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Il potere come carattere potenziale dello spazio pubblico: decostruzione dei τοποι classici e critica dei concetti politic

tradizionali

Le potenzialità dello spazio pubblico sono espresse al meglio nella nozione di potere. Affidandosi ancora una volta all’etimologia della parola, Arendt scrive che la parola stessa “potere” indica il suo carattere “potenziale”, come si può notare

dall’equivalente greco dynamis e da quello latino potentia.195

Il potere mantiene in vita la sfera pubblica, «lo spazio potenziale dell’apparire fra uomini che agiscono e parlano. […] Il potere è sempre un potere potenziale e non un’entità immutabile, misurabile e indubbia come la forza o la potenza materiale».196

Come l’azione è un atto imprevedibile, allo stesso modo anche il potere che da essa

195Cfr. H. Arendt, Vita activa, p. 147

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deriva non ha nulla di precedentemente definito, non è possibile attribuirgli alcuna caratteristica prima che si compia.

Questa accezione di potere permette ad Arendt di decostruire i concetti politici tradizionali, di rilevarne le contraddizioni. L’obiettivo è quello di smascherare il luogo comune che ha giocato un ruolo importante in tutta la tradizione filosofica e politica: la convinzione secondo cui dove c’è politica vige un rapporto asimmetrico tra chi comanda e chi obbedisce197.

Il tentativo di smantellamento del luogo comune, ha come effetto quello di non ritrovare nei testi dell’autrice le distinzioni canoniche del concetto di potere. Vengono meno i topoi della tradizione filosofica e si fanno spazio i nuovi concetti elaborati alla luce degli eventi contemporanei. Il potere di cui Arendt parla è sempre quello politico, ogni altro tipo di potere, sia esso economico o ideologico, è partecipante del politico e quindi della sfera pubblica. Nel momento in cui la vita privata ha calcato la scena dello spazio pubblico, un elemento fondamentale di essa, il lavoro, è entrato a far parte dello spazio politico: l’economia, l’oikos, era diventata una parte imprescindibile della politica. Nel paper Karl Marx and the Tradition of

Western Political Thought, parlando dell’interpretazione che Marx diede al lavoro,

Arendt scrive: «Il fatto è che la sua interpretazione, o piuttosto la sua glorificazione del lavoro, nel seguire il corso degli eventi, non poteva fallire nell’introdurre un

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definitivo rovesciamento dei valori politici. Non si trattava dell’emancipazione politica della classe lavoratrice, ma piuttosto del fatto che da ora in avanti il lavoro come attività umana non sarebbe più appartenuto al regno della vita privata: diventò un fatto politico».198 Il potere economico non sarebbe diventato un discorso a sé se

non fosse andato perduto il significato originario di politica. Dopo Aristotele il problema del potere è diventato il problema politico decisivo e

dunque si è cominciato a definire il regno della vita umana non come il vivere insieme, ma nel capire chi fossero i servi e chi i padroni. Il rapporto asimmetrico tra chi comanda e chi obbedisce. Cessa così di essere la caratteristica di una condizione prepolitica e diventa il centro di discussione dello spazio pubblico politico per eccellenza.199 «Il potere sovrano e l’aristocrazia adesso diventano monarchia e

oligarchia. Nella monarchia chi detiene il potere è un solo uomo, nell’oligarchia un gruppo ristretto di uomini. Platone pensava che queste forme di governo fossero delle perversioni, non vere politeiai, ma nate dalla sommossa e dipendenti dalla violenza. L’uso della violenza dequalifica ogni forma di governo, perché, secondo l’antica concezione, la violenza inizia dove finisce la polis»200. La concezione di potere che Arendt vuole opporre a quella che ha dominato il pensiero politico e filosofico fino ad ora è quella di un potere che non domina, un potere che non permette che le leggi

198 H. Arendt, Karl Marx and the Tradition of Western Political Thought, long draft, 1953, in Social Research Journal, Vol. 69, N. 2, «Hannah Arendt’s “The Origins of Totalitarisnism”: Fifty Years Later», Summer 2002, p. 284 (traduzione mia).

199 Cfr. Ibidem, p. 303.

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alle quali i cittadini hanno deciso volontariamente di sottostare non vengano trasgredite. Per questi motivi, nelle opere dell’autrice tedesca non si trova la tripartizione classica delle forme di potere e non sono presenti le trattazioni canoniche di esso. Il venire meno di queste tradizionali distinzioni concettuali non è riconducibile ad una confusione lessicale. È piuttosto da ricondurre al fatto che, secondo Arendt, nei modi di tracciare i confini tra un tipo di potere ed un altro è implicito il fondamento secondo cui il fine della sua azione sia sempre quello di piegare qualcuno alla volontà di un altro201. L’intento dell’autrice tedesca è quello di

circoscrivere la peculiarità del potere politico rispetto a quelle confusioni concettuali che lo hanno identificato col comando e con l’obbedienza. Da Aristotele in avanti, «la legge e il potere sono diventati i due pilastri concettuali per definire tutte le forme di governo. Queste definizioni non sono cambiate nel tempo trascorso tra Aristotele e Montesquieu. Dal momento in cui la violenza nella sua forma arbitraria è diventata un fattore inammissibile, la domanda principale adesso diventa se il dominio sugli altri sia conforme alle regole esistenti, dal momento che la domanda riguardo a come molti siano in possesso del potere è diventata meno importante»202. Arendt sottolinea come quello di concepire la legge sia come estrinsecazione del potere politico e sia come un confine per arginare il potere, sia stata una costante nel pensiero di molti filosofi politici. La maniera in cui il concetto di potere è stato concepito deve essere

201 Cfr. S. Forti. P. 310.

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confutata, perché definirlo come uno strumento che dà forza alla legge significa farlo coincidere con la violenza. Ancora una volta, nonostante il suo tentativo di distruggere i topos tradizionali e la volontà di non voler creare un nuovo sistema filosofico, ricorrono negli scritti di Arendt concetti che sono rimasti costanti durante tutta la sua produzione intellettuale; in questo caso, viene in mente l’opposizione alla concezione mezzi-fini: se il potere arriva a coincidere con la violenza, quest’ultima

finisce per essere un mezzo al servizio di un determinato fine. Nel paper Karl Marx and the Tradition, si anticipano le considerazioni che verranno

sviluppate più ampiamente in Vita activa e nel testo Sulla rivoluzione, per poi essere definitivamente sistematizzate nel saggio Sulla violenza. Sta qui nascendo la concezione di potere come potenzialità , come qualcosa che esiste solo se è in atto e che si compie solo con lo stare insieme. Con queste premesse, diventa inutile cercare una giustificazione del potere, perché esso, inteso come possibilità di essere insieme non necessita di trovare fuori di sé un fine oggettivo: «Nell’ambito politico un fine oggettivo chiaramente definibile non esiste. Perché se il vivere insieme ha uno scopo definito allora deve giungere ad un fine. Ma il vivere insieme non giunge mai alla fine e perciò non può avere un fine: un fine che organizzi e controlli i mezzi»203. Conclude Arendt, soltanto Montesquieu è riuscito a far rivivere il significato della

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parola dynamis: egli è stato il solo «ad aver avuto un concetto di potere estraneo alla tradizionale categoria mezzi-fini»204.

Violenza e forza, potere e autorità: le conseguenze del non aver