Ciò che ti confonde è che le mie argomentazioni e il mio metodo sono diversi da quelli cui tu sei abituato; in altre parole, il guaio è che io sono indipendente. Con questo intendo dire, da un lato, che non appartengo ad alcuna organizzazione e parlo sempre solo per me stessa; dall’altro che credo profondamente nel Selbstdenken di Lessing, che né l’ideologia né l’opinione pubblica, né le “convinzioni” potranno mai sostituire. Qualunque cosa tu possa obiettare a queste conclusioni, non le capirai se non ti renderai conto che sono davvero mie e di nessun altro.
Hannah Arendt, Lettera a Scholen, 24 Luglio 1963
La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento.
René Char
La diffidenza di Hannah Arendt nei confronti dei filosofi di professione, non riguardava la filosofia, ma un suo aspetto decisivo, la worldlessness, ovvero
l’incapacità di comprendere il mondo. Ai suoi occhi la filosofia, con il suo sistema di pensiero autoreferenziale, saldamente orientato su stesso, si era completamente alienata dal mondo, fingendo di comprenderlo trincerandosi dietro schemi teorici prestabiliti. Il senso di questa critica si comprende solo se si ritorna per un momento al pensiero di Martin Heidegger, che di Arendt era stato il maestro. Il capolavoro di Heidegger, Essere e tempo, è anche un’analisi della condizione umana espressa dal
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concetto di Dasein, o «esser-ci»261, laddove il ci non sta ad indicare una semplice collocazione spaziale, ma il modo in cui concretamente l’Essere si dà nella storia, nell’esistenza dell’uomo. Per Heidegger il Dasein è l’ente privilegiato, poiché è l’unico che si mette in questione, ponendosi il problema dell’essere: è l’uomo, in quanto è gettato nel mondo, sottoposto alle relative limitazioni, ma anche in grado di trascenderlo con un atto di libertà, facendone il progetto di atteggiamenti e azioni possibili262. A partire da questi elementi, Heidegger sviluppa delle analisi circa l’inautenticità in cui il Dasein umano si pone istitutivamente. Trattenuto nella rete delle relazioni umane quotidiane, il Dasein si aliena e si estranea da se stesso. L’unica via che può percorrere per riconquistare la sua essenza è quella di
radicalizzare la finitudine che lo determina, anticipando la morte. Questo non vuol dire finire col suicidio, ma piuttosto realizzare nella coscienza la propria mortalità, assumere la finitudine della vita come limite e condizione di un’esistenza finita263. Questa presa d’atto, chiaramente, comporta un allontanamento rispetto al mondo banale della vita quotidiana; ritirarsi in se stesso è una delle condizioni
dell’autenticità.
Con Essere e tempo, elaborato nei primi anni ’20 e pubblicato nel 1927, la questione della storicità veniva riportata concretamente alla condizione umana. Dai seminari
261 Traduzione proposta da Pietro Chiodi, primo traduttore di Essere e tempo in italiano, e rimasta poi stabilmente nel lessico heideggeriano.
262 Si veda l’introduzione a Tra passato e futuro di Alessandro Dal Lago, pp. 7-8.
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heideggeriani sarebbero usciti pensatori come G. Anders, K. Löwit, H. Jonas e, appunto, Hannah Arendt. Questi pensatori riconosceranno sì al maestro il ruolo di innovatore, ma molti di quegli allievi, alcuni dei quali ebrei, sensibili dunque alle analisi heideggeriane della storicità e dell’autenticità, mostrarono qualche
insofferenza verso lo stile del pensiero del maestro. Nel regno filosofico di Heidegger e nel suo linguaggio, per dirla con Anders, non si ritrovano gli echi del mondo storico contemporaneo, cosa alquanto singolare per un filosofo della storicità. Il mondo evocato da Heidegger è quello di un professore universitario di provincia, diffidente verso la città e ignaro di ciò che accade oltre il suo orizzonte di azione quotidiana. Al di fuori del suo ambiente vissuto quotidianamente, il mondo è inautentico. Allora, agli occhi degli allievi ebrei, per i quali nomadismo e sradicamento non erano semplici termini filosofici, il disprezzo heideggeriano per il mondo esistente al di là dell’orizzonte conosciuto aveva importanti implicazioni filosofiche264. L’essere del
mondo gioca il ruolo di un carattere fondamentale nella costituzione del Dasein, ma il mondo, rispetto a alla centralità di questo concetto, gioca un ruolo periferico. È
questo, dunque, il motivo per cui il lavoro dei suoi allievi si è sviluppato in maniera contraria rispetto alla linea di pensiero tracciata dal maestro. Nel panorama di questi superamenti, il pensiero di Arendt va oltre dal momento che nella sua produzione il giudizio di alienazione dal mondo è stato esteso all’impresa filosofica in quanto tale. Fulcro e motivo fondante della produzione arendtiana è la critica a quella filosofia
