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L’ESERCITO ITALIANO DALLA “APOLITICITA’” ALLA CONNIVENZA

4. La politica militare di Nitt

L’Idea nazionale si fece portavoce dell’assai polemica accoglienza riservata

alla formazione del governo Nitti dal mondo militare: le “forze più vive create dalla guerra” interpretarono la designazione dello statista meridionale come “il tentativo di soffocare il movimento dei combattenti”, ritenuto il vero obiettivo del ministero145.

La scelta di Nitti di non celebrare l’anniversario del 4 novembre nel timore che la situazione avesse potuto degenerare in scontri e sommovimenti di piazza ne costituì la prova eclatante e fu il segno più evidente della rinuncia del governo a sanzionare a livello istituzionale e a suggellare con la costruzione di una memoria condivisa il sentimento d’identità nazionale emerso dalla guerra. Al fine di comprendere interamente l’asprezza con cui l’esercito attaccò il governo Nitti, si deve altresì considerare che, quando s’insediò, era stata approntata una spedizione militare in Georgia, incoraggiata dalle altre potenze europee, cui il nuovo ministero, tuttavia, pose il veto, risoluto a procedere ad una rapida smobilitazione146. Il governo Nitti, contrario ad altre spedizioni oltremare, sollecitò il rapido rientro delle unità dislocate all’estero, persuaso che un minore impegno militare al di fuori del Regno

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A.C.S., Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione AA.GG.RR., 1920, C-1, b.57, f.36 “Movimento nazionalista”, Conversazione fra Rossini e Albertini, 25 ottobre 1920.

145

L’Idea nazionale, 22 giugno 1919.

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Gaetano Salvemini, Le origini del fascismo in Italia, Lezioni di Harvard, a cura di Roberto Vivarelli, Milano, Milano,1966, p.207.

avrebbe consentito un maggiore impiego dell’esercito all’interno, al fine di soddisfare le sempre più numerose richieste di interventi a tutela dell’ordine pubblico147.

La linea politica di Nitti, improntata al dialogo coi socialisti al fine di ottenerne il consenso, trovò l’esercito su posizioni decisamente antitetiche, come attestato dalle dimissioni del ministro della Guerra Caviglia, le cui motivazioni sintetizzano il sentire delle forze armate.

Il ministro Caviglia nel febbraio 1919 inviò ai comandi territoriali di corpo d’armata una circolare in cui gli invitava ad adoperarsi affinché, nel periodo di transizione dalla fine delle ostilità alla firma del trattato di pace, fosse mantenuta più che mai viva l’azione di assistenza e di propaganda svolta dagli uffici competenti presso i vari comandi e soprattutto li sollecitò a provvedere senza indugio ad onorare opportunamente i reparti che tornavano dal fronte. Le operazioni di smobilitazione, infatti, avrebbero reso sempre più frequente l’arrivo nelle città dei reggimenti che, dopo quattro anni, rientravano nelle sedi di appartenenza e i comandi avrebbero dovuto riservare loro l’accoglienza che meritava chi aveva consacrato “le migliori energie della vita” al servizio della patria. Il sentimento di ammirazione e di riconoscenza per l’esercito si doveva estrinsecare con manifestazioni tangibili che facessero sentire ai soldati la gratitudine e l’affetto che li circondava; le bandiere ed i vessilli delle associazioni patriottiche avrebbero dovuto omaggiare il reparto al suo ingresso in città insieme alla popolazione festante. All’entusiasmo iniziale, sarebbero dovute seguire “opere di continua assistenza materiale e morale”, come le Case del

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Vincenzo Gallinari, L’esercito italiano nel primo dopoguerra, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio storico, 1980, p.119.

soldato, i segretariati, le scuole per analfabeti, le sale di lettura e di svago; nei teatri e nei cinematografi si sarebbero dovute promuovere rappresentazioni in onore dei reduci. Per tutte queste iniziative le autorità militari avrebbero trovato valido sostegno nei numerosi comitati istituiti durante la guerra con fini patriottici, nelle amministrazioni comunali e, soprattutto, nei prefetti che sarebbero stati opportunamente interessati dal ministero dell’Interno148. Il generale pregò il presidente del Consiglio di non insistere perché mantenesse l’incarico ricoperto in quanto si trovava costretto a rifiutare: egli non condivideva le sue inclinazioni politiche né la rilevanza conferita a socialisti e radicali, cui Nitti riservava un trattamento di favore al fine di guadagnare al governo il loro appoggio e garantirsi la maggioranza in Parlamento. Caviglia riteneva che Nitti si fosse messo alla testa delle formazioni estreme, dotate delle più forti organizzazioni politico-militari e miranti allo sgretolamento dell’autorità statale, per moderarne gli eccessi, convogliarne gli sforzi e indirizzarne l’operato. L’errore più gravido di nefaste conseguenze che, a suo avviso, aveva commesso il presidente del consiglio, era l’incomprensione e l’ostilità manifestate nei confronti delle “forze giovanili uscite dalla guerra”, il cui spirito combattivo era rivolto alla ricostituzione di uno stato forte basato sull’ordine e sul lavoro. Nitti, a suo parere, giudicava inevitabile che in Italia accadesse qualcosa di analogo agli avvenimenti russi del 1917, ovvero che i soldati e gli operai si unissero

