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Riapprendere il mondo. Il pensiero di Hannah Arendt tra critica delle ideologie e ripensamento dell'agire politico

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Civiltà e forme del sapere

Corso di Laurea Magistrale in Filosofia e Forme del sapere Anno accademico 2015/2016

Riapprendere il mondo.

Il pensiero di Hannah Arendt tra critica delle ideologie e ridefinizione

dell’agire politico

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3 Capitolo I 8

Ripensare il politico. La crisi della filosofia politica moderna e l’analisi del passato alla ricerca di risposte. .. 8

Il rapporto causa-effetto tra tradizione e modernità: la prova dei fatti. Un’analisi del pensiero da Platone a Marx. ...10 1.1.1 Platone ...12 1.1.2 Aristotele ...17 1.1.3 Hobbes ...23 1.1.4 Rousseau ...30 1.1.5 Hegel ...35 1.1.6 Marx ...47

La trappola della coerenza logica dell’ideologia totalitaria: adattare la realtà alla teoria. ...57

Capitolo II...69

Azione e spazio pubblico: l’affermazione dell’identità individuale ...69

La vita activa e la società umana: l’azione come tratto caratteristico ...71

Lo spazio pubblico ...82

Capitolo III ...97

.Il potere tra teoria e prassi: denuncia del modo normativo di concepire l’agire politico ...97

Il potere come carattere potenziale dello spazio pubblico: decostruzione dei τοποι classici e critica dei concetti politici tradizionali ...102

Violenza e forza, potere e autorità: le conseguenze del non aver saputo distinguere...107

Capitolo IV ...129

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Introduzione

Theodore Roosevelt era solito attribuire l’appellativo muckrakers, scavatori di fango, ai cronisti di McClure’s, un mensile americano dei primi del Novecento il cui taglio editoriale diede inizio al moderno giornalismo d’inchiesta. Con questa definizione il ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti intendeva riprendere un passo del Viaggio

del pellegrino del predicatore inglese John Bunyan in cui si narra di un uomo che può

guardare solo in basso e che ha in mano un rastrello per il letame e sopra la testa una corona celeste, offertagli in cambio del rastrello. Nonostante l’allettante dono che gli viene messo a disposizione, l’uomo si rifiuta di sollevare lo sguardo e continua a rastrellare, passando al setaccio il fango. All’accusa di ignorare quanto di nobile gli veniva offerto se solo avessero saputo distogliere lo sguardo da terra, un reporter replicò dicendo che i muckrakers scavavano nel fango non perché odiavano il mondo ma perché lo amavano.1

La stessa difesa che lo sconosciuto reporter fece del suo mestiere può essere rivolta agli scritti e al pensiero di Hannah Arendt e dunque alla sua volontà di riapprendere

il mondo. L’amore per il mondo accompagnato alla tenacia del comprendere la realtà

in cui viveva, portano Arendt a cercare le risposte nell’ignoto, svincolandosi da quel sistema logico monocausale entro il quale i regimi totalitari avevano irreggimentato gli individui. Il verbo riapprendere rientra in un’analisi del pensiero arendtiano inconsueta rispetto a quella classica. Marie Luise Knott lo usa come perno su cui far ruotare l'argomentazione del suo libro Hannah Arendt. Un ritratto controcorrente. Nei diari di Arendt si legge che è necessario "riapprendere" (Knott traduce con riapprendere il verbo verlernen, che ha una pluralità di significati: disimparare, dimenticare, studiare molto) il noto nell'ignoto, cercare nuovi modi per spiegare quello che è accaduto alla politica, alle sue categorie e alla lettura che i filosofi e gli

1 Cfr. Dall’introduzione di Simone Barillari a Sette pezzi d’America. Dal Watergate a Scientology, i grandi scandali

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intellettuali hanno fatto della realtà. Sviscerando gli scritti della pensatrice tedesca e setacciando le sue analisi sulla politica e sul mondo senza lasciare nulla al caso, si può dire senza molte esitazioni che riapprendere è il verbo che riassume al meglio il contenuto del suo pensiero. Il mondo andava conosciuto da capo e riscoperto sotto una nuova luce. Le possibilità offerte dell’evento della nascita, o meglio della

rinascita, dovevano favorire una visione più lucida della realtà, svincolata dalle rigide

maglie di una logica inconcludente e potenzialmente distruttiva. Lo scopo di Arendt e del suo percorso intellettuale era sicuramento quello di liberarsi di quelle immagini e di quei concetti il cui significato consegnato alla tradizione ne aveva ostacolato il pensiero.

Per analizzare nuovamente il mondo, per conoscerne i tratti che ne avevano da tempo immemore caratterizzato una certa visione era necessario scavare nel passato della storia del pensiero, andare al fondo del problema alla ricerca del momento in cui certi semi hanno iniziato a subire una mutazione e hanno generato dei corpi deviati, per capire in quale punto della storia la politica e il potere hanno subito quella deviazione decisiva che ne avrebbe travisato per sempre il significato originario.

Il percorso intellettuale di Arendt tracciato dai suoi scritti editi e non, risulta sempre fedele all’intento originario dell’autrice: fornire una nuova visione del mondo e della politica attribuendo la massima importanza all’agire e alla consapevolezza di vivere nella realtà e non nel regno della teoria.

Gli uomini sono ancora in grado di fare cose al singolare, i poeti continuano a scrivere poesie, i filosofi a pensare l’essere o il nulla, i singoli uomini e donne a nutrire speranze e passioni. La produttività spirituale dell’umanità, allora, non è venuta meno. «Quello che è andato storto è la politica», afferma Arendt in una conferenza tenuta all’Università della California nel 1955. Non è andato in crisi ciò che uomini e donne sono in grado di fare e di produrre come singoli, ma piuttosto quello che essi possono fare assieme, avendo il mondo come parte in condivisione

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delle loro vite. Per la pensatrice tedesca la politica è legame, relazione tra esseri umani. E’ nel momento in cui questo legame, questa relazione sono venuti meno che qualcosa «è andato storto». Quando gli individui vengono privati dello spazio per agire politicamente, delle condizioni per parlare e mostrarsi agli altri, della possibilità di sentirsi uguali non in quanto appartenenti ad una entità astratta, ma ad una

comunità reale, vengono privati di tutto ciò che li caratterizza come esseri umani e vivi e pensanti. Questo tipo di realtà, a differenza dei prodotti della tecnica, una volta distrutta non può essere facilmente riscostruita. Ed è qui che interviene la necessità paventata all’inizio di riapprendere il mondo: la realtà deve essere riattivata, tornando ad imparare il gusto delle relazioni, dell’essere insieme2.

Come suggerisce Laura Boella nel suo saggio Hannah Arendt. Agire politicamente,

pensare politicamente, seguendo questo percorso di pensiero, l’unica domanda che

possiamo oggi porgere ad Hannah Arendt è: se la storia dell’Occidente ha

costantemente messo in pericolo le condizioni dello stare insieme, che significato possono avere oggi agire politicamente e pensare politicamente?3

Gli scritti di Arendt sono attraversati dalla ricerca di un agire che non richiede né santi né eroi. Per la pensatrice tedesca la politica è un’impresa in cui può emergere tutto ciò che di buono l’uomo ha da offrire. Anche se i precedenti suggeriscono altro, anche se l’orizzonte risulta oscuro, l’agire politico non si misura esclusivamente su tecniche istituzionali o amministrative, è avverso al fatalismo, ma anche alla

presunzione che tutto sia possibile, necessita di forza di volontà e spirito di iniziativa. Nel saggio The Eggs Speak up Arendt utilizza le uova per iniziare la sua trattazione sul famigerato uso legittimo della violenza: non si può fare a meno di rompere le

2 Cfr. Laura Boella, Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, pp. 12-13, Feltrinelli, 1995 .

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uova se si vuole fare una frittata4. Boella scrive che se le uova prendessero la parola proporrebbero una massima della politica opposta e meno popolare, ovvero quella pronunciata da Clemenceau durante l’affare Dreyfus: «L’affaire d’un seul est l’affaire de tous»5. Tale massima suggerisce la liberazione dell’intera tradizione politica dalla pretesa di trasformare e plasmare la realtà con il modello dell’agire produttivo. Quella massima ispira gli individui ad agire e a pensare politicamente in uno spazio pubblico creato e sostenuto dalla forza delle relazioni umane e reso durevole da istituzioni che non siano l’incarnazione di un’idea a di un principio, ma che preservino e

salvaguardino la realtà terrena della nostra esistenza.

