L’excursus sulla tradizione del pensiero filosofico e politico ha preparato il terreno per la discussione sui problemi di fondo della scienza politica contemporanea. Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso si è sviluppato un dibattito teso ad indicare l’incapacità della scienza politica contemporanea ad interrogarsi sui problemi di fondo dell’agire politico.111 Protagonisti di questo dibattito, oltre ad Hannah Arendt,
sono Eric Voegelin e Leo Strauss. Oggetto di questo dibattito è stata la riscoperta della filosofia pratica, messa da parte con la nascita della scienza politica moderna, e la rifondazione di criteri di orientamento del pensiero politico. Lo scopo non è rifondare scientificamente i giudizi di valore relativi al comportamento morale e politico; piuttosto ci si concentra sulla messa in discussione del linguaggio comune e di quello della scienza politica contemporanea, seguendo il quale pare naturale porre
110 S. Forti, op. cit., p. 204.
58
sullo stesso piano le scelte soggettive proprie dell’agire umano e gli oggetti e il metodo oggettivo della scienza. Per i tre autori in questione si tratta, dunque, di porre il problema politico in modo rigoroso senza che debba necessariamente essere ascritto ad uno schema di valori universalmente valido.112 Quello che preme denunciare è il modo normativo di risolvere il problema dell’ordine e dell’agire politico, un mod legato all’idea di un nesso tra teoria e prassi, dove una prassi buona non dipende né dalla virtù, né dall’esperienza, ma dalla capacità risolutiva della teoria. Ed è proprio da qui, dal rifiuto nell’applicare la costruttività artificiale della teoria ad un ambito mutevole come la politica, che Arendt muove la sua analisi del problema del potere totalitario. Essendo il totalitarismo non ascrivibile a nessuna categoria politica fino ad ora conosciuta, che cosa di esso ha fatto sì che diventasse una forma degenerata della tirannide? Quali sono i meccanismi divergenti rispetto alle forme politiche tradizionali?
Hannah Arendt affronta il problema nell’appendice a Le origini del totalitarismo,
Ideologia e terrore. Qui la pensatrice tedesca denuncia il modo normativo di trovare
una soluzione al problema dell’ordine e dell’agire politico e spiega i motivi per cui la logicità e la coerenza di una ideologia non sono applicabili alla realtà, la quale è oggetto di un mutamento continuo. La teoria apparentemente inappuntabile del discorso totalitario, deriva, appunto, dal processo logico che da esso si poteva sviluppare. Come ricorda Arendt, secondo Stalin, né l’idea né l’oratoria, ma
59
«l’irresistibile forza della logica soggiogava completamente l’uditorio» di Lenin. Gli obiettivi ideologici non risentivano delle interferenze derivanti dal mondo reale: conformemente alla freddezza del ragionamento, i diritti acquisiti non avevano più valore: «E’ nella natura della politica ideologica che il vero contenuto dell’ideologia (la lotta di classe e lo sfruttamento degli operai, il conflitto delle razze e la difesa dei popoli germanici), originariamente alla base dell’idea (la lotta d classe come legge della storia o la lotta delle razze come legge della natura), venga distrutto dalla logica con cui tale idea è attuata».113
Il presunto carattere scientifico delle ideologie e la confutazione di esso è il filo rosso che attraversa Ideologia e terrore fin dall’inizio. L’approccio scientifico che le ideologie esibiscono nei confronti di una realtà che credono governabile con i lineari strumenti della logica, è l’elemento principale che le ha rese utili per il dominio totalitario.
