico disprezzo ed obbligati a non indossare la divisa e a nascondersi7.

Se la guerra si decise militarmente sul Piave, dopo Caporetto, si decise il dopoguerra. De Felice ha icasticamente definito la disfatta del 1917 “una frustata a tutto il paese” che, raccolte tutte le energie, “si impennò e balzò innanzi in un supremo sforzo” trasformando la guerra in un fatto veramente nazionale. “La crisi di Caporetto”, ha scritto lo storico, portò alla luce le contraddizioni e la crisi profonda della società italiana, “sembrò per un momento far prevalere l’impostazione bissolatiano-salveminiana della guerra democratica e della liberazione delle nazionalità; in realtà essa segnò la vittoria del nazionalismo, per cui l’onta di

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A.U.S.S.M.E., L13, Fondo Pecori Giraldi, “Lettera riservata del Ministro Albricci ai Comandanti di Corpo d’armata, 11 ottobre 1919, oggetto: “Spirito dell’esercito”; cfr anche Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia

dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, Bologna, Il Mulino, 1991, p.553; George Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Bari, Laterza, 1990, pp.77-78.

Caporetto doveva essere lavata con l’affermazione della potenza italiana sui nemici esterni ed interni”8. Lo sfondamento di circa trenta chilometri del fronte italiano e la rapida infiltrazione delle truppe tedesche ed austriache determinarono lo sbandamento delle grandi unità, sopraffatte dagli effetti prodotti dalla sorpresa tattica acuiti oltremodo dalla fatica fisica e morale accumulata nei mesi precedenti. Il dolore ed il senso di impotenza provati, portarono numerosi ufficiali, incapaci di parlare ai propri soldati, a suicidarsi9.

L’Avanti! addebitò la demoralizzazione dell’esercito alle fucilazioni indiscriminate disposte dal severo regime instaurato dal Comando Supremo di Cadorna: esse non costituirono l’extrema ratio di un momento di drammatico smarrimento generale, bensì la prassi normale invalsa già molto tempo prima di Caporetto. A riprova di ciò, il 10 agosto 1919 il quotidiano socialista pubblicò una circolare del duca d’Aosta trasmessa il 1° novembre 1916 in cui si comminavano cruente ritorsioni ai soldati “colpevoli o non” dei reparti in cui si fossero verificati atti di indisciplina. Numerose furono altresì le rivelazioni raccolte in centinaia di lettere inviate all’Avanti! anche da ufficiali di complemento non socialisti, in base alle quali le fucilazioni furono considerate non la conseguenza ma la causa della rotta di Caporetto.

Più recentemente, il generale Di Lauro, esponente illuminato di quella parte del mondo militare che comprese maggiormente quanto fosse indispensabile il

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Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1995, pp.364-365.

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raggiungimento di un’effettiva integrazione dell’esercito nella società civile, si espresse così:

Caporetto ha assunto una fisionomia caratteristica tutta propria: non una semplice battaglia e neppure una grave sconfitta militare quale in sostanza fu; non un episodio, per quanto doloroso, sconcertante e per molti aspetti addirittura catastrofico, dell’immane conflitto, ma il culmine tragico di una crisi, la sintesi impressionante di numerosi coefficienti negativi di varia natura tutti concatenati con logico rigore, il crollo di una situazione di equilibrio assai precaria e a mala pena sostenuta sino a quel momento da deboli ed occasionali puntelli10.

Nella ritirata si allentarono i vincoli gerarchici, organici e disciplinari, ma non si trattò di uno “sciopero militare”, non vi fu una premeditazione, un’organizzazione, e non si verificò in misura significativa quella rivolta contro gli ufficiali registratasi, per esempio, negli ammutinamenti francesi. I soldati, nel disordinato ripiegamento non ubbidirono più agli ufficiali ma non li aggredirono, non li perseguitarono11. Da allora, le posizioni ideologiche subirono una forte radicalizzazione. Durante la ritirata del 24 ottobre 1917, sebbene venisse infranto ogni vincolo disciplinare, i soldati non si resero responsabili di episodi di violenza ai danni di ufficiali12.

Generalmente si ritiene che la crisi morale dell’esercito italiano seguita alla disfatta di Caporetto fosse stata completamente riassorbita allorché si cominciò a combattere sul Piave. In realtà, la ripresa fu lenta e faticosa, come attestano le allarmanti informazioni sullo stato d’animo della fanteria che, nei primi mesi del 1918, giungevano regolarmente al presidente del Consiglio Orlando. I rapporti inviati documentavano i segni profondi di uno sconquasso fisico e psicologico difficile da superarsi e che faceva paventare un’esasperazione tale da indurre i soldati ad

10

Ferdinando di Lauro, Saggi di storia etico-militare, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, 1976, p.335.

11

Nicola Labanca – Giovanni Procacci - Luigi Tomassini, Caporetto: esercito, stato e società, Firenze, Giunti, 1997, pp.15-16.