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A.C.S., Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione AA.GG.RR., 1920, b.57, C-1, f.39 “Onoranze ai reparti militari che rientrano dal fronte”, Ministero della Guerra, Divisione Stato Maggiore, circolare n.3668 ai Comandi territoriali di Corpo d’armata, 5 febbraio 1919, oggetto: “Onoranze da rendersi ai corpi e reparti che rientrano dalla zona di guerra”.

contro la borghesia intellettuale che aveva voluto la guerra149, cagionando la mancanza di una compiuta progettualità politica. Al contrario, Soleri, ancorché persuaso dell’opportunità di evitare misure eccessivamente drastiche che avrebbero potuto “precipitare il paese nel caos”, se biasimò, nelle sue memorie, la mancanza d’iniziativa del governo Nitti, ne ascrisse tuttavia la debolezza e la mancanza di iniziativa alla persuasione dello statista meridionale che in Italia la rivoluzione fosse “impossibile e non temibile, perché costituente un lusso non consentito a un paese così povero, privo delle risorse necessarie per una vita autonoma” e sottoposto al rigido controllo di potenze da cui dipendeva economicamente150. A giudizio di Nino Valeri, altresì, il limite di Nitti, chiamato a presiedere gabinetti instabili e rabberciati, consistette “nella stessa finezza del suo ingegno, che lo distaccava dai contrasti e dalle durezze di cui è materiata la vita politica reale”151. Roberto Vivarelli ha interpretato l’atteggiamento di Nitti dinanzi ai moti annonari come naturale espressione della “tendenza accomodante” del suo carattere che lo rendeva oltremodo incline a seguire il corso degli eventi152 ingenerando una sfiducia generalizzata nelle istituzioni in larghi strati della borghesia. Di contro, Marcello Saija ha deplorato la severità di tale giudizio sottolineando i ridotti “margini di agibilità” di cui Nitti disponeva a causa delle forti pressioni esercitate da settori opposti dell’opinione pubblica e della politica153.

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Pier Paolo Cervone, Enrico Caviglia l’anti Badoglio, Milano, Mursia, 1997, p.125.

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Marcello Soleri, Memorie, Torino, Einaudi,1949, pp.81-82.

151

Nino Valeri, La lotta politica in Italia. Idee, movimenti, partiti e protagonisti dall’Unità al fascismo, Firenze, Le Monnier, 1998, p.469.

152

Roberto Vivarelli, Il dopoguerra in Italia e l’avvento del fascismo. 1918-1922, Istituto italiano per gli Studi Storici di Napoli, 1967, p.467.

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De Felice, infine, ha evinto dalla documentazione esaminata che Nitti, sebbene costantemente informato del lavorio sotterraneo per rovesciare l’ordine costituito, si illuse sino alla fine che fossero minacce prive di consistenza, perché sicuro della fedeltà dell’esercito e persuaso di poter neutralizzare le frange più estremiste con energici provvedimenti di polizia154.

Un episodio verificatosi nel novembre 1919 sembra avvalorare in modo evidente le critiche più dure all’operato di Nitti palesandone la scarsa propensione al varo di misure drastiche per arginare il pericolo fascista. Il 16 novembre 1919, i risultati delle prime elezioni politiche tenutesi col sistema proporzionale decretarono la vittoria dei socialisti segnando la completa disfatta dei fascisti. Il giorno successivo alle consultazioni elettorali, si organizzò un’imponente manifestazione dei socialisti milanesi per festeggiare il trionfo. I fascisti tentarono di opporsi con la forza ai dimostranti ma il tempestivo intervento delle autorità di P.S. impedì lo scontro e consentì al corteo di raggiungere la redazione dell’Avanti! Nel tragitto verso piazza Duomo, tuttavia, i manifestanti subirono una violenta aggressione attraverso il lancio di un petardo che ferì otto persone e si diressero immediatamente verso la sede fascista. I socialisti riuscirono a sfondare il cordone formato dalla truppa e neanche il rinforzo di un reparto di carabinieri evita l’esplosione di nuovi tafferugli. Le forze dell’ordine poterono ristabilire la calma dopo numerosi tentativi di dominare la situazione incandescente ma i dimostranti indissero uno sciopero generale per il 18 novembre al fine di celebrare il successo alle urne e protestare contro l’assalto subito.