Arendt mette in risalto il contesto vario e complesso delle esperienze umane, ne rivendica l’importanza in quanto luogo privilegiato dell’agire politicamente e del pensare politicamente. Definire le esperienze un luogo privilegiato per l’azione politica è il risultato della visione reale della condizione umana, del concepire la vita come vissuta nella realtà e non in uno schema con canoni prestabiliti e da cui è impossibile deviare il percorso.

L’intento di questo elaborato è esporre il pensiero di Arendt in relazione ai temi che hanno definito il suo percorso intellettuale: dall’opposizione alle ideologie come forme di pensiero precostituito e quindi lontane dall’opacità della realtà a cui la pensatrice tedesca intende dare importanza, all’azione come forma più alta della politica, sempre tenendo fede all’impegno dei muckrakers di scavare nel fango per far emergere la verità per troppo tenuta tempo nascosta.

4 Cfr. The Eggs Speak up in Essays in Understanding, pp. 270-280.

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Capitolo I

Ripensare il politico. La crisi della filosofia politica moderna e l’analisi

del passato alla ricerca di risposte.

Tu nella notte occupato a riapprendere il mondo

Nelly Sachs, Tu nella notte

«L’espressione “filosofia politica”, che io peraltro evito, è straordinariamente

sovraccarica di tradizione. Quando parlo di queste cose, in termini accademici o non accademici, ricordo sempre che esiste una tensione vitale tra filosofia e politica. Vi è cioè una tensione tra l’uomo come essere che pensa e l’uomo come essere che agisce di cui non vi è traccia, per esempio, nella filosofia della natura. L’atteggiamento del filosofo di fronte alla natura non è diverso da quello di ogni altro uomo, e quando dice ciò che pensa su di essa egli parla nel nome dell’umanità, ma un filosofo non può essere obiettivo o neutrale rispetto alla politica. Non dopo Platone!»6

Il 28 ottobre del 1964 la televisione della Repubblica Federale Tedesca trasmise l’intervista di Günter Gaus ad Hannah Arendt. Ad aprire la conversazione fu una dichiarazione della Arendt intenzionata fin dall’inizio a chiarire la sua posizione: «Io non appartengo alla cerchia dei filosofi». Seguì il passaggio precedente in cui è possibile rilevare le chiavi di volta del pensiero arendtiano: la distinzione ed il

6Günter Gaus, Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache, in Günter Gaus, Zur Person, Piper, München, 1965 (traduzione mia).

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conflitto tra la filosofia e la politica, la vita contemplativa contrapposta a quella attiva, l’ostinarsi della filosofia nel parlare per l’umanità intera, il riferimento a Platone, quindi la necessità di analizzare il passato per comprendere il presente.

Non si può condurre un’analisi del pensiero arendtiano sulla politica senza tenere conto del filo rosso che percorre tutta la produzione della pensatrice tedesca: lo studio del totalitarismo e il chiedersi in continuazione fino a che punto fosse lecito ricercare nella tradizione del pensiero politico e filosofico dei possibili semi che di esso potevano esserci. Il darsi concreto del totalitarismo ha «letteralmente polverizzato le categorie del nostro pensiero politico e i nostri criteri di giudizio morale»7. Il potere

totalitario ha smantellato tutti i topoi classici attraverso i quali si era soliti spiegare il potere e la politica, non esistono più «somiglianze di famiglia» tra le forme di governo del passato e quelle che hanno segnato il ‘900; occorre ripensare il politico muovendosi su strade che il pensiero non aveva mai percorso.

Ad essere interrogato non è solo il passato politico, come avviene in Le origini del

totalitarismo, dove si cerca di rintracciare quegli elementi che a partire dall’Ottocento

percorrono la storia europea sino al compiersi del nazismo e dello stalinismo, ma anche il passato filosofico. La prima ragione per cui quest’ultimo è chiamato in causa è il fatto che le sue categorie classiche perdono il loro carattere definitorio se usate per rendere conto del fenomeno totalitario, caratterizzato da «terrificante

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originalità»8. Dopo di esso sono saltate le basi che prima di quel momento differenziavano le forme di governo rette da quelle degenerate, ha demolito «l’alternativa tra governo legale e governo illegale, tra potere arbitrario e potere legittimo»9. Questa nuova forma di potere non può dunque essere spiegata, secondo Arendt, né come semplice dittatura, né come dispotismo. La denuncia del fatto che la filosofia ed il pensiero politico si dimostrano incapaci di affrontare il fenomeno totalitario con gli strumenti teorici di cui sono in possesso, si accompagna ad un riesame della tradizione della filosofia politica – da Platone a Marx – chiedendosi fino a che punto fosse lecito cercare nel passato le responsabilità di quanto sarebbe accaduto in futuro.

Il rapporto causa-effetto tra tradizione e modernità: la prova dei fatti.

Un’analisi del pensiero da Platone a Marx.

Ad Eric Voegelin, il quale definì l’analisi della Arendt sul totalitarismo «una rivelazione graduale della sua essenza», ella replicò: «Ciò che è senza precedenti nel totalitarismo non è primariamente il suo contenuto ideologico, ma l’evento stesso della dominazione totalitaria. Ciò si può chiaramente intendere se ammettiamo che le conseguenze delle sue politiche hanno fatto esplodere le categorie tradizionali del pensiero politico e i criteri di giudizio morale. Il signor Voegelin sembra pensare che

8 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Milano,2004.

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il totalitarismo sia solo l’altra faccia del liberalismo, del positivismo, del pragmatismo. Ma […] il punto è che i liberali non sono chiaramente dei totalitari. Ciò non esclude il fatto che anche degli elementi liberali o positivisti si offrano al pensiero totalitario, ma tali affinità significherebbero solo che si devono tracciare delle distinzioni ancora più nette, a causa del fatto che i liberali non sono dei totalitari. […] Il fatto che io sia interessata alle implicazioni e ai cambiamenti filosofici nell’auto-interpretazione spirituale, non significa che io abbia descritto “una rivelazione graduale dell’essenza del totalitarismo”, perché quest’essenza non esiste prima di essere venuta alla luce. Perciò parlo di elementi che alla fine si cristallizzano nel totalitarismo, alcuni dei quali sono rintracciabili nel XVIII secolo, altri forse anche più addietro»10. Dunque, quest’essenza non esiste prima di essere venuta alla

luce; nel momento in cui si vanno ad indagare le cause, la tesi del nesso causale

diretto tra filosofia e totalitarismo, tra tradizione e modernità, non regge alla prova dei fatti. Il potere totale che ha segnato il «secolo breve», non costituisce il punto di arrivo di un percorso che ha le sue radici nell’antichità. Tuttavia, dal momento che

ciò non esclude il fatto che anche degli elementi liberali o positivisti si offrano al pensiero totalitario, Arendt va alla ricerca di alcune costanti filosofico-politiche che

giungono a lasciare il loro innocuo ruolo di astrazioni concettuali per realizzarsi nella prassi totalitaria. Quel che è certo è che la filosofia ha oltrepassato il suo limite: le

10 H. Arendt, A Replay, in «The Review of Politics», XV, n.1, 1953, cit. p. 80; tr. It. In G. Lami, Introduzione a Eric

Voegelin. Dal mito teo-cosmogonico al sensorio della trascendenza: la ragione degli antichi e la ragione dei moderni,

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categorie filosofiche hanno lasciato il regno dell’astrazione per fare il loro ingresso nella realtà. Tuttavia, prima di procedere con l’operazione di lettura del pensiero antico e moderno, è opportuno fare alcune precisazioni. L’operazione ermeneutica dell’autrice rispetto agli scritti dei filosofi antichi e moderni tende ad evidenziare gli aspetti di forza e di debolezza del suo metodo. Da un lato, infatti, emerge come l’intento non sia quello di un recupero nostalgico del pensiero classico, ma che lo impieghi per ridurre criticamente le concezioni imperanti durante l’età moderna. Dall’altro, però, è facile notare come questa operazione si basi su una visione riduttiva dell’opera degli autori presi a bersaglio dalla critica. Il motivo principale di alcune mancanza va rintracciato nello scopo che la pensatrice tedesca si prefigge fin dall’inizio del suo percorso di comprensione del presente: evidenziare criticamente ciò che dalla dimensione filosofica del pensiero si è tradotto nella prassi storica e politica corrente11.

