E RISORSE UMANE
4. Alcune prime considerazioni ritraibili dalla vicenda
Dalla precedente ricostruzione di questa specifica trattativa sindacale, che all’epoca dello svolgimento creò ampia eco sul territorio locale, sembra possibile far discendere alcune considerazioni di ordine genera-le riguardo ai temi delgenera-le relazioni sindacali e del diritto del lavoro oggi esistenti in Italia.
La prima riflessione riguarda la presenza di una sempre latente cultura dello scontro (23), che tende ad indirizzare la maggior parte delle tratta-tive verso esiti di tipo distributivo più che integrativo (24). Nelle situa-zioni distributive il negoziato è un “tira-e-molla”, ciò che una parte vince viene perduta dall’altra e l’accordo, se viene raggiunto, è un compromesso che si situa in punto intermedio tra le opposte pretese delle parti.
Nonostante l’elevato grado di tutele sindacali complessivamente rileva-bile in Italia e la sostanziale assenza, quindi, di dominanti comporta-menti negativi sul mercato del lavoro, quasi tutto in ambito sindacale degenera prima o poi in “lotta”: può mancare una causa principale, ma infiniti sono i pretesti legittimanti. La cultura dello scontro reclama un protratto conflitto propedeutico all’accesso ad una reale fase negoziale, proprio come si è registrato nella vicenda sopra esposta: innanzitutto il
“tiro alla fune” e lo sciopero, dopo la discussione ed il confronto, con animi, a quel punto, però, non sempre sufficientemente sereni e lucidi.
Il confronto tende a scivolare in agonismo verbale, diviene sovente ma-schera della rissa, magari anche abbattimento simbolico dell’altro, re-stringendo inesorabilmente gli spazi di mediazione tra soggetti “l’un contro l’altro armati” che vogliono affermarsi: alligna sempre il pensie-ro che l’altpensie-ro (lavoratore o imprenditore) sia un nemico “mortale”. Le discussioni divengono così sterili, lasciando spazio ai rapporti di forza reciproci: se una parte ottiene quello che vuole, l’altra si sente sconfitta.
È questo il meccanismo perverso sovrastante la contrapposizione ideo-logica, l’idea del sospetto, l’istinto inveterato dell’imbroglio e della e-lusione: ciascuno si ritiene portatore della verità, i principi soffocano le soluzioni praticabili, la rivendicazione dell’equità si confonde con quel-la dell’uguaglianza, le leggi sono valide solo quando sono adattabili al-le proprie concezioni valoriali.
Tutto ciò legittima, a sua volta, le reciproche accuse e favorisce la pro-liferazione di slogan, dichiarazioni e proclami. Si è convinti di far
(23) Cfr. G. BERTA, op. cit.
(24) Cfr. R. FISHER, B. PATTON, W. URY, op. cit.
sitare idee, concetti, quando invece si tratta solo di parole e palinsesti senza significato (25).
Dunque, come dimostra anche l’esperienza qui rendicontata, il linguag-gio usato – ed è questo un corollario della prima riflessione – trae ali-mento e promuove insieme questo atteggiaali-mento delle parti. La logica dell’argomentazione perde terreno nei confronti del vocio, della escan-descenza, delle allusioni minacciose e di affaticanti forme logorroiche che innervano il rito della lungaggine delle trattative. Del resto, è ovvio che prevalga la volontà di estorcere a proprio vantaggio il più possibile, di chiedere il massimo e di concedere il minimo, se poi esiste sempre il tempo utile per poter desistere ovvero per potersi rivalere alla successi-va occasione di confronto. Le analisi sono richieste non per essere a-scoltate ed approfondite, ma solo per essere piegate ai propri obiettivi.
Si producono innumerevoli enunciati teorici, conditi da principi astratti che dicono molto ma mai tutto, e comunque mai in maniera netta: è co-sì che si lasciano gli spazi funzionali affinché un qualsiasi soggetto possa procedere ad esegesi personali più o meno restrittive a seconda della visione che del fatto egli ha maturato. Sembra quasi di assistere alla realizzazione di un’imponente commedia cui si attribuisce la idone-ità di coinvolgere realmente coloro che sono rappresentati dalle parti negoziali: invero si crea spesso solo una corrispondenza tra chiasso e persuasione, e si sfugge invece alla pacatezza che si confà alla rifles-sione, alla comprensione dei dati oggettivi ed al giudizio consequenzia-le.