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Nitti, allarmatosi, inviò un telegramma al prefetto Pesce ingiungendogli di assumere un atteggiamento duro ed intransigente poiché le gravi circostanze del momento non ammettevano alcuna debolezza. Il presidente del Consiglio constatò come, in deroga alle disposizioni allora vigenti, armi ed esplosivi circolavano liberamente: dovevano pertanto essere sequestrate e i loro detentori arrestati e denunciati all’autorità giudiziaria. Si prescriveva la massima efficienza e celerità senza usare riguardi a nessuno. Il prefetto Pesce diede a tali direttive immediata attuazione e la perquisizione della sede del fascio portò al ritrovamento di due bombe e numerosi pugnali, pertanto furono tratti in arresto quattro arditi. Poco più tardi vennero tradotti in carcere anche Ferruccio De Vecchi e Filippo Marinetti.

Un’autorevole delegazione socialista che annoverava gli onorevoli Turati e Treves, si recò dal prefetto reclamando energici provvedimenti punitivi contro le intemperanze e le soperchierie commesse da arditi e fascisti poiché gli avvenuti arresti non vennero ritenuti sufficienti. Si richiese, dunque, a gran voce la pubblicazione di un manifesto alla cittadinanza in cui la prefettura si impegnava ad allontanare da Milano tutti gli arditi e a sciogliere l’associazione dei fascisti. Pesce eccepì che tali misure esorbitavano dalle sue competenze ma assicurò di interessarne il presidente del Consiglio e dovette cedere riguardo l’affissione di un manifesto col quale si assumeva l’oneroso compito di garantire “la pubblica tranquillità”.

Le perquisizioni effettuate nella sede del Popolo d’Italia portarono al rinvenimento di armi e munizioni; nella cassaforte di Mussolini fu ritrovata una pistola lancia razzi austriaca che recava segni inconfutabili di un uso recente, bossoli

e cartucce per rivoltella. Il prefetto non ebbe esitazioni e dispose l’arresto del leader fascista155. Datane immediata comunicazione al ministero dell’Interno, il funzionario ricevette pochi minuti dopo la replica di Nitti che, con parole concitate da cui trasparivano stizza e disappunto, sconfessò in toto il suo operato:

Dopo tanta tolleranza – lo rimproverò – è estremamente pericolosa ogni violenza. Mi duole che sia avvenuto fatto grave come arresto Mussolini senza che mi abbia avvertito. E’ provvedimento estrema gravità e solo fatto delittuoso poteva giustificarlo. Bisogna subito rilasciarlo se non esistono gravi delitti. Richiesta socialisti è assurda. Non esistono arditi a Milano perché non vi è reparto arditi. Se vi sono arditi venuti con cattive intenzioni bisogna arrestarli, ma rispettare tutti gli altri. Non vede nemmeno convenienza sciogliere associazione fascisti se non commette atti delittuosi. Non bisogna perdere la calma. Agisca con grande vigore ma con grande calma156.

Pesce, malgrado l’accusa mossagli quasiché avesse agito motu proprio, in realtà, si era attenuto scrupolosamente alle disposizioni governative. La sua risposta, dunque, non si fece attendere. Egli inviò un fonogramma al capo di gabinetto di Nitti esprimendo amarezza e rincrescimento per i dubbi avanzati dal presidente del Consiglio sulla calma con cui aveva agito. Non aveva fatto altro che applicare le direttive impartire alle autorità locali in conformità a quella che riteneva fosse la linea varata dal governo.

Arresto Mussolini – rimarcò perentoriamente – fu legale conseguenza rinvenimento armi, munizioni e bombe nella perquisizione al Popolo d’Italia. Perquisizione fu ordinata in seguito a formale denuncia socialisti ed a risultanze perquisizioni altre sedi fascisti. Provvedimento fu confortato anche dal telegramma n.33429 che ingiungeva di sequestrare armi ed esplodenti dovunque si trovassero, arrestare detentori e denunciarli all’autorità giudiziaria senza usare riguardi ad alcuno. Del resto, arresto Mussolini ha contribuito a rendere calma città che sera 17 e mattina ieri aveva aspetto veramente minaccioso e temevasi da tutti gravi conseguenze. Lo stesso Mussolini nell’atto dell’arresto disse che provvedimento era giustificato ed egli vi si sobbarcava volentieri se avesse potuto ridare cittadinanza tranquillità. E questa infatti oggi è tornata completa157.