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che ha sempre visto nel mondo il luogo di perdizione del soggetto e del sapere. Da qui la sua diffidenza verso i filosofi di professione. Arendt ha cercato di immaginare uno scenario filosofico diverso, un regno in cui il mondo, sia quello umano che quello naturale, è rinnovato nei suoi diritti. La proposta della pensatrice tedesca si può riassumere in quella che Aristotele chiama των ανθρωπων πραγματα, la sfera degli affari umani, lo spazio dell’agire pubblico. Il concetto di politica che Arendt supporta è quello rispetto al quale il mondo e i singoli necessitano della presenza degli altri per essere se stessi. L’essere nel mondo in quanto soggetti comunicanti e portatori di diversità realizza quell’idea di politica che l’autrice ritiene sia l’unica risposta ad uno spazio pubblico in cui gli individui che lo compongono vivono ed operano. Il dare così tanta importanza allo spazio pubblico, non fa di Arendt una oppositrice della dimensione privata né di quella soggettiva dell’esistenza. Al contrario, il suo intento è quello di mettere in luce come gran parte del pensiero filosofico faccia del mondo umano una estensione della soggettività, con la
conseguenza di snaturare la pluralità. Il mondo esiste perché coloro che lo abitano lo condividono da diverse prospettive, non si tratta solo di un Uomo o di un Soggetto singolo. Tuttavia, gli individui sopportano quello che accade sulla scena dello spazio pubblico solo grazie al fatto che possono disporre della scena dello spazio privato. Rispetto alla tradizione, nessuno ha mai concepito la vita activa come la realizzazione di una pluralità virtuale265. Né la tradizione realistica (quella che ha avuto in
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Machiavelli, Hobbes, Montesquieu e Tocqueville i suoi vertici) né quella sulla natura della politica (Rousseau, Hegel e Marx) è mai riuscita a fondare l’idea di politica se non dall’alto.
In Arendt la modernità, lungi dallo sfociare nel disordine e nell’entropia che tanto ossessiona i decisionisti, realizza un trionfo della politica come macchina che si basa sull’esclusione della pluralità. In Vita activa, delle tre attività fondamentali
dell’uomo, lavoro, creazione e azione, solo la prima e in parte la seconda hanno dignità nella società moderna. L’agire plurale, caratterizzato dall’ imprevedibilità, è un lusso che la società moderna non può permettersi, dato il suo essere fondata sulla produzione sull’autonomia di apparati tecnici. Il compito dominante di un sistema politico così concepito, allora, è la decisione, nell’ambito della quale la democrazia rappresentativa svolge la funzione di promuovere il consenso. Un sistema di
decisione in cui ci sono degli obiettivi prefissati non può permettersi un agire non utilitaristico. Nelle situazioni in cui si sarebbe potuto mettere in atto l’agire plurale (le assemblee rivoluzionarie, i soviet prima della bolscevizzazione, i consigli), si sono rivelate soltanto un passaggio da un’organizzazione statale ad un’altra. La presunta uscita dalla minorità266 che si pensava si potesse realizzare nella costituzione di tali organizzazioni, si è rivelata una forma diversa di dominio, addolcita dalla credenza dell’aver raggiunto la libertà per cui si era lottato. Pertanto, la partecipazione all’agire
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che motiva queste forme storiche, resta una virtualità inesplorata. È questo il motivo per cui in Arendt si può parlare dell’agire come di una lacuna dell’esistenza.
Il percorso attraverso cui il pensiero di Hannah Arendt si sviluppa mantiene una costante che è, appunto, l’esperienza dell’impossibilità contemporanea dell’agire. La maniera in cui il mondo occidentale si è sviluppato, la trasformazione della prassi in comportamento istituzionale, quindi l’interruzione del flusso dell’agire alla sua fonte, fa degli uomini degli esseri incompiuti, dal momento che le possibilità di agire nel mondo sono ostacolate.
Arendt riconduce i vari tipi di crisi, quella dell’autorità, quella della libertà del pensiero, alla lacuna dell’agire. Questa assume l’aspetto di una interruzione della tradizione267. Hannah Arendt fa un uso innovativo della tradizione. quello su cui
insiste, è la trasmissione discorsiva; agire significa non solo produrre mutamenti di stato in un certo tipo di sistema, ma anche elaborare con gli altri delle risoluzioni sugli affari comuni, ed è in questo modo che si evoca una realtà linguistica e
discorsiva. Il riferimento ai greci, altra costante del percorso del pensiero arendtiano, è inevitabile. Nella polis le rappresentazioni teatrali erano al tempo stesso un dovere civico e un privilegio. La trasmissione discorsiva orale è quella che, prima ancora della trasmissione scritta, conserva la memoria culturale. La pensatrice tedesca pone dunque l’agire alla base sia dell’esistenza individuale sia di quella collettiva nel
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tempo e nella storia. Una vita sociale che non partecipi alla politeia è priva di memoria.