1.1.1 Platone

Alla stessa maniera di Heidegger, il suo maestro, Hannah Arendt ravvisa nei dialoghi platonici l’architesto della filosofia; in essi è possibile cogliere l’atto di nascita della filosofia politica, disciplina il cui ruolo si rivelerà contrario a quello per cui è stata istituita: degradare la politica anziché nobilitarla.

Per Arendt la svolta del pensiero antico verso la filosofia si compie nelle parole del Proemio di Parmenide: «L’Essere è e non può non essere, mentre il non essere non è

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ed è necessario che non sia». L’ingresso della tematica dell’Essere darà inizio ad un percorso in cui l’identità di Essere, Pensiero e Verità sarà lo strumento di una derealizzazione della Lebenswelt, il mondo della vita concreto, visibile e pratico. L’Essere può rivelarsi soltanto all’occhio della mente che rende presente ciò che è assente, un occhio in grado di cogliere ciò che non può essere visto dai più. La visione di quest’ente può compiersi soltanto mettendo da parte i sensi e allontanandosi dal reale. Con la metafisica, dunque, pensiero ed azione si separano.

Una delle critiche che si possono muovere ad Hannah Arendt circa la lettura dei testi platonici è la sua mancanza di interesse a rendere giustizia alle diverse direzioni di indagine cui i testi alludono. Sacrifica alla vis polemica la problematicità che ogni lettura di Platone presenta. Insiste sul mettere in risalto lo iato tra idea e realtà ed il primato della prima su quest’ultima. Tuttavia, la superficialità dell’analisi dei passi platonici non è che il prezzo da pagare per una profonda lettura della nascita della filosofia nelle sue implicazioni politiche. Questa lettura tenta di cogliere alla radice quel costituirsi del sistema filosofico che ha compromesso la considerazione della politica.

Arendt ritiene che l’autoinganno filosofico a causa del quale si pensa di poter trascendere ciò che appare, equivalga all’incapacità del pensiero di attenersi a ciò che è dato.

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Il modo di pensare che si inaugura con Platone, così come il sistema delle opposizioni, e che segnerà il destino della filosofia occidentale, è per Hannah Arendt il completo stravolgimento di una mentalità, la frantumazione del mondo da lei definito pre-filosofico. In La vita della mente e nel paper del 1969, What is Political

Philosophy?, la nascita della filosofia viene presentata come la conclusione di un

conflitto: «il conflitto originario tra filosofia e politica – circa il miglior modo attraverso il quale immortalarsi»12. Immortalarsi significa far riscattare la vita umana dalla naturalità, aggiungere quel qualcosa che possa distinguerla da ciò che condivide con gli animali. Attraverso un excursus storico, Arendt sottolinea che prima della nascita della filosofia e della filosofia politica, immortalarsi significava conseguire la fama e rendersi simili agli dei. Le vicende mutevoli del mondo, dunque, non sono solo oggetto dell’attenzione dei poeti e degli storici, ma anche di quella dei politici. Nel periodo di massimo splendore della polis l’immortalità poteva essere raggiunta senza la mediazione della poesia e della storia. Al tempo di Pericle l’immortalità di ognuno dipendeva soltanto dal riconoscimento da parte degli altri.

Quel che resta come minimo comune denominatore riguarda le rispettive vie verso l’immortalità, le quali presuppongono la stessa accettazione della temporalità e della finitudine. Il tempo diventa un problema soltanto per i filosofi. È chiaro che con

12 H. Arendt, Philosophy and Politics. What is Political Philosophy?, in The Hannah Arendt Papers at the Library of Congress, cit., p. 024437. I testi sono consultabili online su

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Platone la metafisica si erige sulla rimozione della temporalità, il pensiero si rifugia in quelle cose di cui Aristotele dirà che «sono da sempre e per sempre».

Hannah Arendt sta dunque sostenendo che la nascita della filosofia è inscritta nell’impossibilità per il pensiero di accettare il mondo segnato dal lutto della contingenza. I fondamenti della metafisica non sono altro che la manifestazione ossessiva di un desiderio che rimuove la morte e il tempo.

La caratteristica della metafisica di agire al di là della temporalità per proteggersi da essa e quindi per sfuggire alla morte, spiega il perché della fuga dalla politica, intesa come il regno delle cose umane che hanno un inizio e una fine. Tale è la spiegazione del primato della contemplazione del Vero Essere eterno sul mutevole mondo dell’azione, e tale è il motivo per cui Platone tenta di catturare gli elementi di instabilità riguardanti la praxis, instaurando su quest’ultima «la tirannia della ragione, o meglio la tirannia della verità»13.

Arendt non conduce un’analisi dei disegni politici di Platone nella Repubblica, nel

Politico e nelle Leggi. Piuttosto, si concentra sulla ricostruzione dei passaggi della

degradazione dell’ambito dell’agire umano ad opera della ragione filosofica.

«Nella misura in cui il filosofo è soltanto un filosofo, la sua ricerca termina con la contemplazione della verità suprema, la quale, illuminando tutto il resto, è anche la

13 H. Arendt, Karl Marx and the Tradition, in «Social Research» Vol. 69, n. 2, Hannah Arendt and “The Origin of Totalitarianism” Fifty Years Later, cit. p. 280 (traduzione mia).

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suprema bellezza; ma nella misura in cui il filosofo è un uomo tra gli uomini, un mortale tra i mortali, un cittadino tra i cittadini, dovrà trasformare la sua verità in un complesso di regole e leggi»14. Il filosofo può diventare un reggitore dello stato solo se attua questa trasformazione. Per gli affari umani si dimostra fatale la volontà del filosofo di applicare al tempo finito degli uomini ciò di cui ha fatto esperienza nell’assoluta quiete e solitudine del regno del pensiero15.

«Il dominio platonico delle idee, sia esso incarnato nella persona del filosofo-re o esercitato da un legislatore assente attraverso leggi è ispirato all’elevazione dell’uomo, nella sua singolarità, al dominio assoluto»16. Il filosofo-re comanderà i

molti che sono nella polis spinto da una sensazione di onnipotenza, amministrerà i

tanti come se fossero uno, procedendo così alla scomparsa delle singolarità. Il progetto politico caratterizzato dal vivere assieme dei molti sul modello dell’Uno

percorrerà l’intera storia della filosofia politica. Lo si ritroverà in Hobbes, in Rousseau, in Hegel e in Marx. L’origine di questo progetto politico risiede nell’utopia platonica del saggio, secondo cui uno solo dovrebbe governare e tutti gli altri dovrebbero obbedire. A parere dell’autrice, la formulazione della politica come sfera della contrapposizione tra dominanti e dominati si trova esposta nel Politico,

14 H. Arendt, Che cos’è l’autorità in Tra passato e futuro, Garzanti Libri, Milano, 1999, p. 133.

15 Cfr. Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis., op. cit., p.130.

16 H. Arendt, Philosophy and Politics. The Problem of Action, in The Hannah Arendt Papers at the Library of Congress, testi consultabili online su http://memory.loc.gov/ammem/arendthtml/mharendtFolder05.html,cit.,p. 53 (traduzione

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dove i molteplici significati del verbo archein vengono ridotti ad uno solo: comandare. Per Arendt l’identificazione del verbo archein con comandare, dominare, governare, rende più esplicita l’intenzione platonica di stabilire le condizioni affinché l’iniziatore rimanga il padrone esclusivo di ciò che ha iniziato.