Il rischio, così procedendo, è il ricorso frequente ad accuse approssima-te ed a approssima-teorie di comodo. Ciò, da una parte, impedisce di acquisire quel-la dovuta consapevolezza che in un’economia ormai globalizzata do-vrebbe ispirare richieste e concessioni e, dall’altra parte, ostacola la maturazione di ragionamenti articolati, basati sulla realtà dei fatti inter-pretati attraverso numeri (condivisi) e risultati effettivamente registrati.
Da qui sembra originare la percezione – ed è la seconda riflessione ge-neralizzabile – che l’intero sistema delle relazioni industriali italiane – di cui le relazioni sindacali nelle grandi aziende sono segno e declina-zione – soffra di un cronico immobilismo (26). Il perdersi nelle faccende
(25) Cfr. G. GILI, Capirsi e non capirsi: il rumore nella comunicazione interpersonale e sociale, in GRUPPO SPE (a cura di), La sociologia per la persona, Franco Angeli, Milano, 2007.
(26) Cfr. P. MINGUZZI,Lavoro e sindacato, in M. LA ROSA (a cura di), Sociologia dei lavori, Franco Angeli, Milano, 2002; P. ICHINO, A che cosa serve il sindacato. Le fol-lie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino, Mondadori, Milano,
di visibilità e di identità ha, infatti, l’effetto di canalizzare la maggior parte delle risorse e delle energie a difendere interessi parcellizzati, piuttosto che ad affrontare le fondamentali questioni legate alla soprav-vivenza ed allo sviluppo di un’impresa o del sistema produttivo nazio-nale. Temi complessi, che esistono sia a livello di singola impresa sia a livello di sistema nazionale, quali la licenziabilità del dipendente assen-teista (27) o l’utilità attuale della legge n. 300/1970 (28) in un mercato profondamente diverso rispetto a quello in cui la norma nacque, fanno fatica ad emergere e subiscono ora un inspiegabile ostracismo, ora una non convinta “sponsorizzazione”, entrambe prove palesi di una man-canza di senso di responsabilità collettiva.
Procrastinare, se non addirittura rifiutare, un vero confronto su proble-maticità così importanti significa per entrambe le parti abdicare ad una capacità di governo politico, in favore di una gestione dell’immediato e dell’emergenza. Negando la presenza e l’azione di una variabile indi-pendente quale quella del tempo con cui ogni impresa, e più in generale il sistema Italia, devono confrontarsi, si preclude da un lato l’assunzione di decisioni strategiche in favore di scelte tattiche incen-trate invece sui vantaggi particolari, mentre dall’altro lato si è portati a ricorrere ancora a paradigmi passati ed a schemi cristallizzati, i quali inibiscono, in una sorta di spirale, l’evoluzione e la trasformazione dei pensieri (29).
Sotto questo punto di vista, sembra lecito affermare che il sindacato ap-pare più indisponibile ad un confronto realistico, rispetto a quanto lo sia invece l’imprenditore: mentre infatti quest’ultimo è, in definitiva, espo-sto alle sollecitazioni della concorrenza internazionale e su essa deve modellarsi, pena il rischio di scomparire; il primo sa di poter confidare su uno stato munifico ed incline a fornirgli un supporto nella tutela di interessi particolari, invece che a svolgere con coraggio il proprio ruolo di indirizzo in favore dell’interesse generale (30). Non paiono quindi né credibili né rassicuranti le dichiarazioni dei sindacati, quando essi
2005; F. PASQUALI, Il sindacato e i giovani, in R. BRUNETTA, V. FELTRI (a cura di), op. cit.
(27) Cfr. P. ICHINO, I nullafacenti, Mondadori, Milano, 2006.
(28) Si tratta dello Statuto dei lavoratori, legge promulgata nel 1970, sulla cui riforma è già da tempo aperto un dibattito. Cfr. P. MINGUZZI, op. cit.; R. BRUNETTA, V. F EL-TRI (a cura di), op. cit.
