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Nell’Epilogo di La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, mentre discute la questione delle competenze del Tribunale di Gerusalemme in riferimento al principio territoriale, Arendt scrive: «Israele avrebbe potuto arrogarsi la giurisdizione territoriale senza difficoltà, sol che avesse spiegato che il “territorio”, come lo intende la legge, è un concetto politico e giuridico, e non semplicemente geografico. Quel termine non si riferisce soltanto a un pezzo di terra quanto allo spazio che c’è tra individui che formano un gruppo, cioè individui legati uno all’altro (ma al tempo stesso separati e protetti) da molte cose che hanno in comune: lingua, religione, storia, usanze, leggi. Proprio queste cose in comune sono lo spazio in cui i vari membri del gruppo hanno rapporti e contatti tra di loro»152. Lo spazio, dunque, non è

soltanto un territorio fisicamente stabilito. A legare gli individui non è solo un concreto principio di territorialità, ma soprattutto il terreno non fisico della cultura che hanno in comune. Scrive Simona Forti, «più che identificarsi con ambiti concreti, lo spazio pubblico arendtiano è piuttosto la condizione di possibilità dell’essere

insieme; più che una forma politica determinata, è il trascendente della politica»153.

152 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 1996, p. 269.

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Per comprendere meglio la riflessione arendtiana sullo spazio, è opportuno soffermarsi sull’aggettivo che gli affianca: pubblico. L’aggettivo è così spiegato: «Il termine “pubblico” denota due fenomeni strettamente correlati ma non del tutto identici. Esso significa, in primo luogo, che ogni cosa che appare in pubblico può essere vista e udita da tutti e ha la più ampia pubblicità possibile. […] In secondo luogo, il termine “pubblico” significa il mondo stesso, in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi vi occupa privatamente. Questo mondo, tuttavia, non si identifica con la terra o con la natura, come spazio limitato che fa da sfondo al movimento degli uomini e alle condizioni generali della vita organica. Esso è connesso, piuttosto, con l’elemento artificiale, il prodotto delle mani dell’uomo, come pure con i rapporti tra coloro che abitano insieme il mondo fatto dall’uomo.

[…] Il mondo mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo»154.

Per spiegare il modo in cui il mondo mette in relazione, Arendt si serve dell’immagine di un tavolo attorno al quale è riunito un gruppo di persone: «Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno»155 . Il mondo, come il tavolo, è garanzia di giusta distanza tra i suoi abitanti come tra i suoi commensali, rappresenta il luogo in cui condividere senza confondere. Questo spazio sviluppa la pluralità senza porre in essere una condizione gerarchica e

154 H. Arendt, Vita activa, p. 37-39.

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verticale. È una situazione ideale in cui si evita il ricompattarsi dei molti nell’Uno, con la conseguente eliminazione della specificità di ognuno. Per Arendt c’è vera politica quando esiste, all’interno di un ambito comune, uno spazio, un intervallo, una differenziazione, che renda possibili le differenze, impedendo di cadere uno addosso all’altro e finendo per formare una massa amorfa, perché: «La sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda»156. L’esistenza del mondo come fenomeno politico si fonda sulla presenza della sfera pubblica e «la susseguente trasformazione del mondo in una comunità di cose che raduna gli uomini e li pone in relazione gli uni con gli altri. […] Se il mondo deve contenere uno spazio pubblico, non può essere costruito per una generazione e pianificato per una sola vita; deve trascendere l’arco della vita degli uomini mortali».157 Il mondo in cui abbiamo la possibilità di agire e di

mostrarci non è lo spazio che abbiamo in comune solo con coloro che vivono con noi nel presente, ma anche con coloro che hanno vissuto prima di noi e con coloro che vivranno dopo. Il ciclo delle generazioni e, ancora una volta, la mera scansione biologica del tempo, può essere superato solo se il mondo continua ad apparire in pubblico.

Per Arendt la politica coincide col gioco reciproco del vedere e dell’essere visti, del

mostrarsi agli altri e dell’essere riconosciuti per la maniera in cui ci si espone.