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ammutinarsi, a gettare i fucili e persino a rivolgere le armi non contro il nemico. Il 15 febbraio 1918, infatti, Orlando confidò ad Olindo Malagodi che ad impensierirlo maggiormente non era la tenuta interna, nel complesso positiva, ma l’esercito, soprattutto a causa dell’immagine diffusa dagli interventisti di Caporetto come sciopero o addirittura rivolta militare, che insinuava così nei soldati l’idea di attuare ciò che nell’ottobre del 1917 non avevano nemmeno lontanamente pensato di fare. Il capo del governo, pertanto, invitò i prefetti a raccogliere le testimonianze dei soldati in licenza per addivenire ad un’esaustiva valutazione del morale delle truppe. Le relazioni esaminate delinearono, pressoché all’unanimità, una situazione che non giustificava affatto le inquietudini e le pessimistiche previsioni di Orlando, pur sottolineando la diffusione di evidenti segni di malcontento e stanchezza13.

Nella Commissione d’inchiesta su Caporetto, come ha chiosato Novello Papafava, “si conciliarono i due partiti a spese della verità”14: i lavori si appuntarono principalmente sull’individuazione dei colpevoli o dei presunti tali, non su un’approfondita indagine volta a rintracciare le cause del tracollo15.

I commissari appartenenti all’esercito mirarono a “salvare” i militari, quelli borghesi a celare la negligenza e l’imperizia del governo. Tuttavia, poiché le motivazioni della debacle dovevano essere in qualche misura chiarite, si optò per una soluzione di comodo, ovvero additare l’intera responsabilità a pochi uomini, fra cui Cadorna e Capello che a ragione contestarono le conclusioni dell’inchiesta. Tra

13

Piero Melograni, Documenti sul «morale delle truppe» dopo Caporetto e considerazioni sulla propaganda socialista, in “Rivista storica del socialismo – Il PSI e la Grande Guerra”, n.32, 1967.

14

Novello Papafava, Appunti militari. 1919-1921, Milano, S.T.E.T., 1924, p.98.

15

questi, si sarebbe dovuto includere anche Badoglio ma, poiché in quel momento era il vero comandante supremo dell’esercito, il suo nome venne “accantonato”16.

Numerose furono le petizioni inoltrate da alti ufficiali che si considerarono ingiustamente lesi dai risultati cui era pervenuta la commissione e dai provvedimenti presi a loro carico dal ministero della Guerra. Il generale Cavaciocchi, ad esempio, si avvalse della facoltà concessa dall’articolo 57 dello Statuto ed espose le proprie ragioni. Spiegò che il IV corpo d’armata da lui comandato era stato travolto dall’attacco sferrato il 24 ottobre essenzialmente perché, il nemico, attraverso una breccia aperta nell’adiacente XXVII corpo d’armata, lo aveva sorpreso alle spalle tagliandone le comunicazioni. Sebbene la sua testimonianza avesse trovato pieno riscontro nelle indagini esperite, il disastro fu invariabilmente addebitato agli errori commessi dal IV corpo d’armata e dal suo comandante che non esitò a definirsi pubblicamente la vittima designata come capro espiatorio degli errori altrui17.

Sebbene la storiografia militare propenda fermamente per le cause militari della disfatta, Isnenghi ha sottolineato altresì che il ritardo con cui il Comando Supremo aveva ordinato la ritirata non costituì un fatto meramente tecnico, bensì rappresentò “il frutto avvelenato di una scelta politica; analogamente, fu decisamente politica la scelta di tacciare di tradimento e additare le responsabilità del tracollo ai disfattisti e ai soldati18.

16

Novello Papafava, Appunti militari. 1919-1921, Milano, S.T.E.T.,1924, p.98.

17

A.U.S.S.M.E., L-13, Fondo Pecori Giraldi, b.131, Comando Supremo-Inchiesta sui fatti di Fiume (in zona d’armistizio), Carteggio, f. Generale Cavaciocchi, “Petizione del tenente generale Alberto Cavaciocchi al Senato del Regno, Torino, 1 dicembre 1919.

