Sulla violenza è il testo in cui i concetti di potere e violenza trovano una
sistematizzazione. Qui Arendt rivolge una critica radicale alle affermazioni imperanti sul rapporto fra guerra e politica, fra violenza e potere. Il saggio, scritto con l’intento di analizzare ciò che accadde nel ’67-’68 negli Stati Uniti, la risposta del governo federale al movimento studentesco e a quello dei diritti civili, cerca nell’attuazione delle costituzioni politiche la radice del disordine e di quella eterogenesi dei fini intorno a cui si è giocata la partita delle relazioni tra Stati. Arendt critica aspramente, fin dalle prime pagine, la teoria politica novecentesca, la quale ha elevato a sistema l’attualizzarsi delle dottrine nei luoghi istituzionali del potere, il suo cristallizzarsi e irrigidirsi in schemi che hanno finito per ritorcere contro se stessi il motivo per cui erano nati. Le novità di questo secolo circa la potenza bellica delle Nazioni e la loro importanza nelle relazioni tra esse, sono riuscite «a mettere insieme un completo capovolgimento fra potere e violenza. […] La quantità di violenza a disposizione di qualunque paese può ben presto non essere più un’indicazione attendibile contro la possibilità di distruzione da una parte di una potenza notevolmente più debole e più piccola. E questo comporta una sinistra somiglianza con una delle più antiche
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intuizioni della scienza politica, vale a dire che la potenza non può essere misurata in termini di ricchezza, che un’abbondanza di ricchezza può intaccare la potenza, che le ricchezze sono particolarmente pericolose per la potenza e il benessere delle Repubbliche»205. Memore dell’affermazione in Vita activa su quanto nell’antichità potesse essere giudicato negativamente un uomo intento ad accumulare ricchezze anziché preferire compiere l’ingresso nella polis, questa asserzione è la prova della coerenza di Arendt rispetto al suo pensiero e alle sue fonti.
Nel saggio Sulla violenza l’autrice tedesca ha come bersaglio quella «certa scienza politica» che è stata incapace di distinguere tra parole chiave come potere, forza, autorità e violenza. tra i rappresentanti di questa scienza politica così cieca rispetto a certe differenze meramente linguistiche, annovera C. Wright Mills e Bertrand de Jouvenel. Scrive Arendt: «Se diamo uno sguardo alle discussioni sul fenomeno del potere, troviamo ben presto che sussiste un generale consenso fra i teorici della politica da sinistra a destra sulla constatazione che la violenza non è altro che la più flagrante manifestazione del potere. “Tutta la politica è una lotta per il potere; il genere ultimo di potere è violenza”, disse C. Wright Mills. […] Rivolgiamoci ora a Bertrand de Jouvenel. “A chi”, egli scrive, “osserva l’avvicendarsi delle epoche, la guerra si presenta come un’attività degli Stati che fa parte della loro essenza”. Quest’affermazione ci spinge a chiedere se la fine della guerra significherà la fine degli Stati. L’eliminazione della violenza nei rapporti fra gli Stati starà ad indicare la
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fine del potere?» 206. Alle radici delle affermazioni di questi autori c’è l’atteggiamento teorico e consolidato che affonda le proprie radici nel pensiero di Max Weber, il vero bersaglio che le distinzioni proposte da Arendt di potere, violenza e autorità vogliono colpire. L’affermazione di Wright Mills, infatti, riecheggia «la definizione dello Stato di Max Weber come il “dominio degli uomini sugli uomini basato sui mezzi di una violenza legittima, o quanto meno ritenuta legittima”» 207. Definire la violenza come
una manifestazione del potere porta a pensare che l’eliminazione della violenza nei rapporti tra gli Stati significherebbe la fine del potere. Ma che cosa si intende per potere? Arendt riporta una citazione tratta da Power: the Natural History of Its
Growth, secondo la quale il potere è uno strumento di comando, mentre il comando
deve la sua esistenza all’«istinto di dominio»208. Da Voltaire a Weber, passando per
Sartre, non si trova nessuna differenza sul concepire la violenza, tutti quanti pensano che essa sia necessaria per l’attuazione di un potere politico. «”Il potere”, diceva Voltaire, “consiste nel fare agire gli altri a mio grado”; è presente ogniqualvolta ho la possibilità di “affermare la mia volontà contro la resistenza” degli altri, diceva Max Weber, ricordandoci la definizione della guerra data da Clausewitz come “un atto di violenza per costringere l’antagonista a fare come vogliamo noi”. […] Per tornare a de Jouvenel: “Comandare ed essere ubbiditi: senza di questo non c’è potere, con