(29) Cfr. M. TOMASSINI, Alla ricerca dell’organizzazione che apprende, Edizioni La-voro, Roma, 1983.
(30) Cfr. L. BACCARO, Democrazia sindacale ed “interesse generale”, in QRS, 2005, 2; C. CALVELLI, G. CAZZOLA, A. SERVIDORI,I sindacati italiani tra presente, passato e trapassato, in R. BRUNETTA, V. FELTRI (a cura di), op. cit.
stengono che le loro condotte sono funzionali a rappresentare e tutelare la generalità dei lavoratori (31), mentre invece sembra assai più rispon-dente al vero ritenere che le organizzazioni dei lavoratori intendano, in realtà, preservare il proprio sistema di potere sociale e di veto (32): come è peraltro noto, la difesa di interessi corporativi passa soprattutto attra-verso l’invocazione di grandi principi.
Questa incapacità progettuale – e quindi di rappresentanza – di nuovi interessi è probabilmente alla base dell’attuale crisi identitaria del sin-dacato. Non è certo questo l’ambito per approfondire una tematica così vasta e delicata, ma pare pertinente formulare, come terza aggiuntiva riflessione ritraibile dall’intera vicenda, qualche ulteriore considerazio-ne sul tema.
L’apertura di un fronte di crisi inatteso per le relazioni industriali del comprensorio (nel caso esaminato, la chiusura dell’unità produttiva dell’impresa Licemera) ha confermato quanto possa essere fragile il concetto di solidarietà tra lavoratori, concetto che per potersi affermare richiede l’integrazione “spontanea” di un lavoratore nello svolgimento di un determinato processo lavorativo ed un sentimento di appartenenza
(31) Cfr. E. REYNERI, Occupati e disoccupati in Italia, Il Mulino, Bologna, 1997; C.
DALL’AGATA, Lavoro e nuovi lavori nel postfordismo: paradossi e cambiamenti, in M. LA ROSA, op. cit. Pietro Ichino osservava già nel 1996 che il sindacato avrebbe potuto rappresentare, secondo una stima di tipo induttivo che includeva tutto il pub-blico impiego e le imprese maggiori di 15 addetti, al massimo circa 10 milioni di la-voratori. L’Istat calcolava a quella data l’esistenza di una forza lavoro, inclusiva di disoccupati e persone in cerca di prima occupazione, di quasi 23 milioni di persone:
dunque a fronte di circa 20 milioni di occupati, oltre il 60% di lavoratori non era rap-presentato dai sindacati. Secondo le previsioni di Ichino, questo divario sarebbe stato destinato ad ampliarsi per l’espansione dei settori a minore sindacalizzazione, quali ad esempio le piccole imprese. Del resto, il declino sindacale connesso alle dinamiche dell’occupazione industriale non sembra essere stato arginato da una tendenza contra-ria nel mondo dei servizi, dove il tasso di sindacalizzazione è inferiore a quello del settore industriale, nonostante un certo aumento del numero degli iscritti appartenenti al terziario. Cfr. P. ICHINO, Il lavoro e il mercato. Per un diritto del lavoro maggio-renne, Mondadori, Milano, 1996; F. PASQUALI, Arretratezza culturale della “meglio gioventù”, in R.BRUNETTA,V.FELTRI (a cura di), op. cit. Una recente statistica ha rilevato come nel 2005 le imprese attive nell’industria e nei servizi fossero oltre 4,3 milioni (in particolare, le micro aziende rappresentavano il 95% del totale, mentre le grandi aziende solo lo 0,08%), con circa 16,8 milioni di addetti. Le micro imprese (con meno di 10 addetti) impegnavano circa il 47% dell’occupazione complessiva; le piccole imprese (da 10 a 49 addetti), le medie imprese (da 50 a 249 addetti) e le gran-di imprese (oltre 250 addetti) assorbivano rispettivamente il 21%, il 12% ed il 20%
del totale degli addetti. Cfr. ISTAT, Archivio statistico delle imprese attive (ASIA) – anno 2005, 12 luglio 2007.
