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Il riordinamento dell’esercito

L’ESERCITO ITALIANO DALLA “APOLITICITA’” ALLA CONNIVENZA

5. Il riordinamento dell’esercito

La Grande Guerra, col richiamo alle armi, in quattro anni, di ben ventisette classi di leva, dal 1874 al 1900, alterò profondamente il sistema di reclutamento. Nel 1909 la ferma era stata ridotta da tre a due anni, ma la guerra di Libia e il successivo intervento nella conflagrazione europea, non consentirono di dare piena applicazione al provvedimento poiché la permanenza alle armi venne oltremodo prolungata. La durata del conflitto e l’enorme massa di uomini scesi in campo determinò un consistente impiego di riservisti: nel 1918, il personale inquadrato nei livelli organici inferiori, ovvero i battaglioni e le compagnie, proveniva pressoché totalmente dal

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AUSSME, L 13, Fondo Pecori Giraldi, Comando Supremo, “Inchiesta sui fatti di Fiume (in zona d’armistizio), Carteggio, Circolare n.26163 del Ministro Albricci ai Comandanti di Corpo d’Armata territoriali, 11 ottobre 1919, oggetto: “Spirito dell’Esercito”.

complemento, dalla riserva o dalla leva. In Italia si registrò una delle maggiori percentuali di mobilitati rispetto alla popolazione civile181.

Nel primo dopoguerra, la riorganizzazione delle forze armate rappresentò una delle questioni maggiormente complesse da dipanare: le spese militari, infatti, risultavano così ingenti che soltanto procedendo ad una loro netta riduzione si sarebbero potute risanare le finanze pubbliche; il conflitto, altresì, aveva portato a dimensioni inusitate la consistenza dell’esercito rendendo oltremodo necessaria non solo la rapida smobilitazione ma anche il riordinamento dell’intera compagine militare. Tali operazioni presentavano notevoli difficoltà logistiche e d’ordine morale: il Comando Supremo s’impegnò nella ricerca di soluzioni equilibrate che salvaguardassero la compagine dell’esercito mobilitato sottoposto ad una drastica riduzione della forza effettiva. I progressivi congedamenti resero necessaria la soppressione di Grandi Unità; furono effettuati numerosi spostamenti che, in seguito allo scioglimento della IV, della III e della I armata, riguardarono principalmente la struttura dell’VIII armata. Tra le alte gerarchie, fin dall’inizio del 1919, era opinione comune che, con l’acquisizione di nuove province, il numero dei Corpi d’armata previsti dall’organico di pace dovesse passare dai dodici d’anteguerra a quindici.

“L’esercito italiano – scrisse Angelo Gatti, uno dei principali esperti militari del primo dopoguerra – era buono nella sostanza, difettoso nella forma, bisognoso di saggi e solleciti provvedimenti”182: i progetti presentati, i dibattiti e gli studi effettuati in merito, conseguirono tuttavia risultati anodini, determinando l’impossibilità di

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Filippo Cappellano, Cenni sull’evoluzione del reclutamento obbligatorio nell’esercito italiano, in Nicola Labanca (a cura di), Fare il soldato. Storia del reclutamento militare in Italia, Milano, Unicopoli, 2008, p.37.

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procedere ad una sensibile riduzione del bilancio militare e di introdurre sostanziali modifiche nell’apparato militare e nella professione di ufficiale.

Il conflitto, con tutte le sofferenze che ne scaturirono, fu interpretato come un esame doloroso che aveva riscattata gli italiani dai radicati egoismi individuali educandoli al rispetto dell’autorità dello stato. L’esercito doveva rappresentare, in tale prospettiva, una scuola di virtù e di sensibilità civica che imprimesse indissolubilmente il principio e il convincimento profondo della necessità di un tributo personale. Ne conseguiva, pertanto, che la formazione militare dovesse essere principalmente morale e volta ad educare, come scrisse il tenente di fanteria Luigi Russo, “il soldato nel cittadino ed il cittadino nel soldato” poiché in un esercito vi erano “cattivi soldati quando vi erano cattivi cittadini”183.

L’insegnamento, dunque, che si doveva trarre dalla prima guerra che aveva coinvolto l’intera nazione fu che l’educazione militare non dovesse essere esclusivamente professionale, limitandosi ad istruire ufficiali e soldati sotto il mero profilo tecnico, bensì che dovesse configurarsi come un’accurata ed approfondita preparazione morale: “un soldato”, infatti, poteva essere “un ottimo soldato” solo se “coltivato nella versatilità del suo spirito di uomo”184.