156 H. Arendt, Vita activa, op. cit. p. 39.

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A proposito dell’apparenza, si legge in La vita della mente: «Tutte le creature munite di sensi hanno in comune l’apparenza in quanto tale; in primo luogo, un mondo che appare e, ancor più, il fatto forse anche più importante che esse stesse sono creature che appaiono e scompaiono, che è sempre esistito un mondo prima del loro arrivo e sempre esisterà un mondo dopo la loro dipartita»158. L’apparire delle creature

viventi, tuttavia, non è un apparire statico e inattivo; i viventi che appaiono sulla scena del mondo sono vivi, ed «essere vivi significa essere posseduti da un impulso all’autoesibizione che corrisponde in ognuno al dato di fatto del proprio apparire»159.

La presenza degli altri è fondamentale per mostrarsi, in quanto «allo stesso modo in cui l’attore dipende per il suo ingresso in scena dal palcoscenico, dalla compagnia e dagli spettatori, così ogni essere vivente dipende da un mondo che appare quale luogo per la propria apparizione, dai suoi simili per recitare la sua parte con loro, dagli spettatori perché la sua esistenza sia ammessa e riconosciuta»160.

La funzione di ognuno è importante e non esistono gerarchie: nello spazio

dell’apparire ognuno svolge la propria funzione senza nuocere all’altro. È opportuno sottolineare che la considerazione arendtiana della relazione individuo-

spazio pubblico, in termini politici presuppone la critica heideggeriana alla metafisica

158 H. Arendt, La vita della mente, p. 101.

159 Ibidem.

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della soggettività161 . Per Arendt, infatti, l’io non è strutturato prima di mostrarsi sul palcoscenico del mondo. Non c’è nulla di predeterminato, di prestabilito: la determinazione avverrà solo nel momento in cui, dopo essersi mostrato, avrà tratto

dagli altri la conferma della sua realtà e della sua individualità. Tuttavia, estraneo al discorso heideggeriano è il pathos che secondo la pensatrice

tedesca manifesta l’azione nel mostrare la sua supremazia sul terreno dell’esistenza. Scrive Forti: «Solo sulla scena pubblica gli attori possono consapevolmente e liberamente scegliere quale ruolo giocare. Solo la scena pubblica consente, ed esige ad un tempo, che i suoi partecipanti si presentino protetti da una maschera che trattiene , al di qua del gioco politico, i bisogni, le passioni, gli interessi. Insomma, tutto ciò che per la Arendt è ascrivibile al dominio del privato»162. Lascito del

pensiero greco e concetto ricorrente nella produzione arendtiana, la trattazione della sfera privata si rivela ancora una volta un ostacolo per lo spazio politico. Il sorgere della polis significò per l’uomo la possibilità di ricevere una seconda vita, accanto a quella privata. Nella sfera domestica l’uomo era costretto a vivere insieme agli altri perché spinto dai bisogni e dalle necessità. Nella città-stato, invece, era un essere libero: la polis era la sfera della libertà. Nonostante il carattere negativo attribuitele, però, la sfera domestica doveva restare un punto fermo, un tassello che se fatto cadere avrebbe causato un effetto domino, perché «il controllo delle necessità della vita nella