«La parola ideologia sembra implicare che un’idea possa divenire materia di studio di una scienza, come gli animali lo sono per la zoologia, e che il suffisso –logia non indichi altro che i logoi, le affermazioni scientifiche in proposito. Se ciò fosse vero, un’ideologia sarebbe in verità una pseudoscienza e una pseudofilosofia, infrangendo al tempo stesso le limitazioni della scienza e quelle della filosofia. […] Le idee degli ismi – la razza nel razzismo, Dio nel deismo, ecc. – non costituiscono mai la materia
60
delle ideologie e il suffisso –logia non indica mai semplicemente un insieme di affermazioni scientifiche. Un’ideologia è letteralmente quello che il suo nome sta ad indicare: è la logica di un’idea»114. La materia dell’ideologia è la storia e ad essa
viene applicata l’idea. Il difetto dell’applicazione dell’ideologia al reale sta nel fatto che essa segue il corso degli avvenimenti come se stesse seguendo la stessa legge dell’esposizione logica della sua idea. La fallacia sta nel credere che, in virtù della logica della sua idea, essa possa rendere ragione della complessità dell’intero processo storico. Scrive Arendt: «L’idea di un’ideologia […] è diventata uno strumento di interpretazione. La storia non appare alla luce di un’idea, ma come qualcosa che può essere calcolato per mezzo di essa»115. Il processo che scaturisce dalla logica intrinseca all’idea non dipende da alcun fattore esterno. Per fare un esempio, possiamo dire che il razzismo è la convinzione che nel concetto di razza sia già contenuto un movimento che, per attuare l’idea di cui è oggetto, deve necessariamente svilupparsi in una maniera logicamente prestabilita, senza incorrere in alcun ostacolo.
La messa al bando delle contraddizioni rende produttiva l’idea: partendo da premesse ritenute certe, una linea di pensiero poteva essere iniziata e imposta alla mente, traendo conclusioni con il solo ausilio dell’argomentazione.
114 Ivi, p. 642.
61
L’esperienza è bandita da ogni ideologia. Quello che serve a spiegare ogni cosa a partire da premesse è compreso nel processo coerente di deduzione logica; l’esperienza, secondo questa visione schematica, non può insegnare nulla.
Arendt puntualizza che l’autentica natura dell’ideologia si è mostrata esclusivamente nel ruolo da essa svolto nell’apparato del totalitarismo. Tre sono gli elementi specificamente totalitari comuni a qualsiasi tipo di pensiero ideologico. In primo luogo, le ideologie hanno la tendenza a spiegare non quel che è, ma quello che diviene. Quello di cui si occupano è la dimensione del movimento. Anche quando hanno come premessa la natura (nel caso del razzismo, ad esempio), sono sempre orientate verso la storia (l’elemento di movimento): la natura serve per spiegare i fatti storici e ridurli a fatti naturali. In secondo luogo, il pensiero ideologico si pone come indipendente da ogni esperienza. Nel momento in cui si emancipa dalla realtà percepita, esso insiste su una realtà più vera, nascosta dietro le cose percettibili, e che si avverte soltanto disponendo di una sorta di sesto senso. La propaganda del movimento totalitario esemplifica questo atteggiamento: stacca il pensiero dall’esperienza e dalla realtà, sforzandosi di attribuire un significato segreto ad ogni avvenimento pubblico e un intento cospirativo ad ogni atto politico.
Infine, le ideologie, non potendo trasformare la realtà, ottengono l’emancipazione del pensiero dall’esperienza ordinando i fatti in un meccanismo logico che, partendo da una premessa accettata in modo assiomatico, ne deduce il resto; la coerenza con cui
62
procedono è quella che si avrebbe in condizioni ideali, in quanto non esiste affatto nella realtà116.
Venendo meno al confronto con la realtà percepita, imponendosi di portare avanti argomentazioni sempre coerenti con le premesse, la forza coercitiva della logica sta nel timore di incorrere in contraddizione: si mantiene nel suo schema rigido per paura
di incorrere in situazioni estranee al suo modo di gestire gli eventi.
Da questa prospettiva, la logicità non è altro che una tirannia che inizia con la sottomissione della mente alla logica come processo infinito su cui l’essere umano basa la costruzione delle proprie idee. Questa sottomissione lo porta alla rinuncia della propria libertà interiore. Seguendo le indicazioni di Arendt, possiamo distinguere due tipi di libertà: la libertà in quanto intima capacità umana e la libertà in quanto realtà politica. Se la prima si identifica con la con la capacità di iniziare, la seconda si identifica con uno spazio di movimento fra gli uomini. La logica e il terrore non possono nulla nei confronti della libertà di cominciare: l’inizio non può essere eliminato, in quanto premessa di ogni cosa.