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Nitti espresse la più viva soddisfazione per la serenità con cui alla Camera si svolse il dibattito sui risultati cui era pervenuta la Commissione d’inchiesta e per l’unanime riconoscimento del valore dimostrato dalla grande maggioranza degli italiani che nella terribile esperienza della guerra, ove si era deciso della salvezza e dell’avvenire del paese, era stata pari al suo compito. Il presidente del Consiglio sottolineò altresì l’alto servizio reso alla patria dalle forze armate, cimentatesi in gesta grandiose. Nonostante vi fossero stati indubbiamente errori, l’importante era poter constatare allora che l’impresa fosse riuscita e che tutti avessero avvertito quanto il paese ne fosse uscito rafforzato e rinvigorito. Nitti giunse ad asserire che nessuno aveva potuto proferire alcuna parola contraria, alcun giudizio avverso nei confronti dell’esercito che rappresentava tutta la nazione, la patria, i figli. A suo parere, l’Italia, per la prima volta, dopo secoli di sottomissione al dominio di altre genti, aveva conseguito una vittoria così imponente da sanare tutti gli errori commessi nell’immenso sforzo compiuto. Nella disfatta di Caporetto il presidente del Consiglio riconobbe una responsabilità da addebitare all’intero paese, poiché nessuno aveva immaginato un conflitto così lungo e doloroso. Le deficienze della macchina bellica, i calcoli strategici inesatti, la lacunosa assistenza spirituale fomite d’irresolutezza e di tentennamenti nel corso delle operazioni, furono alla base della disfatta: i capi militari fecero ammenda e da essi avrebbero tratto insegnamento affinché non si ripetessero più in avvenire. Caporetto fu un terribile rovescio, un “profondo travolgimento” da cui, tuttavia, prese l’abbrivio il rinnovamento, “la resurrezione” del popolo italiano, poiché il paese, soprattutto le classi agiate e la borghesia, si rese conto di aver avuto

scarsa coscienza “delle necessità del patriottismo” e avvertì l’esigenza di impegnarsi con maggiore abnegazione per un ultimo grande sforzo.

Tutti i paesi – scrisse Nitti – avevano subito gravi sconfitte, ma solo l’Italia ebbe il coraggio e la forza di discuterne. Sebbene l’inchiesta avesse suscitato forti apprensioni e perplessità, Nitti volle fermamente che se ne dibattesse in Parlamento nella convinzione che l’esercito ne sarebbe uscito con onore. A dibattito avvenuto, infatti, commentò la seduta affermando che il voto finale onorò la Camera e l’esercito19.

Quella tra forze armate e società civile si rivelò un’apparente concordia, un’intesa dal carattere aleatorio e deciduo che l’inquietante ed instabile panorama politico del primo dopoguerra spazzò via nell’arco di pochi mesi. Il conflitto riuscì a familiarizzare la cittadinanza con l’organizzazione militare attenuandone il marcato senso di estraneità, ma esercito e paese, come ha sottolineato Rochat, malgrado la guerra li avesse sensibilmente avvicinati, abbattendo transitoriamente il malcelato disprezzo reciproco, persero la grande occasione di superare definitivamente l’atavica separazione e di stemperare così le ubbie e la vicendevole riluttanza in un rapporto di proficua collaborazione. Ciò si dovette in gran parte all’impreparazione dei governi nei confronti dei problemi militari, ritenuti secondari e sovente trattati in modo strumentale20. La vittoria italiana nel primo conflitto mondiale non deve essere valutata unicamente sulla base degli aspetti storici, poiché è sotto il profilo spirituale che essa rivela la sua vera essenza, nei sacrifici patiti nelle trincee. Vittorio Veneto,

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Discorsi parlamentari di Francesco Saverio Nitti pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, Vol. IV, Roma, Grafica Editrice Romana, 1975, pp.1495-1497, 1499-1500, 1509.

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esaltata, dal punto di vista strettamente militare, come una battaglia di rottura dagli effetti sorprendenti e decisiva per le sorti del conflitto sul fronte italiano, se apparentemente, o meglio idealmente, fu considerata il risultato prodigioso dell’intima fusione che, creando un nuovo tessuto connettivo, era riuscita a fare dei cittadini e dei soldati un esercito solo, si rivelò di un amalgama occasionale imposto dalle stringenti circostanze, non dalla completa maturazione di una coscienza nazionale e da un’unità compiutamente raggiunta.

La distanza, l’incomunicabilità e le conseguenti incomprensioni tra politici e militari scaturirono in primis dal disinteresse della società civile per le problematiche che attenevano alla guerra, nonché da un conflitto inconciliabile che scuoteva l’esercito dall’interno, ovvero l’antitesi manichea tra l’anelito al superamento della tradizionale separazione dalla collettività e la gelosia di un corpo elitario, oligarchico, autonomo ed autoregolato. Tale discrasia non ha mancato di riverberarsi anche nella storiografia italiana che per lungo tempo ha trascurato la storia e lo studio dell’organizzazione delle forze armate: Giorgio Rochat ha spiegato il notevole ritardo accumulato negli studi di storia militare addebitandolo alla gravità delle tensioni sociali e alla debolezza delle strutture dello stato italiano che rendevano più delicato il ruolo dell’esercito come tutore dell’ordine pubblico e a sostegno del potere costituito21.

Il primo esperimento di accentramento istituzionale avvenne con la nascita dell’esercito italiano il cui nucleo fondamentale corrispondeva alla piccola armata

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Rochat, Giorgio, Politica militare e antimilitarismo nell’Italia contemporanea, in “Rivista di storia contemporanea”, n.1, gennaio 1974.

piemontese, istituzione intimamente autoritaria e fortemente radicata nell’antico

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