L’inopinato ingresso dell’Italia nella conflagrazione europea aveva colto l’esercito gravemente impreparato: Cadorna, il capo di Stato Maggiore, non era riuscito a dotarlo di un congruo numero di ufficiali che, nel 1915, ammontavano a meno di sedicimila uomini. Nelle battaglie e lungo i fronti, pertanto, e segnatamente

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Luigi Russo, Vita e disciplina militare, Bari, Laterza, 1946, pp.29-30. (Libro scritto nel 1917 quando era un tenente di fanteria).

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sull’Isonzo, le cospicue perdite, tra caduti e feriti, determinarono la costante e sempre più massiccia richiesta di ufficiali di complemento. L’enorme ingrossamento dell’esercito che ne conseguì, determinò un sensibile aumento del corpo ufficiali in servizio permanente che, alla fine del conflitto, esorbitava ampiamente le esigenze del tempo di pace.

La politica adottata dal Comando Supremo, con l’assenso del Ministero della Guerra, basata sul principio enunciato da Cadorna della corrispondenza tra il grado dell’ufficiale e il livello di comando realmente esercitato, determinò nel corpo ufficiali in servizio permanente un rapido avanzamento di carriera. Tale sistema è stato aspramente criticato da Rochat poiché, a suo parere, risulta oltremodo difficile valutare fino a che punto tali promozioni si fossero rivelate realmente necessarie.

L’osservazione di Rochat, a parere di Bovio, non teneva nella debita considerazione la mentalità e la cultura italiana. Nell’ordinamento giuridico e nella tradizione dell’esercito italiano non erano mai esistiti gradi temporanei o provvisori ed anche l’espediente di attribuire ad un ufficiale un incarico superiore a quello del grado effettivamente rivestito fu sempre adottato ma unicamente nei casi in cui la differenza tra grado ed incarico non superasse un livello gerarchico. La politica adottata da Cadorna fu la sola che si potesse attuare ed è anche comprensibile che, durante la guerra, il Comando Supremo non si preoccupasse di futuri intasamenti nell’organico. Per tamponare il problema dell’abnorme crescita del corpo ufficiali, nel 1919 fu introdotta una sorta di ammortizzatore sociale, ovvero la posizione ausiliaria speciale, cui si poteva accedere previa domanda o d’autorità. La

collocazione forzata in posizione ausiliaria speciale non fu, peraltro, l’unica sventura del corpo ufficiali: terminato il conflitto, infatti, la stampa, si diffuse l’errata convinzione, o meglio, il mito, rapido a propagarsi tra la popolazione, secondo cui i reali artefici della vittoria furono gli ufficiali di complemento, ispirati dagli ideali mazziniani o garibaldini, mentre gli ufficiali effettivi, pavidi e arrivisti burocrati si imboscarono nei comandi macchinando per ottenere promozioni e riconoscimenti. Tale speciosa ricostruzione ricevette il crisma dell’attendibilità accademica grazie a due studiosi che avevano combattuto la Grande Guerra come ufficiali di complemento, Adolfo Omodeo e Piero Pieri, che, secondo Bovio, in questa circostanza avrebbero smentito la loro reputazione di storici equilibrati. Pieri, nella recensione al volume di Omodeo Momenti di guerra, non si peritò di asserire che la vittoria era stata ottenuta ad opera di migliaia di ufficiali di complemento, “eletta espressione della media e piccola borghesia”, che ebbero il coraggio di credere “nella religione del dovere” e che guidarono il popolo italiano “nell’aspra lotta” condividendone gli ideali, le speranze, i sacrifici. Di contro, Ardengo Soffici, anch’egli ufficiale di complemento, ne stigmatizzò l’operato sottolineandone l’appartenenza borghese che, a suo parere, si evidenziava nella carente cultura, nell’egoismo, nello scarso grado di coscienza civile e nazionale. Se tale giudizio appartiene ad uno spirito troppo elitario, anche il liberale Giovanni Amendola affermò che le funzioni di comando a livello superiore rimasero salde nelle mani degli ufficiali effettivi, gli unici dotati della competenza tecnica che tali incarichi richiedevano. Sia gli ufficiali effettivi che quelli di complemento combatterono

valorosamente: caddero sul campo il 7,7% degli effettivi e l’8,2% di quelli di complemento185.