(32) Cfr. S. LIVADIOTTI, L’altra casta, Bompiani, Milano, 2008; P. MINGUZZI,op. cit.
ad un gruppo il cui collante vada al di là di “ristretti” interessi (si pensi alla contrapposizione tra lavoratori specializzati e qualificati, tra operai ed impiegati, tra gli operai organizzati e quelli non organizzati, tra il personale di stabilimenti diversi della stessa impresa, tra un’impresa e le altre imprese dello stesso settore, tra occupati e disoccupati, ecc.).
Ora, sebbene la solidarietà cui tende il sindacato abbia ambizioni uni-versali (33), al momento di una crisi o di una recrudescenza dei fenome-ni concorrenziali appare mafenome-nifesta tutta la precarietà di tale aspirazione:
nelle chiusure delle unità produttive ci sono, infatti, sempre lavoratori consapevoli di disporre di un qualche vantaggio in grado di salvaguar-darli o lavoratori che si comportano in modo non solidaristico.
Il forte indirizzo politico che il sindacato esterno tentò, fin dagli inizi, di dare alla vicenda sopra esaminata ebbe forse lo scopo di assicurare tenuta e resistenza a quella solidarietà che legittima, in ultimo, il ruolo dell’istituzione sindacale. Tuttavia, il sindacato rimase impotente nel riuscire a gestire proprio quelle componenti che costituiscono la linfa vitale della solidarietà tradizionale, in primis l’affettività e la partecipa-zione reciproca connesse alla pratica del comune lavoro quotidiano. Di ciò, segni tangibili durante le fasi della trattativa furono i molteplici scollamenti registrati tra sindacalisti interni ed esterni. Com’è compren-sibile, rimane attività complessa indagare su quali possano essere state le effettive ragioni che resero manifeste tali diversità di vedute. Qui si ipotizzano alcuni fattori esplicativi di ordine generale, che meglio di al-tri sembrano conal-tribuire a fornire un’adeguata chiave di lettura del fe-nomeno registrato.
In primo luogo, sembra aver influito una sorta di presunzione di stampo gerarchico ed autoritario che il sindacato – in quanto istituzione fidu-ciaria ratificata dalla tradizione – spesso tende ancora a porre alla base dei rapporti con i suoi iscritti. Detta presunzione si fonda sull’idea di poter far rientrare le persone in categorie predefinite – quasi sussistes-sero regole implicite per identificarne i ruoli – e quindi, allo stesso tempo, disconosce il possibile emergere delle identità personali o di de-terminate reti relazionali (34) che, viceversa, nutrono gli attuali processi comunicativi e la loro forza critica (35).
(33) Cfr. G. FRIEDMANN, La tesi di Durkheim e le forme contemporanee di divisione del lavoro, in N. ADDARIO, A. CAVALLI (a cura di), Economia, società e stato, Il Mu-lino, Bologna, 1980; G. BERTA, op. cit.
(34) Cfr. M. GRANOVETTER, Economic action and social structure: the problem of embeddedness, in American Journal of Sociology, 1985, 3.
(35) L’indebolimento del rapporto tra iscritto e sindacato è in parte anche ascrivibile ai mutamenti dei modelli comunicativi che oggi non contemplano più la supina
accetta-È, inoltre, noto come il sindacato abbia dovuto soggiacere nel tempo sia ad una significativa differenziazione nelle condizioni di lavoro indivi-duali nei singoli ambiti aziendali sia ad un annacquamento della coope-razione solidale esistente tra gli addetti. Questi ultimi, infatti, nello svolgimento del loro lavoro, tendono ad essere sempre più tra loro scol-legati ed isolati, a seguito del massiccio ricorso da parte delle imprese all’informatica, all’elettronica ed ai processi di automazione in generale (36).