La colpa di Platone, allora, è quella di aver ridotto la praxis a poiesi. La separazione tra ideazione ed esecuzione è ciò che caratterizza la fabbricazione: «nella fabbricazione il pensare ed il fare sono separati a tal punto da essere eseguiti da persone diverse. Se si traspongono queste categorie nell’ambito dell’agire, si inizierà a dividere le persone che agiscono in due: da una parte quelli che sanno cosa fare e come dovrebbe essere fatto e, dall’altra, quelli che eseguono solamente»17. Nella

Repubblica il re-filosofo applica le idee alla città nello stesso modo in cui l’artigiano

applica le unità di misura al modello e al materiale da plasmare. Inoltre, la logica della fabbricazione implica fare violenza alla natura per ricavarne la materia con cui realizzare l’oggetto. Nonostante Platone escluda la violenza dal rapporto politico, secondo Arendt, una concezione della comunità che considera oggetto la pluralità agente, finirà per considerare gli uomini come materiale da manipolare e plasmare in base al modello di chi comanda.

1.1.2 Aristotele

Hannah Arendt è spesso annoverata tra coloro che hanno portato avanti un lavoro di recupero della filosofia aristotelica. Essendo la relazione che l’autrice intrattiene con

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il pensiero dello Stagirita meno problematica di quella che intrattiene con la teoria platonica, più che di una discussione critica si tratta di un’appropriazione delle principali categorie aristoteliche contenute nell’Etica Nicomachea e nella Politica. Arendt, soprattutto nelle prime opere, si serve di molte distinzioni aristoteliche. Tuttavia, l’interpretazione arendtiana di Aristotele non può essere definita né apologetica né riabilitativa. La sua valutazione del pensiero aristotelico oscilla tra due giudizi contrapposti. Da un lato Aristotele rappresenta, come già per Heidegger, un ritorno al pensiero greco.18 Dall’altro, il pensiero aristotelico è considerato

prigioniero delle rigide maglie della metafisica, «la scienza terribile». Dunque la linea di pensiero prefilosofica con la quale Platone aveva rotto non è sufficiente ad Aristotele per abbandonare la visione metafisica del mondo. Anzi, la sua eredità è traducibile in una concezione dell’uomo e della politica più metafisicamente irrigidita del lascito platonico.

Come scrive Simona Forti in Vita della mente e tempo della polis, le ragioni che inducono Hannah Arendt a ritenere Aristotele un pensatore più greco di Platone sono diverse. Innanzitutto, egli rifiuta alcuni esiti della tirannia della ragione sulla verità. Lo stagirita va verso la concezione unitaria del logos, quella che non conosceva

18 Heidegger ritiene che nella filosofia aristotelica siano presenti formulazioni ontologiche che si ricollegano a qualcosa precedente alla metafisica. A questo proposito scrive: «Aristotele tenta ancora una volta, sia pure per mezzo di un attraversamento della metafisica platonica, di pensare l’essere in modo originariamente greco e di tornare per così dire indietro dopo il passo compiuto da Platone con l’idea di tou agathon»(M. Heidegger, Der europäisce Nihilismus, 1948, in M. Heidegger, Nietzsche, Neske, Pfullingen 1961, vol. II, p. 228. Traduzione S. Forti in Vita delle mente e tempo

della polis, p. 135, nota 63). Nonostante questo ritorno alle origini del pensiero greco, però, lo Stagirita non riesce a

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separazione tra pensiero e discorso, e le restituisce il suo riferimento politico originario, riconoscendo al logos la sua condivisione attraverso la comunicazione. L’essenziale nel discorso non è la verità o la falsità, ma il significato. Nel paper Karl

Marx and the Tradition, la differenza tra Platone ed Aristotele è spiegata come segue:

se per il primo l’essere umano è nella sua essenza un animale razionale, che si distingue grazie al nous, col quale riesce a percepire la verità nella contemplazione, per lo stagirita l’uomo può definirsi tale perché vive nel mondo del linguaggio. Portando avanti il modo di concepire la vita nella polis, Aristotele riteneva che chiunque si trovasse fuori dalla città-stato non conducesse una vita che potesse essere considerata umana.

Su questi presupposti si basava quell’identità di politica e libertà per la quale «essere liberi ed essere membri della polis era tutt’uno»19. La libertà si realizza solo nella

polis in quanto solo qui l’uomo può agire in concerto con gli altri e non è vincolato

dalle necessità della natura e del lavoro.

La praxis aristotelica non si attua secondo la logica mezzi-fini, ma è pura manifestazione di libertà. A differenza della poiesi, in cui, attraverso l’uso di strumenti, si arriva a produrre un determinato oggetto, l’azione plurale e discorsiva non implica nient’altro che lo stare assieme nella pubblica arena. Il vero debito di Arendt nei confronti di Aristotele consiste nella ripresa di questa distinzione tra la

19 H. Arendt, Karl Marx and the Tradition, in The Hannah Arendt Papers at the Library of Congress, p.3. Testo consultabile online su http://memory.loc.gov/ammem/arendthtml/mharendtFolder05.html (traduzione mia).

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20 praxis e la poiesis. L’Aristotele greco contrapposto all’Aristotele platonico, rimane

per la pensatrice tedesca colui che testimonia ed indica direzioni che divergono dal tragitto metafisico.20

Nonostante questa divergenza rispetto alla strada tracciata dal maestro, secondo l’autrice Aristotele fallisce nel suo tentativo di contrastare la filosofia platonica: pur rifiutando la dottrina delle idee, segue Platone non tanto nel distinguere un modo di vita teoretico e un modo di vita pratico, quanto nell’accettare l’ordine gerarchico istituito tra i modi di vita. Anche lo Stagirita pensava che fosse assurdo ritenere la filosofia politica tra le attività supreme. Egli divide la realtà «tra le cose che non possono essere diversamente da come sono e che sono per sempre» e «le cose che possono essere altrimenti». Solo riguardo alle prime si può parlare di verità.

Insomma, convivono in Aristotele due facce: una rivolta ai primordi greci, l’altra che guarda nella direzione imboccata da Platone. Il primato della contemplazione sull’azione è quindi sancito anche dalla riflessione aristotelica e non può rimanere senza conseguenze sulla concezione stessa del politico. Secondo Hannah Arendt questo è il motivo delle ambiguità e delle contraddizioni rinvenibili all’interno della filosofia pratica aristotelica. Tra le prime, il fatto che Aristotele affermi, più di una

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volta, che la «conduzione delle questioni pubbliche ed il governo dei corpi politici si debbano svolgere secondo la modalità della fabbricazione»21.

Ma più che l’abbattimento del confine tra azione e fabbricazione, in Aristotele inizia a farsi significativa la scomparsa della linea di demarcazione tra oikos e polis. Sono abbastanza frequenti, sostiene l’autrice, i richiami al carattere di necessità inerente alla vita pubblica. Sugli affari umani e sulla loro libertà graverebbe l’ombra dei bisogni materiali che costringono gli uomini a vivere assieme22. Dando particolare rilievo a tale aspetto, Arendt giunge a definire la politica di Aristotele la «prima teoria sistematica degli interessi materiali che dominano nell’ambito politico»23.

Nel momento in cui elementi dell’esperienza pre-politica, quella vissuta ad esempio nella relazione tra il padrone e gli schiavi, vengono introdotti nella sfera politica, il problema politico si traduce nel problema del dominio di alcuni su altri24. A

differenza di Platone, però, nel pensiero aristotelico non c’è la legittimazione di una ragione tirannica e dittatrice, non esiste la supposta superiorità dell’esperto sul profano.