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Maria Azzurra Ridolfo, La crisi dello Stato liberale in tre biografie di tre prefetti De Carlo, Pesce, Olivieri, Milano, Trisform, 2007, pp.98-101.

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A.C.S., Ministero dell’Interno, Direzione Generale P.S., 1919, b.95, telegramma di Nitti al prefetto Pesce, 18 novembre 1919.

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A.C.S., Ministero dell’Interno, Direzione Generale P.S., 1919, b.95, telegramma del prefetto Pesce a Nitti, 19 novembre 1919.

Pesce, evidentemente, aveva già individuato la reale indole del fascismo e ne paventava gli sviluppi. D’altronde, gli obiettivi del movimento mussoliniano erano stati proclamati chiaramente sin dall’adunata di piazza San Sepolcro e le prevaricazioni e gli attacchi dei suoi affiliati confermavano sempre di più le mire eversive di un’associazione nata per sovvertire le istituzioni liberali. Ipotesi interpretative di altra natura sarebbero risultate oltremodo ingenue. Il procuratore generale del re, Gasti, nel rapporto stilato alla fine di novembre, dimostrò a che livello di comprensione del movimento fascista e di consapevolezza dei suoi fini si fosse giunti a distanza di pochi mesi dalla sua fondazione: l’organizzazione di questi “manipoli” avveniva “con lena instancabile” al fine di costituire una forza ingente e temibile per il conseguimento dell’obiettivo prefisso che si concretava “in un reato ben determinato contro l’ordine pubblico e cioè i tumulti sediziosi a mano armata di ogni anche lieve provocazione avversaria, il deliberato proposito di trascendere ad ogni occasione nella legittima difesa anche con reati contro le persone”.

All’interno dello Stato si era creata, dunque, un’organizzazione di stampo militare retta da una gerarchia di capi e di gregari armati dipendenti da un comando unico, il cui fermo proposito, sbandierato a più riprese, era avvalersi di qualunque messo, anche illegale, e di ricorrere all’uso delle armi al deliberato scopo di procurare lesioni personali o veri e propri omicidi, per reagire, in modo eccessivo e del tutto sproporzionato alle provocazioni socialiste anche semplicemente verbali. Le autorità milanesi furono in grado di sottoporre al vaglio del governo un quadro esaustivo e

particolareggiato della struttura, dell’inquadramento, d’azione e dei fini del movimento fascista. Il ritrovamento di un vero e proprio arsenale militare e di una documentazione che rivelava in maniera inconfutabile i reali obiettivi del fascismo, avrebbero dovuto decidere Nitti a procedere senza indugi per neutralizzare il processo eversivo da esso innescato. Lo statista meridionale, tuttavia, temendo verosimilmente di aver scoperto troppo il fianco alle opposizioni che lo accusavano di eccessiva condiscendenza, se non di longanimità, nei confronti dei socialisti, non approvò l’arresto di Mussolini158.

A corroborare la tesi secondo cui è proprio col ministero Nitti che si compie la rottura del monopolio statale della violenza, è un altro episodio emblematico. A gennaio 1920, lo sciopero dei ferrovieri compromise seriamente la tenuta dell’ordine pubblico. Il questore Gasti, per fronteggiare l’emergenza, ricorse all’impiego di quaranta volontari aderenti al comitato per l’organizzazione civile formatosi per integrare, qualora si fosse reso necessario, l’organico dei servizi pubblici e coadiuvare le forze dell’ordine. Il 19 febbraio Pesce istituì appositamente il corpo “dei volontari dell’ordine” a sostegno degli agenti di P.S. “nei servizi di prevenzione e di repressione dei reati contro le persone e le proprietà”. Tale provvedimento interpretava in maniera probabilmente estensiva l’invito rivolto ai funzionari dal ministro dell’Interno ad interim Mortara “a fare miglior uso” delle forze di P.S. a loro disposizione in attesa dell’inserimento di nuovi uomini nell’organico. Ma Pesce, in realtà, non agì di propria iniziativa o sulla base di convincimenti personali, bensì

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nell’ottica di un integrale rispetto della linea politica ministeriale e delle relative disposizioni governative, ovvero la circolare di Nitti del 14 luglio. In questo senso, sembrerebbe opportuno interpretare le esortazioni contenute nella corrispondenza col generale De Albertis a “facilitare incoraggiare e coordinare tutte le opere dirette a fortificare il sentimento patriottico e di sana conservazione sociale”159.