161 Cfr. S. Forti, p. 289

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sfera domestica era evidentemente il presupposto della libertà della polis»163. Tenere separato il privato dal politico, restava per Arendt una necessità da non sottovalutare per la costruzione della società, un rimpianto che la società moderna avrebbe dovuto avere nel momento in cui ha permesso che vita domestica e vita pubblica si fondessero. Il rimpianto per la perdita di questa separazione importante e necessaria tra pubblico e privato prevale soprattutto nelle pagine di Vita activa, dove, nel capitolo dedicato allo spazio pubblico e alla sfera privata si legge: «Ogni volta che parliamo di cose che possono essere sperimentate solo in privato o nell’intimità, le trasponiamo in una sfera in cui assumeranno un tipo di realtà che, nonostante la loro intensità, non avevano mai potuto avere prima. La presenza di altri, che vedono ciò che vediamo e odono ciò che udiamo, ci assicura della realtà del mondo e di noi stessi, e mentre l’intimità di una vita privata completamente sviluppata, quale non si era conosciuta prima dell’avvento dell’era moderna e del concomitante declino del dominio pubblico, intensificherà sempre più e arricchirà l’intera scala delle emozioni soggettive e dei sentimenti privati, questa intensificazione si attuerà sempre più a danno della certezza della realtà del mondo e degli uomini»164. Ci sono situazioni che non possono e non devono apparire perché appartengono ad un’altra sfera della vita degli esseri umani, ad uno spazio da dove è necessario che non escano per non compromettere gli spazi circostanti. Ancora una volta, per spiegare al meglio le sue

163 H. Arendt, Vita activa, p. 23.

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riflessioni, Arendt fa uso di un’immagine, in questo caso del dolore e del suo rapporto con la soggettività. A tal proposito scrive: «Certamente, la sensazione più intensa che conosciamo, intensa al punto di cancellare tutte le altre esperienze, cioè l’esperienza di un intenso dolore fisico, è allo stesso tempo la più privata e la più comunicabile di tutte. Non solo è forse la sola esperienza che non siamo capaci di trasformare per renderla passibile di apparire in pubblico, ma essa in realtà ci priva delle nostre facoltà di rapporto con la realtà a tal punto che possiamo dimenticarla più presto e più facilmente di qualsiasi altra. […] Il dolore, in altre parole, esperienza che segna la linea di demarcazione tra la vita come “essere tra gli uomini” e la morte, è così soggettivo e lontano dal mondo delle cose e degli uomini che non può assolutamente assumere la capacità di apparire»165. Il privato deve restare tale perché

non possiede le caratteristiche per calcare la scena del mondo e mostrarsi agli altri: il dolore, come qualunque altra condizione soggettiva, non può far parte dello spazio pubblico e quindi della politica, non può far parte di un ambito in cui le sue principali caratteristiche verrebbero contraddette. La sacralità di un certo tipo di zona privata si lega alla sacralità delle cose nascoste, «cioè alla nascita e alla morte»166. La demarcazione che gli antichi avevano posto tra pubblico e privato è venuta meno a partire dalla modernità, quando «l’emergere della società dall’oscura interiorità della casa alla luce della sfera pubblica ha non solo confuso l’antica demarcazione tra il

165 Ivi, pp. 37-38.

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privato e il politico, ma ha anche modificato, fino a renderlo irriconoscibile, il significato dei due termini»167. L’errore della modernità, secondo Arendt, è stato far

nascere la società a partire dalla casa, dal luogo che doveva restare privato e distaccato dalla politica; questo ingresso di corpi estranei nello spazio pubblico ne ha compromesso la stabilità. La distinzione dicotomica tra pubblico e privato consente all’autrice di denunciare l’affermarsi della moderna società a partire dalla sovrapposizione delle due sfere. La ripresa dell’antica demarcazione fra oikos e

agora le consente una preliminare delimitazione del privato. All’interno della

comunità domestica, il cittadino greco esplicava le necessità delle propria vita, preoccupandosi solo del suo benessere materiale. Lungi dall’essere il luogo della libertà, la casa si identifica col significato originario del termine privato, idion,”ciò che è proprio”, fuori dal mondo. Nel suo significato originario, allora, il termine privato è connesso alla privazione. Quello che manca agli individui nella sfera privata riguarda «le cose essenziali per una vita autenticamente umana: essere privati della realtà che ci deriva dall’essere visti e sentiti dagli altri, essere privati di un rapporto “oggettivo” con gli altri, quello che nasce dall’essere al tempo stesso in relazione con loro e separati da loro grazie alla mediazione di un mondo comune di cose, privati della possibilità di acquistare qualcosa di più duraturo della vita stessa»168. La

privazione implicita nel concetto di privato riguardava soprattutto l’assenza degli