Il generale Giardino intervenne a più riprese nel dibattito relativo al riordinamento delle forze armate poiché giudicava necessario “per giustizia e per la disciplina sociale” provvedere con equità a tutti coloro che avevano combattuto. La liquidazione dello stato di guerra e, dunque, i provvedimenti per la smobilitazione, apparentemente tecnici, costituivano invero un problema politico che il generale giudicava di fondamentale rilevanza la cui parte più delicata e spinosa riguardava i soldati, “che è quanto dire l’intera Nazione”, ma quella più complessa e di difficile risoluzione concerneva i quadri, in particolare gli alti ufficiali, da colonnello a generale di corpo d’armata, che sovrabbondavano considerevolmente. Pertanto, Giardino era persuaso che, in materia di revisione di gradi, urgesse un provvedimento siffatto “d’altissima e sicura giustizia”: “ognuno che, per espresso incarico, abbia tenuto e lodevolmente esercitato in guerra un comando effettivo di truppe, con responsabilità personale, deve avere, se non lo ha già avuto, il grado corrispondente; ma, per contro, nessuno può conservare un grado, che gli sia stato conferito all’infuori del diritto di anzianità, se il conferimento non è avvenuto per meriti conseguiti al comando effettivo di truppe, con responsabilità personale, e se del nuovo grado non ha effettivamente esercitato in guerra le funzioni al comando di truppe e con responsabilità personale di tale comando”. Il governo prendeva in considerazione esclusivamente il disagio materiale e non morale ma la riduzione delle

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Oreste Bovio, Storia dell’Esercito italiano (1861-1990), Roma, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio storico, 1996, pp.239-263.

forze militari, che l’esercito realmente auspicava, doveva essere perseguita seriamente e non sulla base di arbitri186.

Nel marzo 1919 l’onorevole Soleri sottopose all’attenzione del ministro della Guerra il problema dei facili avanzamenti invalsi durante il conflitto: “L’on. Caviglia”, affermò, “potrebbe forse fare i nomi di quei capitani addetti al Comando Supremo che non hanno mai combattuto un giorno, che non hanno mai comandato un’unità, che non hanno visto se non col binocolo le fiamme di una battaglia e che oggi sono generali!”187.

Una vera riforma militare, secondo le idee espresse da Gatto Roissard, il massimo esperto di cose militari in area socialista, avrebbe dovuto ispirarsi agli insegnamenti della guerra e non alle velleità carrieriste di troppi giovani e vecchi ufficiali. Ad ogni vacanza determinata da perdite subite nei quadri effettivi e ad ogni necessario aumento dei medesimi per il moltiplicarsi dei reparti e delle unità di piccole e grandi dimensioni, il Comando Supremo aveva provveduto col sistema delle promozioni, sanzionate dal Ministero della Guerra. Si era pensato solo tardivamente all’ovvio ed elementare principio di affidare le mansioni del grado superiore ai più idonei del grado inferiore senza tuttavia determinarne l’avanzamento. Pertanto, numerosi ufficiali sottotenenti nel maggio 1915 erano stati promossi maggiori nel 1917; analogamente, una pletora di capitani erano divenuti generali. Terminato il conflitto, dunque, tutti i gradi da capitano a generale risultarono ampiamente rappresentati da elementi giovanissimi: un ministro della Guerra “libero

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Gaetano Giardino, Piccole faci nella bufera, Mondadori, Milano, 1924, pp.64-69, 109.

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Gaetano Salvemini, Le origini del fascismo in Italia, Lezioni di Harvard, a cura di Roberto Vivarelli, Milano, Feltrinelli, 1966, p.198.

di pensare e di agire” e che avesse voluto realmente rimediare all’insostenibile situazione perseguendo in tal modo il bene dell’esercito e del paese, avrebbe dovuto ridurre sensibilmente il numero degli ufficiali di ogni grado al minimo necessario ai bisogni della difesa e avrebbe dovuto studiare un ordinamento che prevedesse l’applicazione del principio violato da Cadorna dell’incarico del grado superiore affidato agli inferiori più capaci e preparati188.

La smobilitazione procedette a rilento, non solo a causa dell’oggettiva complessità dell’operazione, ma anche perché i ministri della Guerra ritenevano che il congedo delle classi alle armi dovesse procedere in modo ordinato e graduale al fine di impedire il ristagno di masse di reduci in attesa di lavoro esposte a facili sbandamenti e per la necessità di personale a presidio del territorio conquistato e a sorveglianza dei depositi di materiali bellici. Secondo l’acuta analisi di Leonardo Gatto Roissard la smobilitazione e soprattutto l’abolizione dell’esercito permanente fu ritenuta rischiosa poiché si temeva di agire sotto l’impulso dell’antimilitarismo diffusosi nell’opinione pubblica estenuata dalla guerra e avversata dalle alte sfere militari nel timore che potesse apparire un’implicita sconfessione dell’operato dello Stato Maggiore nel conflitto189.