Per Arendt il tesoro della libertà dell’agire è impossibile da trasmettere in un mondo che non conferisce un senso all’agire in pubblico. L’agire a cui l’autrice pensa non riguarda la mitizzazione della polis, ovvero un’esperienza antica irripetibile e alterata. Nei suoi ragionamenti rimanda ad un intreccio di possibilità quali il discorso, l’essere presenti nella molteplicità, la partecipazione alla memoria, che gli esseri umani
praticano abitualmente. La lettura di un’esperienza comune, la trasformazione di essa in discorso, è il messaggio che Arendt vuole trasmettere e che, nonostante tutto, affida alla filosofia268.
Quando Hannah Arendt affermava di non voler indottrinare, si cautelava dal mirare a risultati pratici o teorici e alludeva anche al punto che non era suo intenzione
oltrepassare: trasformare un pensiero concreto in una dottrina. Secondo alcuni
interpreti269, questo gesto radicale rende indispensabile una reinterpretazione del suo
pensiero, una rivisitazione che gli tolga l’alone di un’ispirazione eccentrica e che gli restituisca una profondità che certe interpretazioni delle sue opere più famose e il riferimento esclusivo ad esse hanno finito per ignorare. È possibile cogliere le variazioni, le idiosincrasie, la caparbietà di andare per la propria strada nel modo in cui il suo pensiero è maturato. Attraverso un cammino aspro e solitario, anche se mai
268 Cfr. A. Dal Lago, Ivi, p. 20.
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isolato, le sue riflessioni hanno portato una autentica originalità nel panorama della filosofia contemporanea.
La sua difesa della politica, il lavoro sulla civiltà moderna, hanno sullo sfondo l’idea di una nuova teoria della politica che, fedele alle premesse, non diventerà mai un programma filosofico. le scienze particolari quali la sociologia, la storia, la
psicologia, non hanno mai rappresentato per Hannah Arendt un’alternativa alla filosofia.
Nell’ambiente americano le rimprovereranno tratti tipicamente europei,
esistenzialistici, metafisici, senza comprendere che stava imboccando la via di essere libera scrittrice, polemista, storica, e quindi di non più filosofa, continuando ad essere una pensatrice270.
L’unicità del pensiero di Arendt nel panorama della filosofia contemporanea è data dalla sua instancabile critica dell’inettitudine degli intellettuali. Una critica condotta non su basi ideologiche, né in vista di un rovesciamento della filosofia, ma attraverso l’individuazione dell’inclinazione del pensiero all’astrazione, a vivere in un regno separato dalla realtà e a pretendere di poter argomentare su di essa senza preoccuparsi di conoscerne i tratti fondamentali.
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Il pensiero di Hannah Arendt non ci lascia in eredità né una teoria dell’agire, né una teoria del giudizio: anzi, indica nell’agire politicamente e nel pensare politicamente271
la forma di un dialogo costante con il nostro tempo, un dialogo in cui possano confluire e confrontarsi le piccole e grandi questioni umane.
La politica, nella sua forma autentica, è per Arendt un’impresa in cui possono brillare qualità umane. Anche se l’orizzonte è oscuro non si misura esclusivamente su
tecniche istituzionali o amministrative, è ostile al fatalismo, ma anche alla
presunzione che tutto sia possibile, crede nella forza dell’imprevedibilità. La sua attuazione, in definitiva, è debitrice del coraggio del mettere in atto uno spirito di iniziativa e del dotarsi di una qualità quasi poetica: l’immaginazione.
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Conclusioni
Che cosa ne è stato dello spirito da muckrakers associato al percorso intellettuale di Arendt nel prologo di questo elaborato? Sono state mantenute le aspettative o la
visione del mondo per come dovrebbe essere è andata a scontrarsi con il mondo quale effettivamente è?
L’azione metaforica di setacciare il fango fino a quando dalle viscere della terra possa venir fuori qualcosa da paragonare alla corona celeste offerta in cambio della rinuncia a cercare la verità in posti ostili, ha accompagnato il percorso di Hannah Arendt fino alla fine.