206 H. Arendt, Sulla violenza, pp. 37-38.
207 H. Arendt, Ivi, p. 38.
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questo non è necessario nessun altro attributo perché esso ci sia. La cosa senza la quale non può essere: quella è l’essenza del comando”»209.
L’unica nota stonata in questo coro di consensi sul tema, è la voce di Alessandro Passerin d’Entrèves, «l’unico autore che io conosca che si renda conto dell’importanza di distinguere fra violenza e potere»210. Filosofo e storico del diritto
italiano, considerato il fondatore della filosofia politica italiana come disciplina a sé stante, Passerin d’Entrèves viene citato da Arendt per il suo testo sulla dottrina dello Stato, The Notion of the State. An Introduction to Political Theory, dove l’incipit della sezione dedicata al potere è il seguente: «Concepire lo Stato in termini legali o, il che è la stessa cosa, definire il potere come una forza esercitata secondo e in nome della legge, non implica necessariamente che stiamo esprimendo un giudizio di valore su come dovrebbe essere lo Stato, né che il suo fine debba essere il perseguimento del potere. Questa definizione tiene semplicemente conto del fatto che lo Stato non può essere concepito soltanto con la forza e che, per capirne la natura, dobbiamo rivolgerci all’affermazione semplice ed ovvia secondo la quale esistono relazioni di comando e di obbedienza tra uomini, per analizzare il comando in sé, e della maniera in cui è espresso nel contesto sociale. […] Per fare questo dobbiamo conoscere le circostanze particolari di un uomo o di un gruppo di uomini da cui deriva il comando, nonché di quelli su cui è definito e che può, se necessario, essere
209 H. Arendt, Sulla violenza, pp. 38-39.
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costretto dalla forza per osservarlo. La condizione è di capitale importanza. È l’unico modo per evitare una possibile ambiguità che può giacere nel contrasto tracciato tra “il governo degli uomini” e il “governo delle leggi”- un contrasto che deriva dall’antichità per esprimere un significato favorevole al “governo delle leggi” per essere un governo migliore del “governo degli uomini”, proprio come il contrasto tra la “norma della forza” e la “norma della legge” è generalmente intesa come indicante l’ultima preferibile alla prima. […] Questo non ha niente a che fare con l’analisi concettuale della relazione tra “legge” e “governo”. Certamente non intendo escludere la possibilità di un giudizio di questo tipo, per esempio la giustificazione dello Stato perché rappresenta un controllo di forze, perché assicura ordine e legge. Il nostro problema è diverso. Dobbiamo decidere se e in che senso il “potere” può essere distinto dalla “forza”, per accertare come il fatto di usare la forza in accordo con la legge cambia la qualità della forza e ci presenta un differente quadro delle relazioni umane. Dobbiamo provare, in altri termini, che la vera nozione di Stato è intimamente legata con la nozione di legge, non nel senso che potrebbe essere associata a tutto ciò che riguarda lo Stato, ma nel senso che una costruzione
concettuale coerente dello Stato può essere ottenuta solo in una cornice legale»211. Stato, allora, non è uguale a forza e violenza, la definizione di esso deve passare solo
e soltanto da una nozione di legge, ovvero da una spiegazione legale. Ma dobbiamo condannare la forza senza mezzi termini o possiamo applicare ad essa un giudizio
211 A. P. d’Entrèves, The Notion of the State, an Introduction to Political Theory, 1967, Oxford, pp. 69-70 (traduzione mia).