I concetti basilari della nuova politica militare che circolavano negli ambienti parlamentari più interessati e sensibili a tali tematiche trovarono un esaustivo compendio nel documento presentato nel maggio 1919 da Luigi Gasparotto, un deputato vicino a Bonomi che divenne suo ministro della Guerra nel governo formato

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Leonardo gatto Roissard (Anando), Il problema militare socialista, Milano, Società editrice Avanti, ,1920, pp.78-80.

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nel 1921. Questi tentò di tracciare le principali linee di sviluppo dell’apparato militare evidenziando le profonde differenze che caratterizzavano gli ordinamenti d’anteguerra e l’esercito di Vittorio Veneto, il primo concreto esempio di nazione armata, non tanto per l’enorme estensione o le modalità del reclutamento, bensì per l’atmosfera che lo circondava. Gasparotto riteneva che, proprio sulla scia di questa benevola e favorevole atmosfera, si dovesse assicurare alla nuova organizzazione militare il consenso e la simpatia popolare, eliminando “tutto ciò che è maggiormente inviso al Paese, urtante coi bisogni e cogli interessi della povera gente”, come le lunghe ferme e i privilegi riservati ad alcune categorie190.

Per Gatti il ministero Giolitti, con Bonomi alla Guerra, fu il principale responsabile dei mali del riordinamento dell’esercito. L’esponente riformista studiò e propose le leggi ascoltando principalmente i suggerimenti di Badoglio. Benché, a suo avviso, la nazione armata costituisse l’ordinamento di difesa nazionale migliore, in quanto espressione massima della virtù collettiva di una nazione, egli giudicava prematura e dunque non percorribile tale ipotesi di riorganizzazione della compagine militare poiché giudicava gli italiani individualisti e pressoché totalmente privi delle virtù collettive. Al contrario, Gasparotto, malgrado gli scarsi risultati conseguiti, fu il ministro, per Gatti, che s’impegnò maggiormente per risolvere il problema dell’esercito benché non esente da critiche in particolare di parte socialista.

Gatti, nel settembre 1921, scrisse un interessante articolo in cui esaminò esaustivamente la situazione delle forze armate. L’esercito correva il rischio di

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Vincenzo Gallinari, L’esercito italiano nel primo dopoguerra, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, 1980, pp.216-217.

dissolversi, sebbene lo spirito degli ufficiali e dei soldati fosse ancora “ottimo, vale a dire italiano”. A suo avviso, i giovani che si arruolavano, nel complesso, abbandonavano le passioni di parte ed obbedivano al regolamento di disciplina. Assai carenti risultavano però gli organi direttivi, segnatamente il ministero della Guerra che, con grave nocumento dell’esercito, esercitava un ruolo eminentemente politico, non tecnico. Il lavoro del Consiglio dell’esercito procedeva a rilento e appariva “titubante e sfiduciato”. Il capo di Stato maggiore non disponeva di una sufficiente autorità e, malgrado la sua azione fosse preponderante, si svolgeva all’ombra del ministero. Gli alti ufficiali erano in soprannumero mentre le truppe erano fiaccate e demoralizzate dal continuo impiego in servizio d’ordine pubblico. Gatti chiosò affermando che “il pletorico e disarmonico esercito”, “di goffa e larga intelaiatura”, era “di malcerta validità”191.

In uno studio militare effettuato nell’ottobre 1921 dal maggiore di artiglieria Fernando Gelich, si osservava come le maggiori potenze intervenute nel grande conflitto mondiale avessero posto a fondamento della dottrina militare il postulato “sorpresa e potenza del numero”, mobilitando le intere nazioni. Pertanto, nel riassetto militare dello stato, il precipuo concetto ispiratore era stato quello di una preparazione bellica quanto più estesa possibile, “sottostando, però, alle indeclinabili necessità economico-sociali di contenere nel minimo le spese e di distogliere quanto meno si può i cittadini dalle ordinarie occupazioni della vita civile”. La risoluzione di questo problema era affidata semplicisticamente alla formula della “nazione armata”,

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tuttavia, la ferma doveva essere considerata alla luce di tre distinti aspetti, militare- organico, etico-sociale, politico-economico. La guerra aveva dimostrato la carente preparazione morale del paese e dell’esercito. Le classi che avevano saputo maggiormente sostenere i disagi ed il logoramento “della lotta sulla petraia infuocata del Carso, dando prova dei più eccellenti eroismi”, furono in particolare quella del 1885 e del 1892 con tre anni di servizio al loro attivo. Dopo Caporetto, sul Piave, il sentimento della riscossa emerso prepotentemente nel paese rimediò alle deficienze allora presenti e, dal punto di vista dell’addestramento tattico, sopperì ad esse la forma speciale assunta dalla guerra. I militari delle nuove classi non vennero generalmente impiegati in unità separate, bensì in reparti di anziani che già avevano sostenuto la prova del fuoco192.