167 Ivi, p. 28.

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altri. Per stessa ammissione dell’autrice, una critica importante a questo modo di concepire il pubblico può essere mossa sul piano dell’uguaglianza. A questo proposito ci si può domandare: che tipo di uguaglianza veniva garantita nella polis se la si riteneva un luogo per pochi? La libertà della minoranza che viveva nello spazio pubblico era garantita dalla presenza della sfera privata e della netta separazione di questa dalla polis? L’uguaglianza realizzata nella sfera politica aveva poco in comune con il nostro concetto di eguaglianza, perché «presupponeva che si vivesse con i propri pari, che si avesse a che fare solo con essi, e che esistessero degli “ineguali”

che, di fatto, erano sempre la maggioranza della popolazione di una città-stato»169.

Nella polis, dunque, si era uguali e sullo stesso piano perché si viveva con i propri simili e la presenza del privato, della casa, era fondamentale per garantire la presenza dello spazio pubblico. Per dirla con le parole di Arendt: «Ciò che impediva alla polis di violare la vita privata dei suoi cittadini e le faceva ritenere sacri i confini di ogni proprietà non era il rispetto per la proprietà privata come la intendiamo noi, ma il fatto che senza possedere una casa un uomo non poteva partecipare agli affari del mondo, perché in esso non aveva un luogo che fosse propriamente suo»170. Il controllo delle necessità della vita nella sfera domestica era il presupposto della libertà della polis. A questo punto si rende evidente l’importanza della proprietà privata e il fatto che essa, prima dell’età moderna non fosse solo la condizione per

169 Ivi, p. 24.

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essere ammessi alla sfera pubblica: «era molto più di questo. La sfera privata era simile all’altra, era il lato oscuro e nascosto della sfera pubblica, e mentre essere politico significava conseguire le più alte possibilità dell’esistenza umana, non avere un proprio posto privato significava non essere più umani»171. La sfera privata era il grado base dell’esistenza umana, il passo successivo, l’ingresso nello spazio pubblico, poteva essere effettuato solo da chi rispondeva a determinate condizioni nella vita della casa. Il fattore determinante per l’ammissione alla sfera pubblica, divenne la ricchezza privata, in quanto avrebbe fornito al suo possessore una base per accedere all’attività pubblica. L’individuo in possesso di queste caratteristiche non era dunque uno schiavo, perché «essere proprietario significa qui essere signore delle proprie necessità di vita e quindi potenzialmente essere una persona libera, libera di trascendere la propria vita e di entrare nel mondo comune a tutti»172. Pertanto, il

mondo privato acquista senso politico con la comparsa «di un simile mondo comune e tangibile, cioè con il sorgere della città-stato»173. Per prendersi cura delle più imminenti necessità della vita e rendere possibile (solo per alcuni) la vita pubblica, il mezzo più adatto era il lavoro. Tuttavia, i proprietari che sceglievano di accumulare ricchezze e quindi di ingrandire la proprietà invece di servirsene per calcare la scena

politica, sacrificavano la propria libertà e diventavano servi della necessità. Il privato, allora, serviva per assicurare la presenza della polis e diventava anche

171 H. Arendt, Vita activa, op. cit., p. 47.

172 Ivi, p. 48.

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sinonimo di luogo protetto, non solo di privazione, in quanto assicurava la sicurezza della sopravvivenza e provvedeva a quelle necessità di cui la vita non poteva fare a meno. La sacralità della vita privata è legata alla sacralità dell’inizio e della fine di essa, alla nascita e alla morte. A questo proposito, nascita e morte costituiscono il tratto non privativo della vita domestica perché questa sfera «deve rimanere nascosta al pubblico» in quanto «accoglie le cose nascoste agli occhi umani e impenetrabili alla coscienza umana. Essa è segreta perché l’uomo non sa dove va al momento in cui nasce e dove va quando muore»174. Secondo Arendt, infine, oltre alla proprietà e al