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relativo alle circostanze? Passerin d’Entrèves si chiede se ci siano dei casi in cui il potere può essere distinto dalla forza, «per accertare in che modo il fatto di usare la forza in base alla legge cambi la qualità della forza stessa e ci offra un quadro completamente diverso dei rapporti umani», dato che «la forza, per il semplice fatto di essere qualificata, cessa di essere forza»212. Arendt, pur riconoscendo la differenza
di analisi della questione tra gli autori precedentemente menzionati e il filosofo piemontese, non si dichiara soddisfatta: «Ma anche questa distinzione, di gran lunga la più elaborata e meditata che si possa trovare nella letteratura sull’argomento, non va alla radice della questione»213. Secondo l’autrice, la colpa di d’Entrèves è quella di
definire il potere come un tipo di violenza più mite e dunque, pur partendo da un’analisi meditata e senza affrettare conclusioni, il risultato finale è lo stesso. Questo vuol dire che il punto di vista weberiano non riesce a trovare reali opposizioni. Il concetto weberiano di Macht e Herrschaft, potere e dominio, cristallizza in sé gli elementi di una lunga ed incontrastata tradizione che connette il potere politico allo stato tramite la nozione di sovranità214. Secondo questa visione delle cose, il potere
finisce per essere collocato nelle mani di un solo soggetto. Tuttavia, apportando alle definizioni sulla natura del potere un’analisi a ritroso, si scopre che queste derivano «dal vecchio concetto di potere assoluto che ha accompagnato il sorgere dello stato- nazione sovrano europeo» e coincidono anche «con i termini usati fin dall’antichità
212 Ibidem.
213 H. Arendt, Sulla violenza, op. cit., p. 39.
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greca per definire le forme di governo come il dominio dell’uomo sull’uomo».215
L’indagine di Arendt, da qualunque parte essa prenda inizio, ritorna sempre al problema della continuità di un pensiero del dominio, da quella teoria che sin da Platone vede nel potere uno strumento di sopraffazione. Questa tradizione unisce gli imperi antichi allo stato per ceti, lo stato assoluto al governo di nessuno. Il fatto che lo stato possa essere concepito ed organizzato come stato di diritto o come stato assoluto, per l’autrice non fa molta differenza. Quello che queste due forme così apparentemente diverse di governo condividono è la considerazione del potere politico come qualcosa che si esercita ricorrendo alla violenza. Inoltre, questo concetto è stato confermato e rafforzato dalla tradizione ebraico-cristiana e dalla sua «concezione imperativa della legge»216.
Questa concezione, dunque, «non è stata inventata dagli esponenti del realismo politico, ma è stata piuttosto il risultato di una generalizzazione molto anteriore, quasi automatica dei Comandamenti di Dio, secondo la quale “il semplice rapporto di
comando e di obbedienza” bastava ad individuare l’essenza della legge»217.
Allora, stando così le cose, non esiste nessuna via d’uscita a questa definizione di legge e potere? Arendt non si lascia sopraffare dal dominio di una certa tradizione e ne evoca un’altra. Infatti osserva che «c’è anche un’altra tradizione e un altro
215 H. Arendt, Sulla violenza, p. 40
216 Ivi, p. 41
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vocabolario non meno antico e rispettato nel tempo. Quando la città-stato ateniese chiamava la sua costituzione isonomia, o i romani parlavano della civitas come della loro forma di governo, avevano in mente un concetto di potere e di legge la cui essenza non si basava sul rapporto comando/obbedienza e che non identificava il potere col dominio né la legge col comando. È stato a questi esempi che gli uomini delle rivoluzioni del XVIII secolo si sono richiamati quando hanno dato fondo agli archivi dell’antichità e hanno costituito una forma di governo, la Repubblica, in cui il dominio della legge, basato sul potere del popolo, avrebbe posto fine al dominio dell’uomo sull’uomo, che essi ritenevano essere un “governo adatto agli schiavi”» 218.