Come sostenuto da Forti, si potrebbe argomentare che la questione fondamentale della riflessione politica arendtiana sia tra Aristotele ed Aristotele stesso. Nella

21 H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, 1994/2014, Milano. Cit. p. 169

22 Cfr. S. Forti, Vita della mente e tempo della polis, op. cit. p. 146

23 H. Arendt, Karl Marx and the Tradition, cit. p. 34

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contrapposizione tra una modalità di concepire la praxis che la reifica ed una modalità che la comprende: lasciando essere, nella condivisione, la contingenza e la pluralità, proprie del tempo finito degli abitanti della polis. I due paradigmi del politico sono entrambi presenti in Aristotele. Nel paper inedito Karl Marx and the

Tradition, Arendt ha scritto: «poco dopo Aristotele il problema del potere, inteso

come dominio, diventa il problema politico per eccellenza […]. Allora null’altro è più in gioco se non chi domina chi, e quanti dominano quanti»25. In verità, per ammissione dell’autrice stessa, questo accade già con Aristotele , in quanto le sue definizioni dei tipi di governo sono in contrasto con la sua stessa concezione del cittadino. Questo avviene perché le intuizioni sull’autonomia e sulla dignità della

praxis non riescono a farsi sufficientemente spazio in una concezione che vuole la

politica soggetta ad una doppia autorità. Scrive Arendt: «La politica aristotelica è derivata in un duplice senso: ha la sua origine nel dato di fatto pre-politico della vita biologica ed il suo fine nella suprema possibilità, per l’uomo la possibilità post-politica»26. Da una parte la necessità di unirsi, dettata dai bisogni, dall’altro il modo

di vita supremo votato alla filosofia, alla contemplazione.

Dopo Aristotele questa subordinazione costituirà il tratto caratteristico della filosofia politica. Con la traduzione di zoon politikon con animale sociale e di zoon logon

echon con animale razionale, verrà meno l’uomo come individuo che agiva con gli

25 H. Arendt, Karl Marx and the Tradition, cit. p. 19.

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altri individuandosi singolarmente tentando di sopravvivere nella memoria senza sentire la necessità di rifugiarsi nell’eterno.

1.1.3 Hobbes

L’interpretazione che Hannah Arendt dà di Hobbes non può essere inserita nel filone di quelle analisi che individuano nella filosofia hobbesiana la rivoluzione copernicana del pensiero politico. Pur avendo una grande portata innovativa, le concettualizzazioni del filosofo inglese non costituiscono, per l’autrice tedesca, un cambiamento del paradigma tradizionale. Il paradigma viene identificato con quella riduzione della praxis a poiesis che trova, come abbiamo visto, la sua origine teorica nei dialoghi platonici e viene riproposta per molti versi da Aristotele. Tuttavia, sullo sfondo di tale persistenza paradigmatica, Hobbes è comunque un pensatore cruciale: con lui si assiste ad una riaffermazione della dignità della vita activa nei confronti della vita contemplativa.

A partire da Le origini del totalitarismo, Hobbes è per Arendt il filosofo della borghesia, «la nuova classe in ascesa». Ne elogia la lucidità con la quale mette allo scoperto i fondamenti della politica di questa nuova classe e ne apprezza la chiarezza con cui rende palesi i disegni del progetto filosofico-politico della modernità: la coincidenza di Stato e politica, l’annullamento della pluralità nell’ordine dell’Uno, la sospensione della temporalità in istituzioni che si pretendono eterne.

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L’attenzione per Hobbes proseguirà anche negli scritti successivi al libro sul totalitarismo, soprattutto per il rilievo dato al radicarsi del De Cive e del Leviatano nella filosofia prima di Cartesio. Sulla concezione filosofico-politica di Hobbes si ripercuoterebbero gli esiti della svolta epistemica e teoretica segnata dalla scoperta del cogito.

Come rilevato da Simona Forti, Arendt individua nel Discorso sul metodo lo spostamento definitivo da una concezione della verità come manifestazione di un ordine oggettivo, che alla mente dell’uomo si disvela, ad una concezione della verità come certezza dell’ente percepito, una certezza propria del soggetto27. In Vita activa.

La condizione umana la svolta soggettivistica che dà inizio alla modernità viene posta

in un contesto di avvenimenti rilevanti, quali la Riforma protestante, la nascita del capitalismo, l’invenzione del telescopio. Per la filosofia si è dimostrata decisiva la nascita della scienza sperimentale. La convinzione di uno iato tra vera realtà e mere apparenze fece irruzione nelle scienze. La scienza post-galileiana fu dominata da un profondo sospetto nei confronti dei sensi, uno scetticismo che diede alla filosofia una direzione solipsistica, «la fallacia più tenace e forse più perniciosa della filosofia»28.

In Cartesio si fa prepotente l’esigenza di trovare qualcosa la cui realtà sia al di là di ogni possibile dubbio. La soluzione è nota: i dubbi vengono superati sottoponendo ad analisi il processo dubitativo stesso, così che l’unica verità sia data dal percepire noi

27 Cfr. Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis. Hannah Arendt tra filosofia e politica, p. 153.

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stessi mentre pensiamo. Arendt ritiene che questo approccio sancisca il congedo definitivo della filosofia dal mondo. Con Cartesio la ragione diventa quell’abilità grazie alla quale si arriva a conclusioni coerenti partendo da premesse date. Il risultato è che, alla fine, il filosofo rifugge sia il mondo del dato che quello in cui la verità si manifesta e finisce per ritirarsi in se stesso. Ora, al di là della lettura della filosofia cartesiana che riduce il cogito ad un esito estremo della rivoluzione scientifica, quello che interessa in questa sede è che per Arendt le nuove filosofie politiche del XVII secolo rimangono determinate dalle scelte teoriche e dalle ragioni che fondano il progetto di Cartesio. In Hobbes la teoria non ha più la pretesa di comprendere il mondo così com’è, ma si rivolge alle cose che devono la loro esistenza all’attività del soggetto stesso, come ad esempio, alla costruzione di quell’uomo artificiale chiamato Stato. Il modo in cui Hobbes traduce in termini politici la nuova visione filosofico-scientifica del mondo rompe con alcuni elementi della tradizione, ma al tempo stesso ne radicalizza altri. Hobbes ribalta l’ordine gerarchico. Con il ribaltamento di Hobbes tra vita activa e vita contemplativa, si eleva a paradigma universale il modello costitutivo dell’attività poietica. E sull’esperienza solitaria della fabbricazione si basano la filosofia della mente e la filosofia della polis hobbesiane.

La volontà di certezza espressa da Cartesio si traduce nel filosofo inglese nel progetto di fondare la politica come una scienza rigorosa, che abbia certezze matematiche. Il suo intento è quello di inserire nel suo progetto politico il rigore proprio della

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geometria. Dunque con Hobbes gli affari umani che appartengono al rango di quelle «cose che possono essere sempre diverse da come sono», acquisiscono la dignità ontologica di «quelle cose che non possono essere altrimenti».

«Decisivo nella sua filosofia politica è che l’uomo e la natura dell’uomo sono al centro di ogni considerazione: l’uomo, però, come egli esperisce se stesso»29: i criteri

per comprendere gli affari umani non risiedono più nelle idee trascendenti, ma si trovano nell’interiorità dell’uomo stesso. Gli assunti di fondo dell’antropologia hobbesiana, delineata nella descrizione dello stato di natura, si possono riassumere così: illusorietà del libero volere, riduzione della ragione a calcolo logico, identità degli esseri umani nelle loro passioni. A proposito dell’identità e dell’uguaglianza naturale di tutti gli individui, tuttavia, a giudizio dell’autrice, essa non avrebbe nulla a che fare con l’uguaglianza indispensabile all’autentico agire politico: quest’uguaglianza deve essere garanzia di opportunità alla partecipazione politica e si deve realizzare nel momento in cui ciascuno si è lasciato alle spalle le esigenze della natura umana30. L’uguaglianza universale è, invece, definita da Hobbes come

l’eguale capacità di uccidere. Nel Leviatano si legge che la possibilità di uccidere è per tutti la stessa in quanto il più debole ha forza sufficiente per uccidere il più forte, da solo o alleandosi con altri. Hobbes ritiene che gli uomini nello stato di natura,

29 H. Arendt, From Machiavelli to Marx, in The Hannah Arendt Papers at the Library of Congress, Courses at Cornell University, Itaca, New York, 1965, cit. p. 023460. Testo consultabile online su

http://memory.loc.gov/ammem/arendthtml/mharendtFolder05.html (traduzione mia). 30 Cfr. H. Arendt, From Machiavelli to Marx, cit. p. 023465.