lavoro, rientra nella sfera privata anche quanto fa riferimento all’interiorità del soggetto: la dimensione affettiva e le norme e i valori della coscienza individuale. La proprietà privata è un luogo in cui rifugiarsi, le quattro mura di una casa costituiscono un luogo sicuro, un riparo dal mondo pubblico. Scrive l’autrice: «[...] le quattro mura della proprietà offrono il solo rifugio sicuro dal mondo pubblico comune, non solo da tutto ciò che avviene in esso ma anche dalla propria condizione in pubblico, dall’essere visti e sentiti. Una vita spesa interamente in pubblico, alla presenza degli altri, diventa, per così dire, superficiale»175. L’esistenza degli altri è importante per esprimere la propria unicità nel mondo e quindi per essere riconosciuti, ma non deve diventare una esistenza costante ed onnipresente da cui non ci possa essere possibilità di evadere .

174 Ivi, p. 46.

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Simona Forti nel suo saggio Vita della mente e tempo della polis, evidenzia come l’uso del termine “privato” in Hannah Arendt sia stato ritenuto per molto tempo dispregiativo176. Alla luce delle considerazioni precedenti, derivate dall’analisi dei testi, è facile confutare tali conclusioni critiche. Per rispondere ancora con le parole dell’autrice: «Nelle condizioni dell’epoca moderna, questa privazione di rapporti “oggettivi” con gli altri e di una realtà garantita attraverso di essi è diventato il fenomeno di massa della solitudine, dove ha assunto la sua forma più estrema e disumana. La ragione di questa esasperazione, sta nel fatto che la società di massa non solo distrugge la sfera pubblica, ma anche quella privata, priva gli uomini non solo del loro posto nel mondo ma anche della loro dimora privata, dove una volta si sentivano al riparo dal mondo e dove, in ogni caso, anche gli esclusi dal mondo potevano trovare un compenso sostitutivo nel calore del focolare e nella realtà limitata della vita di famiglia»177.

La dicotomia pubblico-privato di cui Arendt si serve, è utilizzata per interpretare il sociale, fenomeno caratterizzante l’epoca moderna, luogo in cui i due poli del regno umano perdono di significato perché si fondono tra loro. La società diventa a questo

176 Cfr. S. Forti, p. 298, nota 65. Tra i critici citati dall’autrice ci sono: H. f Pitkin, Justice: On Relating Private and Public, «Political Theory», IX, n. 3, 1981, pp.327-352; R. P. Wolff, Notes for a Materialist Analysis of Public and Private Realms, «Graduate Faculty Philosophy Journal», IX, 1982, PP. 135-150; F. Collin, Du privé et du public, «Les Cahiers du Grif», n. 33, 1986, pp. 47-68; S. D. Jacobitti, The Public, the Private, the Moral. Hannah Arendt and Political Morality, «International Political Science Review», XII, n. 4, 1991, pp. 281-294. G. Kateb in Hannah Arendt: Politics, Conscience, Evil, Oxford, Martin Robertson, 1983, ha affermato che nell’universo concettuale arendtiano «il termine privato esprime sempre disprezzo».

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punto un ibrido: «L’emergere della società dall’oscura interiorità della casa alla luce della sfera pubblica ha non solo confuso l’antica demarcazione tra il privato e il politico, ma ha anche modificato, fino a renderlo irriconoscibile, il significato dei due termini e la loro importanza per la vita dell’individuo e del cittadino»178. Il luogo da

cui la società si è generata ne ha provocato la sua instabilità, il suo emergere dalla sfera privata per poi entrare in quella pubblica ha compromesso l’uno e l’altro ambito.

Quando il privato è diventato pubblico, si è dato inizio ad un’inversione che ha permesso che la sfera privata diventasse il luogo della libertà e quella pubblica il luogo della necessità: «il luogo di un male inevitabile»179. La società a cui Arendt si riferisce è quasi sempre la società di massa, definita come uno pseudo-spazio

pubblico occupato dall’animal laborans, stretto nella morsa del ciclo produzione-