Il problema dell’amnistia ai disertori, che avrebbe dovuto completare l’opera di normalizzazione avviata da Nitti, come ha sottolineato Rochat, rappresentò un altro infelice caso in cui il silenzio inspiegabile delle autorità che se ne occuparono, la superficialità e, talvolta, l’indelicatezza con cui fu gestita dai comandi militari e dalla stampa, favorì la diffusione di insinuazioni ed accuse infamanti sulle forze armate160.

L’Avanti! promosse una campagna di denuncia delle esecuzioni sommarie dei soldati durante la guerra e caldeggiò in numerosi articoli l’amnistia completa per i disertori. La piaga dell’ “imboscamento”, infatti, come emergeva dalle frequenti inchieste sulle condizioni dello spirito dei soldati in licenza, ancorché condotte con metodi approssimativi, era fortemente sentita al di là e al di qua del fronte, dai combattenti e dalla popolazione civile che avvertivano una sempre crescente sfiducia nell’organizzazione dello stato, nella classe dirigente politica e militare che non contrastava efficacemente quest’ingiustizia161.

Malgrado l’aumento progressivo durante la guerra dei casi di diserzione e renitenza, che sovente furono atti involontari che avvenivano nell’incoscienza, quasi fossero automatismi, secondo De Felice tale fenomeno non intaccò l’efficienza

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Maria Azzurra Ridolfo, cit., pp.107-109.

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Giorgio Rochat, L’Esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, Bari, Laterza, 2006, pp.72-77.

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dell’esercito162. Nitti si avvalse della collaborazione di Badoglio nell’amnistia ai disertori e nella smobilitazione. Sebbene la propaganda nazionalista interpretò l’amnistia come un cedimento al disfattismo e alle forze antipatriottiche, questa invero dimostrò quanto l’esasperazione e l’ossessione del disfattismo invalsi durante il conflitto, insieme ad un eccessivo formalismo disciplinare avessero falsato la natura dei reati militari163.

Secondo la testimonianza del generale De Bono164, alla rotta di Caporetto seguì “una massa di siluramenti ingiustificati; molti, troppi dovuti al cercare il capro espiatorio; alla credenza che così si volesse al Comando Supremo, alla paura di essere sacrificati se non si sacrificava […] Molti furono rimossi solo perché un nucleo avanzato da loro dipendente era stato fatto prigioniero o perché si era perduto un piccolo tratto di trincea”165. Sin dal 1916, come attestato da una nota del ministro della Guerra Morrone a Corradini, la popolazione appariva persuasa che, terminato il conflitto, sarebbe stata concessa un’amnistia generale ai disertori e ai renitenti. Le pene detentive, anche le più severe, non producevano gli effetti sperati nel contrastare tali convincimenti, pertanto, le autorità militari, preoccupate del fenomeno che si

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Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965, p.316; Antonio Gibelli, L’officina

della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri 1991, p.137.

163

Enzo Forcella-Alberto Monticone, Plotone di esecuzione, Bari, Laterza,1972, p.LXXII.

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Emilio De Bono, tra le alte gerarchie militari, fu l’utlimo ad aderire al fascismo. Sino al luglio 1922, infatti era collaboratore militare de Il Mondo di Giovanni Amendola. Partecipò all’assalto di Palazzo Marino e della sede dell’Avanti! dopo il fallito sciopero generale del 1^ agosto 1922. Con De Vecchi, fu tr i redattori del nuovo regolamento di disciplina della milizia fascista pubblicato su Il Popolo d’Italia il 3 ottobre 1922. Con Bianchi, De Vecchi e Mussolini, costituì lo stato maggiore della marcia su Roma.

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riverberava anche in ambito disciplinare, erano costrette ad adottare sovente forme di repressione più drastiche166.

Durante il conflitto, la giustizia militare italiana pronunciò 4000 condanne a morte, di cui 750 vennero eseguite. Numerose furono le vittime di esecuzioni sommarie, ovvero di fucilazioni ordinate direttamente dai comandanti contro militari macchiatisi di gravi reati, o semplicemente indiziati, per cui si ricorreva alla “decimazione”, sistema che prevedeva la designazione per mezzo del sorteggio preceduto, tuttavia, da un coscienzioso, per quanto rapido e dunque poco approfondito, accertamento delle colpe esteso anche a coloro su cui gravavano mere presunzioni, vaghi sospetti o nessun segno di colpevolezza.

Ricordo – dichiarò Cadorna nella circolare telegrafica n.210 trasmessa ai comandi di corpo d’armata il 1° novembre 1916 – che non vi è altro mezzo idoneo a reprimere reato collettivo che quello dell’immediata fucilazione dei maggiori responsabili, e allorché l’accertamento personale dei

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