La prova di saldezza data dall’esercito e dal paese, l’estensione degli obblighi di leva e l’ampio ricorso agli ufficiali di complemento sottoposti ad una brevissima istruzione militare, accreditarono il modello della cosiddetta “nazione armata” in sostituzione dell’esercito di caserma, con la sua mentalità burocratica, la disciplina eccessivamente rigida, l’obsolescenza di una struttura che sembrava inadatta a cogliere il carattere totale assunto dalla guerra e il significato precipuo che ebbe per l’Italia, ovvero la prima prova di vita unitaria, soprattutto per i contadini del Mezzogiorno.

Il coinvolgimento dell’intera popolazione attiva nello sforzo di mobilitazione militare ed economica avvalorò dunque un modello di esercito che, in pace, dovesse

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A.U.S.S.M.E., L13, Fondo Pecori Giraldi, b.131, f.9, “La questione della ferma in relazione agli studi in corso sull’ordinamento dell’Esercito”, studio completato dal maggiore di Artiglieria Fernando Gelich, 5 ottobre 1921.

configurarsi come una scuola militare, e, in guerra, come una ben congegnata struttura atta ad inquadrare tutte le forze nazionali. Si stabilì, dunque, un uguale obbligo di servizio per tutti i cittadini validi, ed una ferma di otto mesi che, introdotta col regio decreto n.452 del 20 aprile 1920, falcidiò gli effettivi con un sufficiente grado di istruzione, producendo notevoli discrasie ed inficiando notevolmente l’efficienza e l’operatività dei reggimenti. Il sistema cosiddetto della “nazione armata”, altresì, presupponeva un esercito sollevato dai compiti non istituzionali, in particolare dal servizio d’ordine pubblico; un’aliquota significativa di militari a lunga ferma da impiegare come istruttori; l’istruzione premilitare per le reclute193. Tale orientamento, dunque, si rivelò transitorio: la tradizionale propensione italiana verso un esercito di caserma a larga intelaiatura avrebbe prevalso.

La nazione armata, secondo il generale Giardino, non si sarebbe realizzata nella fusione dell’esercito nella nazione, bensì nella fusione della nazione nell’esercito, il cui presupposto fondamentale doveva essere una salda disciplina nazionale universalmente accettata. Egli, pertanto, come buona parte della gerarchia militare, giudicava inammissibile che si prospettasse da più parti un esercito siffatto senza contrastare efficacemente il disordine sociale e la ribellione all’autorità dello stato194. Occorreva dunque rifarsi all’esperienza della guerra, cum grano salis e confidare nell’imprescindibile carattere formativo della premilitare, ancora

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Filippo Cappellano, Cenni sull’evoluzione del reclutamento obbligatorio nell’esercito italiano, in Nicola Labanca (a cura di), Fare il soldato. Storia del reclutamento militare in Italia, Milano, Unicopoli, 2008, pp.37-38. La prima significativa riforma strutturale per quanto attiene al reclutamento dell’esercito fu introdotta nel 1871, con la riduzione della ferma a quattro anni, sei per la cavalleria, e la costituzione dei distretti militari, incaricati di organizzare e amministrare la mobilitazione. Nel 1875 si registrò un’ulteriore alleggerimento della ferma che passò a tre anni e a cinque per la cavalleria. Con la legge Ricotti del 1875 fu sancito per la prima volta il principio dell’obbligo generale personale al servizio militare. Il Ministero della Guerra cominciò a valutare progetti per la riduzione della ferma a due anni sin dai primi anni del XX secolo.

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sconosciuta e lontana dallo spirito dei contadini che, per l’avvenire come per il passato, avrebbero costituito coi rispettivi graduati la massa principale dell’esercito. L’impresa sarebbe stata onerosa ed irta d’ostacoli soprattutto nell’Italia meridionale ed insulare, ove allignava un diffuso analfabetismo, ma donde erano sorti i soldati più fieri, ma il carattere della nazione si sarebbe modificato “per lenta evoluzione”195.

L’esercito, infatti, era costituito per lo più da contadini, operai non qualificati ed artigiani che non condividevano le motivazioni politiche ed ideologiche propugnate dalla classe dirigente al fine di sostenere lo sforzo bellico, bensì provavano un forte risentimento verso il governo che aveva voluto la guerra. I reduci

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