In questa tradizione parallela, allora, si trovano tracce di un potere che non può essere confuso con la forza. Infatti esso non si ricollega ad una obbedienza indiscussa alle leggi; quello che dà potere alle istituzioni, in questo modo di vedere le cose, «è il sostegno del popolo», un sostegno che «è la continuazione del consenso che ha dato originariamente vita alle leggi»219. Conseguenza di questo ragionamento è che il potere del governo, cioè la forza dell’opinione pubblica, dipende dai numeri. Ed è per questo che «una delle più ovvie distinzioni tra potere e violenza è che il potere ha sempre bisogno di numeri, laddove la violenza fino ad un certi punto può farne a meno perché si affida agli strumenti di cui dispone»220. Arendt precisa che «un
governo della maggioranza legalmente senza limiti, cioè una democrazia senza
218 Ivi, pp. 42-43.
219 Ibidem.
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costituzione, può essere molto temibile nella soppressione dei diritti delle minoranze e molto efficace nel soffocare il dissenso senza fare alcun ricorso alla violenza. ma questo non significa che violenza e potere siano la stessa cosa»221. L’autrice precisa che la forma più estrema di potere è Tutti contro Uno, mentre la forma più estrema di violenza è Uno contro Tutti e per attuare quest’ultima sono sempre necessari degli strumenti. La spiegazione dell’effettivo potere della maggioranza viene fornita nel testo da un episodio accaduto in alcune università tedesche, dove un «dissidente solitario» ha interrotto con mezzi violenti le lezioni di classi numerose in cui la maggioranza aveva votato per il normale proseguimento dei corsi. Questo «dissidente» ha potuto «menare il vanto di una vittoria strana come questa. Quello che in effetti accade in questi casi è qualcosa di molto più grave: la maggioranza chiaramente rifiuta di far ricorso al suo potere per imporsi sui disturbatori; il processo accademico si interrompe perché è disposto a qualcosa di più che all’alzata di un dito per votare a favore dello status quo»222. La maggioranza, nonostante abbia tutto il potere per fermare la minoranza, si rifiuta di farlo e si coalizza con essa, diventandone un alleato latente. A questo proposito, Arendt non può fare a meno di lanciare una provocazione: «Basterebbe immaginare che cosa sarebbe accaduto se uno o più ebrei disarmati nella Germania prehitleriana avessero cercato di
221 Ibidem.
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interrompere la lezione di un professore antisemita per capire l’assurdità di tutte le chiacchiere sulle ristrette “minoranze di militanti”» 223.
Puntando ancora il dito contro la terminologia della scienza politica che non fa distinzione tra “potere”, “potenza”, “forza”, “autorità” e “violenza”, Arendt usa, ancora una volta, il testo di Passerin d’Entrèves per sottolineare l’importanza di queste distinzioni linguistiche. Nell’introduzione a The Notion of the State, il filosofo torinese distingue tra uno Stato considerato come mera forza, uno considerato come potere e, infine, un altro considerato come autorità. Il significato di queste tre parole usate per descrivere uno Stato è «lontano dall’essere inequivocabile»224. Nella
maggior parte delle lingue europee queste espressioni sono usate quando lo Stato viene messo in discussione e quando si tenta di descrivere il modo in cui manifesta la sua presenza. «Potenza, potere e autorità sono parole al cui esatto significato non si attribuisce un gran peso nel discorso corrente: anche i più grandi pensatori spesso le usano a caso. Eppure è lecito immaginare che esse facciano riferimento a proprietà diverse e che il loro significato dovrebbe prima essere valutato ed esaminato. […] La distinzione e la relazione tra potestas e auctoritas è stata stabilita tempo fa da un’autorità come Cicerone. Il corretto uso di queste parole non è solo una questione di grammatica logica, ma anche di prospettiva storica»225.
223 Ibidem.
224 A. P. d’Entrèves, op. cit., p. 6.
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Esiste un convincimento dietro questa confusione apparente: «la convinzione che l’aspetto politico più sostanziale è, ed è sempre stato, la domanda: chi comanda a chi?» 226. Il fatto che ci sia sempre qualcuno che ha il comando su qualcun altro fa sì che la domanda fondamentale per capire il processo politico sia sempre la precedente. Il dominio dell’uomo sull’uomo è esercitato in modi diversi e le parole come potere, forza, autorità e violenza sono spesso usate come sinonimi perché si crede che rivestano il medesimo compito. Quando, allora, la diversità di questi concetti, di questi «dati originali nel campo degli affari umani»227, apparirà come inequivocabile?