Come il potere totale vuole impedire ogni nuovo inizio, così la forza della logicità è mobilitata affinché nessuno cominci a pensare, un’attività che è l’esatto opposto del processo coercitivo della deduzione. Dunque, la deduzione logica non è un atto di
63
pensiero perché il pensare è un’azione che solo l’uomo libero può intraprendere: il
ragionamento costretto entro schemi prestabiliti non rientra in questi canoni.
Il grado di sicurezza di un regime totalitario dipende dunque da quanto riesca a mobilitare la forza di volontà dell’uomo per inserirlo «in quel gigantesco movimento della storia o della natura che usa l’umanità come suo materiale e non conosce né nascita né morte»117. L’autocostrizione del pensiero ideologico distrugge tutti i
legami con la realtà; una volta che gli individui perdono il contatto con la realtà, vengono meno anche la capacità di esperienza e di pensiero. Come scrive Arendt, «il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso, non esiste più»118.
Nel tentativo di riprendere le redini del discorso, le ultime pagine di Ideologia e
terrore sono affidate alla ripresa del problema posto in apertura del saggio: «Quale
esperienza di base nella convivenza umana permea una forma di governo che ha la sua essenza nel terrore e il suo principio d’azione nella logicità del pensiero ideologico?»119. Il potere totale non risponde a nessuna delle forme di potere politico conosciute fino a prima della sua ascesa e, pertanto, la combinazione tra terrore e ideologia non è mai stata usata prima nelle varie forme di dominio politico. Tuttavia,
117 H. Arendt, Ideologia e terrore, p. 649.
118 Ibidem.
64
essendo questo corpo politico inventato dagli uomini, l’esperienza sul quale esso si fonda deve essere umana e nota ad essi. Uno dei modi per dare inizio al terrore è isolare gli individui l’uno dall’altro; possiamo definire l’isolamento il terreno pretotalitario, la preparazione a quello che verrà. Il potere è sempre il risultato di un’operazione congiunta di forze, quindi quando gli individui sono isolati, sono impotenti, perché il potere deriva sempre da uomini che operano insieme. Isolamento e impotenza sono le colonne portanti delle tirannidi, dove i contatti politici fra gli individui sono spezzati e le capacità di azione e di potere ridotte al minimo. A discapito di questo, però, gli individui restano sempre in possesso della capacità di
esperienza e di pensiero.
Per spiegare la differenza tra le tirannidi e il potere totalitario, Arendt si sofferma sulla differenza tra isolamento ed estraniazione. L’isolamento nella sfera politica prende il nome di estraniazione nei rapporti sociali. Gli individui sono isolati quando viene distrutta la sfera politica della loro vita, cioè quella in cui operano insieme perseguendo un interesse comune. L’isolamento, tuttavia, lascia intatte le attività creative. «L’uomo, in quanto è homo faber, tende a isolarsi con la sua opera, a lasciare temporaneamente il regno della politica»120 . La creazione, la poiesis, viene sempre compiuta in isolamento dalle faccende comuni. Nella condizione di isolamento l’uomo rimane in contatto col mondo come «artificio umano»; l’isolamento diventa insopportabile solo quando viene distrutta la capacità di
65
aggiungere qualcosa di proprio al mondo comune, che è la forma più elementare di creatività. Nel momento in cui l’individuo passa da essere considerato un homo faber ad essere definito un animal laborans, all’isolamento si aggiunge la perdita del suo posto nel regno politico dell’azione. Quando la tirannide è basata sull’isolamento, lascia intatte le capacità creative dell’uomo; quando, al contrario, è imposta agli
schiavi diviene estraniazione e tende ad essere totalitaria. L’estraniazione, a differenza dell’isolamento che riguarda solo la sfera politica della
vita, concerne la vita umana nella sua totalità. Arendt sottolinea che il regime totalitario non può esistere senza distruggere il settore pubblico, ovvero senza abbattere le capacità politiche degli uomini attraverso l’isolamento.