È accaduto che l’autrice incontrasse delle difficoltà nel portare avanti le spiegazioni a determinati problemi (si ricordi il richiamo alla nascita come atto naturale in un
contesto in cui la naturalità veniva rifiutata in quanto stadio primitivo e tratto comune con gli animali), ma ha sempre cercato una difesa alle sue argomentazioni, trovandosi pronta anche ad ammetterne l’incompatibilità di alcune con le premesse da cui la trattazione era partita. La letteratura critica su Hannah Arednt prodotta negli ultimi venti anni ha sottolineato le difficoltà che la pensatrice incontrò come migrante negli Stati Uniti in riferimento alla nuova lingua. Come scrive Knott272, l’aver perso la possibilità di usare la lingua nativa e il fatto che l’originario contesto culturale fosse venuto meno, significava aver perso naturalezza, spontaneità e semplicità. La
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condizione di un esiliato si riflette nella difficoltà di dover trasporre, tradurre e interpretare pensieri, azioni e reazioni. Non è raro riscontrare delle mancanze nei nessi causali, dei corto circuiti linguistici, nei testi la cui prima e unica stesura è stata in inglese. Le anomalie che un lettore di lingua inglese avrebbe potuto riscontrare nei suoi lavori erano anche il risultato della volontà di mantenere in essi lo spirito della lingua, della filosofia e della poesia tedesche. Nonostante il suo netto rifiuto di non far più parte della «cerchia dei filosofi», Hannah Arendt non abbandonò mai la sua formazione filosofica, sfruttandola come una lanterna in grado di far luce in contesti troppo bui per essere risolti e spiegati con altre discipline, con altri mezzi. Sosteneva che «è incomparabilmente più facile formulare una fattispecie filosofica in tedesco rispetto all’inglese», mentre l’inglese, come anche il francese, sono più adatti per pensare politicamente273. La possibilità di poter inserire le proprie origini, allora,
anche in un contesto politico e culturale differente, ha fatto la differenza, nel bene e nel male, nei testi arendtiani del secondo dopoguerra.
Nonostante le incoerenze riscontrate in alcune argomentazioni, non dimenticando mai la costante incognita della difficoltà di tradurre in una lingua diversa dalla propria pensieri e riflessioni, Hannah Arendt lascia in eredità una riflessione sulla politica e sull’agire senza precedenti nella tradizione. La necessità iniziale di fuggire dagli schemi imposti si concretizza con un ritorno alla polis, alle definizioni antiche di
273 Si veda W. Heuer, B. Heiter, S. Rosenmüller, Handbuch Hannah Arendt, Stuttgart, 2011 (traduzione presente in Knott, op. cit., p. 51).
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politica, potere e autorità. Dal punto di vista dell’autrice, questo ritorno all’origine dei concetti è l’unico modo per spiegare i malintesi di significato che hanno
accompagnato certe definizioni, soprattutto a partire dall’età moderna.
La visione di un mondo fatto di connessioni e di relazioni tra gli esseri umani, un luogo in cui l’agire politico possa essere l’altare su cui consacrare le qualità migliori degli individui, si scontra inevitabilmente con una realtà in cui non è sempre possibile sfruttare la libertà dell’azione. In un mondo che non conferisce un senso all’agire pubblico, in un contesto dove la massificazione del pensiero domina sulla singolarità di ciascuno, il tesoro della libertà dell’agire è impossibile da trasmettere.
Tuttavia, come già sottolineato alla fine del capitolo quarto, anche se l’orizzonte sembra oscuro, il futuro della politica non si misura solo su tecniche amministrative o istituzionali, al contrario, è ostile al fatalismo e crede nella forza dell’imprevedibilità. La forza del caso, l’importanza da attribuire alla realtà sono tra le caratteristiche fondamentali del pensiero di Arendt. Nelle intenzioni dell’autrice non c’è la volontà di lasciare in eredità un sistema filosofico che sia una teoria dell’agire o una teoria del giudizio. La critica costante all’inettitudine degli intellettuali per la loro incapacità di andare oltre il pensiero astratto pretendendo di poter sentenziare sulla realtà senza conoscerne i tratti fondamentali, conducono la pensatrice tedesca a ritenere la politica debitrice del coraggio di mettere in atto uno spirito di iniziativa, un’azione non
premeditata che, avendo ogni volta la possibilità di ricominciare da capo, possa mutare lo stato delle cose. Le possibilità offerte dalla nascita, al di là delle critiche
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che a questo concetto si possono attribuire, sanciscono la possibilità di far tesoro di quella libertà dell’agire che renderebbe tali gli esseri umani: nonostante l’orizzonte appaia oscuro, l’occasione di mutare il corso del torrente riapprendendo il mondo è sempre presente.
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