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pronti ad uccidersi a vicenda per salvaguardare il proprio diritto alla vita, possano risolvere il problema della loro sicurezza cercando la pace e dando vita allo stato. Questi esseri umani, dunque, da una parte vivono in un perfetto stato di isolamento che dà loro l’illusione di onnipotenza, sono invidiosi e bramosi di potere, dall’altra sono al tempo stesso fragili, pronti alla sottomissione e ossessionati dalla paura della morte. In questa duplice connotazione dell’individuo Arendt rileva la contraddizione e, allo stesso tempo, il segreto del sistema hobbesiano. Tale contrasto all’interno dell’individuo stesso sta ad indicare che l’antropologia del filosofo inglese è concepita ad hoc per derivare, con la coerenza propria di un teorema matematico, la fondazione dello stato e l’istituzione dell’obbligo politico31. Si tratta di un artificio

per giustificare con rigore deduttivo i paradossi hobbesiani: la sottomissione spontanea, la libera cessione della propria libertà, la perdita di ogni potere a vantaggio di un potere sovrano. Hobbes trasferisce allo stato gli attributi dell’onnipotenza divina: lo stato crea l’ordine dal conflitto originario, come Dio crea il mondo dal nulla. Al tempo stesso, lo Stato è un prodotto della ragione dell’uomo, posto in essere da patti e contratti.

Nell’analizzare la relazione tra individuo e Stato, l’autrice discute il problema della continuità tra la teorica Ragion di Stato e la filosofia politica hobbesiana.32 Nelle

Lectures del 1965, From Machiavelli to Marx, asserisce che nella concezione del

31 Ivi, p. 023462.

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28 Leviatano confluiscono alcune fondamentali intuizioni dei pensatori della Ragion di

Stato. A prevalere è l’idea secondo la quale «lo stato è analogo ad un organismo vivente che, come tutti gli altri organismi viventi, ha le proprie leggi di autoconservazione e di crescita»33. Compito dell’uomo politico è prendersi cura della salute dello stato. Quest’idea di stato come organismo diventa parte del patrimonio hobbesiano, nel quale si affiancano due metafore politiche: una di tipo biologistico ed una di tipo artificialistico. Dall’analisi di Arendt si evince che anche in questo caso la contraddizione è apparente. Il Leviatano è sia un corpo umano gigante, sia un meccanismo. L’uomo e il suo corpo sono per Hobbes tanto artificiali quanto lo stato. L’uomo è stato creato da Dio e lo stato è stato creato dall’uomo, dunque «l’arte di Dio è la natura e l’arte dell’uomo è l’imitazione della natura»34.

Nella lettura arendtiana dell’opera di Hobbes non manca un’attenta analisi del frontespizio del Leviatano: un’analisi di come il corpo di questo super-Uomo sia composto di nani e grazie a loro si mantenga in vita. Quest’immagine è l’emblema della rappresentazione della scomparsa dei Molti nell’Uno. I Molti, nel consegnarsi all’Uno, si sono privati del loro potere al fine di rendere l’Uno un mostro di forza. Ciò nonostante, il fatto che le braccia siano esclusivamente del sovrano, indica per Arendt che in Hobbes è ancora presente la differenza tra il potere dei Molti e la violenza dell’Uno.

33 H. Arendt, From Machiavelli to Marx, cit. p. 023460.

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È proprio il potere dei Molti che deve essere neutralizzato dall’unità del potere sovrano.

Nella sovranità hobbesiana in cui gli uomini non condividono più nulla di pubblico, lo stato diventa una macchina che funziona espropriando i singoli dalla loro capacità di azione35. La sovranità diventa un pretesto per estromettere l’incertezza della

contingenza e nella cui presunta perennità ed unità si vorrebbe tenere in sospeso il tempo. In questa eternità artificiale della vita si costruisce il vivere assieme. Il suddito rinuncia alla propria dimensione pubblica in cambio di questa temporalità congelata. Pertanto, dal vivere bene aristotelico si giunge al mero sopravvivere. Hobbes, tuttavia, non è un precursore del totalitarismo. Il suo Leviatano si nutre sì del potere dei singoli, riducendo la loro politicità a puro istinto di difesa, ma gli uomini nel ventre del sovrano sono ancora distinguibili l’uno dall’altro. L’alienazione dal mondo e dalla politica è il prezzo che ogni cittadino paga per avere in cambio la sicurezza della vita e la salvaguardia del privato. La comunione di interessi privati che per Platone e Aristotele si contrapponeva alla polis, si costituisce qui come fondamento della polis stessa. Così facendo, Hobbes imprime un’altra modificazione alla tradizione: il privato diventa fondamento e fine del pubblico.

Per Arendt il problema della teoria di Hobbes è racchiuso nell’incapacità di non aver saputo prevedere che consentire al privato di entrare nel pubblico avrebbe minato

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l’unità dello Stato. Ma ben più problematico di questo è il fondamento che sta alla base progetto teorico del Leviatano: la presunzione filosofica di conferire alla politica una certezza contrapposta e, per questo inadeguata, alle vicende umane36. Nelle pagine di Vita activa, Arendt ricorda che nella sfera degli affari umani la filosofia mostrò la propria debolezza, in quanto incapace di comprendere la realtà o perlomeno di credere in essa. L’idea che solo ciò che sto facendo è reale viene smentita dal corso degli eventi in cui la certezza è data solo dall’inaspettato. È questo il motivo per cui la filosofia politica moderna «va a picco sullo scoglio di un razionalismo moderno che è irreale e di un realismo moderno che è irrazionale»37.

1.1.4 Rousseau

Smentendo alcuni interpreti che la vorrebbero vicina a posizioni rousseauiane,38

Hannah Arendt scorge nella democrazia plebiscitaria e nazionalistica del filosofo ginevrino un iperpoliticismo che tradisce l’essenza del politico. Se Hobbes lasciava sussistere, almeno nel privato, una libertà di carattere negativo, e se nel suo appellarsi al consenso rimaneva traccia di pluralità, Rousseau porterebbe avanti una battaglia contro tutto ciò che all’Uno non si lascia ridurre. Le esigenze di moralità e di trasparenza che caratterizzerebbero la filosofia di Rousseau, nell’interpretazione di

36 Cfr. S. Forti, Vita della mente e tempo della polis. Hannah Arendt tra filosofia e politica, pp. 165-166.

37 H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, cit. p. 223.

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Arendt esprimono piuttosto i turbamenti di un’anima che rifugge dal mondo e dalla realtà39. Secondo l’autrice, i due momenti che segnano la nascita del soggetto

moderno, l’evasione dal mondo esterno ed il rifugio nell’interiorità, con Rousseau si trasformano in una apologia della solitudine. «Come se la realtà esistesse soltanto nel profondo dell’io, dove sono solo con me stesso»40. Da qui l’assillo per

quell’autenticità che porta a considerare come un ostacolo tutto quello che ha a che fare con il mondo esterno. Secondo la Arendt, tale conflittualità risulterebbe nelle contrapposizioni che attraversano l’intera opera rousseauiana, prima fra tutte l’opposizione tra natura e società, dove la natura e il vero Essere e la società l’apparenza ingannevole. Hobbes ha costruito il Leviatano sul sentimento della paura e su una ragione calcolante, mentre Rousseau ha introdotto nella teoria politica i conflitti della propria anima, definiti da Arendt i conflitti della volontà. La facoltà del volere è ciò che definisce la persona in quanto tale.

Il dispositivo che mette in moto la riflessione politica di Rousseau è innescato dall’alienazione. Nel pensiero rousseauiano, precisa Arendt, l’individuo cessa di essere alienato nel momento in cui non vive più una vita inautentica, ovvero una vita condotta nelle opinioni altrui e lontano da se stessi. Per riappropriarsi dell’autenticità ci sono due modi: o vivendo come se si fosse soli sulla terra, o consegnandosi interamente alla comunità, che deve trasformare se stessa se vuole porre rimedio

39 Cfr. H. Arendt, From Machiavelli to Marx, p. 023488.

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all’alienazione. L’autrice mette in luce il fatto che con Rousseau la politica diventi centrale nella storia della filosofia politica, in quanto ad essa viene assegnato il compito di salvare l’individuo dalla perdizione. L’individuo riesce a superare gli egoismi particolari soltanto nell’appartenenza ad un corpo politico sano. Il contratto sociale è, dunque, prima di ogni altra cosa un contratto tra il singolo come essere particolare e il singolo come essere universale41.