Conseguenza estrema della condizione isolata, l’estraniazione, però, distrugge anche
la vita privata: l’individuo finisce per non appartenere più al mondo. L’estraniazione è «l’essenza» del regime totalitario, è connessa allo sradicamento e
alla superfluità. L’individuo sradicato non ha un posto riconosciuto e garantito dagli altri, non appartiene più al mondo. L’estraniazione, scrive Arendt, è contraria alle esigenze fondamentali della condizione umana. L’essere umano non può prescindere dal contatto con i suoi simili, dal senso comune che regola e controlla gli altri sensi e grazie al quale si impedisce che si resti rinchiusi nella propria particolarità.
Per rendere ancora più forte l’idea della pericolosità dell’estraniazione, l’autrice fa un paragone con la solitudine: «L’estraniazione non è solitudine. La solitudine richiede
66
che si sia soli, mentre l’estraniazione si fa sentire più acutamente in compagnia di altri. […] Nella solitudine sono con me stesso, e perciò due in uno, mentre nell’estraniazione sono effettivamente uno, abbandonato da tutti»121. Il dialogo con
me stesso, quello che posso intraprendere in un momento di solitudine, non mi fa perdere il contatto col mondo, «perché gli altri sono rappresentati nell’io con cui conduco il dialogo del pensiero»122. Gli altri mi danno conferma della mia identità,
nella solitudine il due in uno ha bisogno degli altri per ridiventare uno. Nel momento in cui gli altri mi fanno ridiventare uno, ritorno a parlare con un’unica voce che mi rende una persona unica.
Non manca nelle ultime pagine un attacco più o meno velato ai filosofi, «per i quali soltanto la solitudine è un modo di vita e una condizione di lavoro». Il pericolo che la solitudine potesse diventare estraniazione, è venuto fuori nel XIX quando i filosofi non si sono più accontentati del vecchio adagio «la filosofia è solo per pochi» e hanno iniziato a ripetere che nessuno li comprendeva. Attaccato ironicamente Hegel, l’autrice ricorda che ci fu un uomo estraniato che ritrovò sé stesso e iniziò il dialogo della solitudine. Quest’uomo fu Nietzsche, quando a Sils Maria concepì Zarathustra. L’estraniazione, dunque è resa insopportabile dalla perdita dell’io reso realizzabile nella solitudine, ma confermato nella sua identità solo dell’interazione con i propri simili.
121 H. Arendt, Ideologia e terrore, p. 652
67
Nell’estraniazione si perdono dunque quattro cose fondamentali: io e mondo, capacità di pensiero ed esperienza. La conferma della perversità della logica totalitaria viene dal fatto che l’unica capacità della mente umana che non ha bisogno dell’io, dell’altro e del mondo per funzionare è il ragionamento logico. L’autrice cita Lutero, il quale scriveva: «Un
uomo estraniato deduce sempre una cosa dall’altra e pensa tutto per il peggio»123.
Nel totalitarismo l’estraniazione, che di solito è un’esperienza limite, subita ad esempio durante la vecchiaia, diventa un’esperienza quotidiana.
Arendt scrive che l’inesorabile processo in cui il totalitarismo inserisce le masse da
esso organizzate, appare come un’evasione suicida dalla realtà124. Ma come tutto ciò che dall’uomo viene creata, il dominio totalitario non è né
illimitato né indistruttibile, anzi racchiude in sé i germi della propria distruzione. L’estraniazione e la deduzione logico-ideologica del peggio rappresentano un principio antisociale e sono portatori di un principio distruttivo per ogni convivenza
umana, proprio perché contrari al naturale svolgersi di essa.
123 Lutero, Warum die Einsamkeit zu fliehen?, in Erbauliche Schriften, Werke für das christliche Haus / Martin Luther ; hrsg. v. Buchwald, Kawerau, 1891, Vol. 2
68
La crisi del ‘900, scrive Hannah Arendt, ha portato alla luce una forma nuova di governo che, «in quanto potenzialità e costante pericolo, ci resterà probabilmente alle costole per l’avvenire»125.
Ma, nonostante questo, ogni fine della storia contiene un nuovo inizio. L’inizio è la promessa di ogni fine. Politicamente, ogni nuovo inizio si identifica negli uomini con la consapevolezza che ognuno possiede una propria libertà. negli esseri umani la novità e quindi la partenza per un nuovo inizio è garantita dal più naturale dei modi: la nascita, che «è in verità ogni uomo»126.
125 Ivi.
69