Soltanto «dopo che si sarà rinunciato a ridurre gli affari pubblici all’esercizio del dominio»228. Nel frattempo, i «dati originali» possono essere enumerati come di
seguito. Il Potere corrisponde alla capacità umana di agire di concreto. Esso è un fine in sé,
non è mai proprietà di un individuo, ma appartiene ad un gruppo ed esiste finché questo gruppo resta unito. A questo proposito, in Vita activa Arendt scrive: «Se il potere fosse più che questa potenzialità implicita nell’essere insieme, se potesse essere posseduto come vigore o esplicato come forza invece di essere subordinato all’incerto e solo temporaneo accordo di molte volontà e intenzioni, l’onnipotenza sarebbe una concreta possibilità umana. Infatti il potere, come l’azione, non è
226 H. Arendt, Sulla violenza, pp. 46-47.
227 Ibidem
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soggetto a limiti; non ha alcuna limitazione fisica nella natura umana, nell’esistenza corporea dell’uomo, diversamente dalla forza.
La sua sola limitazione è l’esistenza di altre persone, ma questa limitazione non è accidentale, perché il potere umano corrisponde in primo luogo alla condizione della pluralità»229. Il potere di una persona che si dice essere «al potere», viene legittimato
da un certo numero di persone che gli hanno permesso di ricoprire quella carica. Il potere scompare nel momento in cui il gruppo dal quale ha avuto la sua origine cessa
di esistere, potestas in populo.
Potenza, invece, indica «in modo inequivocabile qualcosa al singolare, un’entità
individuale; è una proprietà inerente a un oggetto o a una persona e appartiene al suo carattere, che può dar prova di sé in rapporto ad altre cose o persone, ma è sostanzialmente indipendente da esse»230. Proprio a causa del fatto che il potere è di
molti e la potenza di uno, quest’ultima può essere sempre sopraffatta da molti il cui unico scopo è abbattere questa potenza. Arendt scrive che l’istintiva ostilità dei più nei confronti del singolo è sempre stata attribuita, da Platone a Nietzsche, al risentimento del debole per il forte. Ma questa spiegazione, come tutte le precedenti fallacie linguistiche, non tiene conto del fatto che è nella natura del gruppo e del suo potere rivolgersi contro l’indipendenza, che è proprietà della potenza individuale231 .
229 H. Arendt, Vita activa, p.148
230 H. Arendt, Sulla violenza, pp. 47-48
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La forza, invece, spesso usata nel linguaggio quotidiano come sinonimo di violenza, «dovrebbe essere riservata, a rigor di termini, per le “forze della natura” o la “forza delle circostanze”, cioè per indicare l’energia sprigionata dai movimenti fisici o sociali»232.
L’autorità «si riferisce al più inafferrabile di questi fenomeni e, quindi, in quanto termine, è quello più frequentemente usato a sproposito»233.
L’autorità, scrive Arendt può essere di diverso tipo; può trovarsi nelle persone (ad esempio l’autorità personale, nel rapporto fra genitori e figli, fra insegnante e allievo), oppure può trovarsi in cariche, come, per esempio, nel Senato romano (auctoritas in
senatu) oppure nelle funzioni gerarchiche della chiesa234. L’autorità non ha nulla a
che fare con la coercizione e con la persuasione; la sua caratteristica è il riconoscimento indiscusso da parte di coloro cui si chiede di obbedire. Arendt riporta l’esempio dell’autorità di un padre sul figlio: «Un padre può perdere la sua autorità sia picchiando il figlio che cominciando a discutere con lui, cioè sia comportandosi come un tiranno che trattandolo come un uguale»235. L’autorità si conserva
rispettandone la carica e la persona su cui essa si esercita. L’autorità fallisce nel momento in cui si impiega la forza e il motivo per cui essa viene scambiata con un
232 Ibidem.
233 Ibidem.
234Cfr., Ibidem.
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modo di esercitare il potere è dovuto al fatto che esige l’obbedienza236. Caratteristica