Secondo l’analisi arendtiana del pensiero di Rousseau, la politica elimina l’alienazione del singolo perché costringe ad un’identificazione totale con un corpo politico, nel quale si annullano differenze e distinzioni. In Rousseau, quindi, non c’è nessun ribaltamento della teoria hobbesiana, in quanto la volontà generale non restituisce ai sudditi la libertà di agire. L’identità tra la volontà generale e la sovranità popolare non è altro che la radicalizzazione della riduzione della pluralità all’unità messa in atto da Hobbes42. In Rousseau non vi è il desiderio di un bisogno di sicurezza che porta a fuggire l’instabilità del futuro nell’ordine instaurato dal sovrano, ma c’è la necessità di un’unanimità tale da far sì che la volontà generale possa agire indisturbata. «La volontà generale di Rousseau è ancora questa volontà divina a cui basta volere per produrre una legge»43. Per Arendt questa volontà generale rousseauiana altro non è che la proiezione dell’idea di un uomo che si

comporta seguendo soltanto la sua volontà, incurante del mondo che lo circonda.

41 Cfr. S. Forti Vita della mente e tempo della polis. Hannah Arendt tra filosofia e politica, pp. 171-172.

42 Cfr. H. Arendt, Che cos’è la libertà? In Tra passato e futuro

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La volontà generale è volontà di unità che lotta contro la pluralità, presupposti sui quali per l’autrice è assurdo fondare lo spazio pubblico.

In Che cos’è la libertà?, Arendt scrive: «In senso politico, l’identificazione di libertà e sovranità è forse la conseguenza più deleteria dell’equazione operata dalla filosofia tra libertà e libero arbitrio. Infatti il suo risultato è: o la negazione della libertà umana (nel caso si concluda che, comunque si vogliano definire, gli uomini non sono mai sovrani), o la convinzione che la libertà di un uomo, di un gruppo, di una struttura politica possa essere ottenuta solo a spese della libertà di tutti gli altri. Nei termini di cui dispone la filosofia tradizionale è ben arduo comprendere come possano

coesistere libertà e non sovranità. […] La famosa sovranità delle società politiche non è mai stata altro che un’illusione, che per di più può reggersi solo grazie agli

strumenti della violenza, cioè con mezzi di per sé extrapolitici». Per questo, «ove desiderino la sovranità gli uomini devono soggiacere all’oppressione della volontà; la volontà individuale con cui io costringo me stesso, o la volontà comune di un gruppo organizzato. Se gli uomini desiderano essere liberi, dovranno rinunciare proprio alla sovranità»44.

La maniera in cui Rousseau è portato a descrivere la formazione di questa unità politica, è sintomo del fatto che la volontà generale del corpo sovrano escluda la libertà politica. Dalle pagine di Sulla rivoluzione, Arendt suggerisce che la volontà

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unitaria si produce in virtù della contrapposizione amico/nemico, e non dall’accordo tra le diverse parti. Solo in presenza di un nemico le parti concordi possono unirsi e formare la nazione.

Una volta che è stata raggiunta, come si può mantenere inalterata la volontà generale? Nel cercare di dare una risposta a questa domanda, Hannah Arendt conclude che l’aspetto «più totalitario »di Rousseau si può rilevare nella sua ricerca della maniera in cui poter mantenere inalterata nel tempo la volontà generale. 45Il problema si risolve trovando il modo di tradurre nella pratica quotidiana l’antitesi amico-nemico. La soluzione fu che tale nemico esisteva nel cittadino stesso, nella sua volontà e nel suo interesse particolare. L’unità è garantita fino a quando ciascuno interiorizza sia il nemico comune interno, sia l’interesse generale che questo nemico ha prodotto: per diventare una docile parte del tutto, il singolo deve portare avanti una costante ribellione contro se stesso46. La vera natura del contratto sociale è dunque una relazione di inimicizia che presuppone la vittoria dell’uno e la sconfitta dell’altro. Soltanto tenendo a sotto controllo la volontà di dominio e di esclusione degli io in contrasto tra loro si può sperare di prevenire le minacce al corpo politico.

Con Rousseau, molto più che con Hobbes, verrebbe allo scoperto la pericolosità del progetto politico moderno: fondare la politica sulla facoltà del volere, ovvero

45 Cfr. S. Forti, op. cit., p. 176.

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identificare il potere con la sovranità47. La modalità con cui l’identità rousseauiana prende corpo inaugura l’incessante ricerca del nemico da abbattere che caratterizzerà tutti i processi rivoluzionari moderni. Il suo esito non può essere che il Terrore, il quale fa il suo ingresso sulla scena nella Rivoluzione francese. Si viola, così, il divieto di diventare di questo mondo che la filosofia si era autoimposta.

1.1.5 Hegel

L’interpretazione arendtiana della filosofia di Hegel48 si allontana da quelle letture

che hanno accusato il filosofo tedesco di essere «il dittatore filosofico della Germania prussiana».49 Quello che interessa ad Hannah Arendt è individuare i motivi che portano Hegel alla formulazione di una filosofia della storia. Secondo Arendt la svolta segnata dal pensiero del filosofo tedesco è determinata dall’intento di comprendere la portata epocale della Rivoluzione. Nel saggio Sulla rivoluzione si legge: «Teoreticamente, la conseguenza di più vasta portata della Rivoluzione francese è stata la nascita del moderno concetto di storia nella filosofia di Hegel. L’idea veramente rivoluzionaria di Hegel è stata che il vecchio assoluto dei filosofi si

47 Ivi, p.177.

48 Per le interpretazioni di Arendt della filosofia di Hegel si vedano: H. Arendt, Philosophy and Politics: What is Political

Philosophy?, conferenza alla Notre Dame University, 1954. Testo consultabile online all’indirizzo:

https://is.cuni.cz/studium/predmety/index.php?do=download&did=64535&kod=AFS100624; H. Arendt, From

Machiavelli to Marx, testo di un corso tenuto alla Cornell University, Ithaca, NY, 1965. Testo consultabile online

all’indirizzo: http://memory.loc.gov/ammem/arendthtml/mharendtFolder04.html; H. Arendt, Il concetto della storia, in Tra passato e futuro, Garzanti, 1970; H. Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, 1963.

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rivelò nel regno degli affari umani, cioè, proprio in quel dominio di esperienze umane che i filosofi all'unanimità avevano escluso come origine o luogo di nascita di campioni assoluti».50 La Rivoluzione, dunque, segna la fisionomia sia dell’aspetto più politico della filosofia di Hegel, sia del suo profilo più teoretico. Con Hegel il regno delle cose umane, che sin da Platone era stato oggetto del disprezzo della metafisica, ottiene la stessa dignità ontologica attribuita per millenni dai «filosofi di professione» all’Essere trascendente, universale ed eterno. 51 La Rivoluzione aveva

avuto il merito di mostrare che anche gli oggetti del pensiero, come le idee di uguaglianza e di libertà, potevano abbandonare il regno dell’astrazione e della contemplazione per realizzarsi nella storia. La Rivoluzione Francese generò una svolta nel pensiero moderno, mutò «il pallido aspetto del pensiero per quasi un secolo. I filosofi, un tipo umano notoriamente malinconico, divennero allegri ed ottimisti: ora credevano nel futuro e potevano lasciare agli storici le annose lamentazioni sul corso del mondo. […] i filosofi furono convertiti alla fede nel progresso non della conoscenza soltanto, ma anche degli affari umani in generale».52

Per Hegel la Rivoluzione francese è stata un punto di svolta, un evento storico di portata mondiale perché conteneva i semi per il futuro. Arendt, a questo punto si chiede: chi è il soggetto della storia? Sicuramente non gli uomini della Rivoluzione:

50 H. Arendt, Sulla rivoluzione, p. 52

51 Cfr. S. Forti, op., pp. 180-181.

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essi certamente non avevano in mente la storia del mondo53, perché quest’ultima ha senso solo se: «Qualcos’altro risulta dalle azioni degli uomini rispetto a quello che intendono e che ottengono, qualcos’altro rispetto a quello che conoscono e che vogliono. Realizzano i loro interessi; ma qualcos’altro, non presente nella coscienza e nelle intenzioni degli attori, si realizza. Per fare un esempio, un uomo può appiccare un incendio alla casa di un altro per vendetta. Quello che segue non è stato previsto e si sviluppa una vasta conflagrazione. Questo risultato non era né parte del primo atto né nell’intenzione di chi lo ha commesso. Questo esempio dimostra meramente che nell’azione immediata può accadere dell’altro rispetto a quello previsto dall’attore».54

Scrive ancora Arendt: «In Hegel è lo Spirito Assoluto che rivela se stesso nel processo, ed è questo che il filosofo, alla fine della sua rivelazione, può capire. La rivelazione dello Spirito Assoluto deve raggiungere un fine (la storia in Hegel è come un fine; il processo non è infinito); non l’uomo, ma lo Spirito Assoluto è finalmente rivelato e la grandezza dell’uomo è realizzata nella misura in cui è finalmente in grado di capire».55 Dietro a quel richiamo all’Assoluto l’autrice distingue la volontà

del filosofo di comprendere il presente, la volontà di fare in modo che il pensiero si appropri di ciò che è altro da sé. Grazie alla Rivoluzione del 1789 Hegel può raccontare il viaggio dello Spirito nel mondo: il punto di partenza in Asia, il

53 H. Arendt, Lectures on Kant’s Political Philosophy, Edited with an Interpretive Essay by Ronald Beiner, The University of Chicago Press, 1992, pp. 56-57 (traduzione mia).

54 G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 25.

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soggiorno presso la Grecia classica, il cambiamento di rotta del Cristianesimo, la meta finale raggiunta con la Rivoluzione francese. 56

Il fatto che il fervore rivoluzionario del periodo di Tubinga si spenga per lasciare il posto ad una critica aspra della Rivoluzione, poco importa. Arendt non prende in considerazione il fatto che nella Fenomenologia dello spirito della Rivoluzione si dica che non abbia portato a compimento la dialettica dello spirito e che la libertà si sia manifestata solo in forma astratta, negativa e distruttiva: come «furia del dileguare».57 Per Hannah Arendt è rimarchevole il fatto che dall’inventarsi dell’Idea

nella Rivoluzione Hegel inferisce che la storia contiene in sé l’Idea. Ed è qui che si realizza la rottura con la tradizione: se la filosofia si realizza nelle vicende politiche, allora viene a mancare in maniera definitiva la separazione tra teoria e praxis. La Rivoluzione può essere definita come «il sorgere del sole. Tutti gli uomini pensanti hanno partecipato all’esultanza di questa epoca. Un’emozione sublime la faceva da padrone, un entusiasmo dello spirito come se solo ora fosse avvenuta una conciliazione reale tra il divino e il mondo».58 Nella Rivoluzione si è verificata una

conciliazione tra il divino e gli affari degli uomini. In questa fase l’Idea è diventata

56 Cfr. S. Forti, op. cit. pp. 182-184

57 G. W. F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, Einaudi, 2008, p. 50.

58 H. Arendt, From Machiavelli to Marx, paper di un corso tenuto alla Cornell University, Ithaca, New York, 1965, cit. p. 023496. Testo disponibile online all’indirizzo:

http://memory.loc.gov/cgi-bin/ampage?collId=mharendt&fileName=04/040380/040380page.db&recNum=0&itemLink=/ammem/arendthtml/mh arendtFolderP04.html&linkText=7 (traduzione mia).

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realtà, «non nella natura o nelle opere di Dio»,59 ma nella storia, tra gli uomini che agiscono. La storia, a questo punto, non è più un miscuglio di accidenti e di violenza da cui i filosofi si sono sempre tenuti lontani. La verità appare adesso nella storia, che, rispetto a queste assunzioni, non è qualcosa di statico, ma è un processo dinamico, è uno sviluppo continuo. «Se la storia è lo sviluppo dell’idea (lo Spirito del mondo), allora la nostra logica, deve seguire questo sviluppo perdendo la staticità».60

Arendt scrive che rispetto alla visione di Hegel l’errore della filosofia che lo aveva preceduto sta nell’aver ricercato la verità al di là del regno degli affari umani. 61

Questo “al di là” può essere la natura, o il cielo delle idee, o la religione di Dio. In tutte queste istanze, dunque, «la verità giace al di fuori di quello che egli chiama “sittliche Welt”, il mondo etico, il regno degli affari umani». 62 Questo approccio,

però, comporta una doppia alienazione: «la verità si trova in un regno altro e il mondo presente, quello dove gli uomini vivono, è privato del suo significato. Contro questa spiegazione, egli ha proposto di mettere la filosofia “nel mondo reale” e la sua più alta funzione, “la comprensione del presente”, contro l’aldilà, ipoteticamente presente dove Dio solo sa».63 Perché si possa trovare un significato nel mondo, deve

avvenire la riconciliazione della mente dell’uomo, che richiede di confrontarsi con

59 Ibidem

60 Ibidem.

61 Cfr. Philosophy and Politics. What is Political Philosphy?, op. cit. p. 024459.

62 Ibidem

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una realtà che ne è apparentemente priva.64 L’unico modo di fare ciò è quello di stravolgere la filosofia, di pensarla diversamente da come si è fatto fino a questo momento. L’errore di base, scrive Arendt, è stato quello di pensare alla verità come a qualcosa di statico al di fuori della portata della mente umana. La nostra logica si basa sull’assioma di non contraddizione: A non può essere non A. Tuttavia, questo è vero solo se assumiamo che la verità stia fuori dal mondo reale dove ogni cosa subisce un cambiamento costante. La verità, continua Arendt, deve essere pensata rispetto ai fatti e non come verità razionale. In questa maniera, «la verità non è più statica». 65 La spiegazione del perché sia inopportuno definire statica la verità, è data

dal seguente esempio: «La frase “è mezzogiorno”, è vera solo nel momento in cui è effettivamente mezzogiorno. La frase diventa falsa nel momento in cui viene pronunciata in un’altra ora del giorno. In altre parole, A, nel mondo reale, può diventare non A».66 La verità, allora, è relativa ad un certo momento e ad un certo periodo e non può definirsi immutabile e universale. Forti scrive che per Hannah Arendt con la filosofia di Hegel sembrerebbe che la dialettica si riaprisse «a quella saggezza tragica che sa che l’unica permanenza dell’Essere è il suo Divenire».67

64 Cfr. Ibidem

65 Ibidem (traduzione mia).

66 Ivi, pp. 024459-024460 (traduzione mia).

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La lettura che Arendt fa di Hegel privilegia l’anti sistematicità del filosofo tedesco. Insiste sulla portata teorica della messa in discussione della finitudine e della temporalità. Tuttavia, questi elementi originari finiscono per perire dentro un sistema che rifiuta le contraddizioni aumentando il livello di logicità necessaria a cui le filosofie precedenti ci avevano abituato.68

Nella sezione de La vita della mente dedicata al Volere, Arendt si dedica ai testi hegeliani che hanno come oggetto il tempo, analizzando il problema della pensiero del filosofo tedesco rispetto alla temporalità: il futuro. La speculazione è impostata rispetto al rapporto tra l’io che pensa e l’io che vuole. Lo scopo di queste pagine è quello di verificare se il Hegel riesca o meno nella demolizione della concezione metafisico-tradizionale del tempo. L’indagine ha come punto di partenza l’argomentazione di Alexandre Koyré69, il quale scrive che la «maggiore originalità

di Hegel risiede nella sua insistenza sul futuro, nel primato assegnato al futuro sul passato».70 Nonostante la fiducia nel progresso, Hegel affermava anche che la

comprensione dell’esistente è compito della filosofia71, «poiché ciò che esiste è

ragione».72 Allora, il primato del futuro sul passato diventa un’affermazione che crea

68 Cfr. H. Arendt, Vita della mente, pp. 364-365.

69 Arendt ha come punto di riferimento A. Koyré, Hegel à Jena, in Etudes d’historie de la penseé philosophique, Paris, 1961,

70 A. Koyré, op. cit., p. 177. Citato da Arendt in La vita della mente, p. 355.

71 Cfr. H. Arendt, op. cit., p. 355

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