Peraltro, il deteriorarsi delle fondamenta della solidarietà sindacale, ol-tre che ai suddetti fattori, è anche imputabile al fatto che nell’attuale società tutto è contestabile con ampi margini di successo, l’individuo sente inevitabilmente con minore stringenza lo stimolo di raggiungere una vera coesione interna con gli altri lavoratori, e la lealtà nel rapporto iscritto/sindacato si trasforma nel perseguimento di utilità immediate e personali. Oggi nelle grandi aziende italiane, dove ampie sono le tutele individuali e collettive, è divenuto molto oneroso svolgere qualsiasi manovra di natura organizzativa (dal cambio degli orari, allo sposta-mento di addetti, al ricorso ai contratti a termine), poiché il sindacato ha instillato nei lavoratori l’attitudine ad una sorta di spirito di confutazio-ne indistinto e geconfutazio-neralizzato: si privilegia l’inclinazioconfutazio-ne a lasciar corre-re comportamenti disciplinarmente rilevanti da parte di singoli, pur re-clamando al contempo la serietà ed il rispetto legati alla fermezza; si discute ogni decisione imprenditoriale che abbia una qualche conse-guenza sui modi e sui tempi di lavoro; si concorda – anzi si patteggia – il modo di procedere e, se insoddisfatti, si ricorre al giudice, spesso in-cline a tutelare in prevalenza la parte più “debole” del rapporto di lavo-ro. Se la solidarietà tradizionale assume oggi un valore strumentale, come in modo paradossale testimoniano i periodici riavvicinamenti dei grup-pi di lavoratori in occasione della stipula e dei rinnovi dei contratti col-lettivi ed integrativi, il sindacato dovrebbe forse, più che ricorrere al vecchio armamentario degli strumenti di lotta sindacale ed alla comuni-cazione ormai logora di un’epoca trascorsa, provare a farsi migliore in-terprete di un mondo che comunque, nolenti o dolenti, è in profonda
zione di quanto viene dichiarato da parte di istituzioni o soggetti che pure fondano il loro consenso sulla fiducia e l’ideale: è ciò che Habermas definisce «comunicazione libera da dominio» (cfr. J. HABERMAS, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bo-logna, 1986).
(36) Cfr. i contributi di V. BORGHI,Lavoro e modelli organizzativi, in M. LA ROSA, op. cit. e C. DALL’AGATA, op. cit.
evoluzione (37): rivedere il vecchio concetto di solidarietà operaia, in favore di un diverso e nuovo concetto di solidarietà che sappia tenere conto dei nuovi scenari economici e degli aggregati sociali emergenti (giovani, donne, famiglie), potrebbe alla fine fornire rinnovate energie anche all’azione collettiva (38). E ciò in misura tanto maggiore quanto più tale concetto riuscisse a trovare una propria collocazione e dignità all’interno di un processo di complessiva riqualificazione del mercato del lavoro in senso liberale, rendendolo privo di alterazioni e ricco di opportunità (39).
Le modeste soddisfazioni ottenute negli ultimi anni dai lavoratori attivi dipendono molto dal fatto che il sindacato ha salvaguardato l’impianto pensionistico e le esistenti tutele pensate per una parte di coloro che perdevano il proprio lavoro, ostacolando così, in un panorama di risorse economiche sempre più scarse, quel processo di alleggerimento degli oneri sociali che potrebbe invece liberare opportunità di lavoro e di re-tribuzione.
Si pensi, a tale proposito, al ruolo decisivo che potrebbe assumere un quadro normativo (40) che avesse nel frattempo, da una parte, rivisto le regole di impiego degli ammortizzatori sociali e di tutti quegli strumen-ti idonei a supportare il lavoratore disoccupato e, contemporaneamente, dall’altra parte introdotto il principio della flessibilità del posto di lavo-ro: sarebbe così possibile immaginare scenari assai diversi riguardo l’evoluzione di una crisi aziendale, forse vissuta almeno in parte quale naturale evenienza foriera anche di opportunità di rinnovo sociale e personale, e non più solo come irreversibile momento di epilogo.
5. Conclusioni.
Per quanto di definitivamente conclusivo sugli argomenti presentati po-co si possa dire in po-così breve spazio, sembra inevitabile sottolineare l’impellenza di un cambiamento di ruoli e di condotte da parte degli
(37) Cfr. G. BERTA, op. cit.
(38) Cfr. A. CARBONARO, Il conflitto di classe: una dimensione perduta?, in Etruria Oggi, 1988, 18.
(39) Cfr. A. ALESINA, F. GIAVAZZI, Il liberismo è di sinistra, Il Saggiatore, Milano, 2007; G. ESPING-ANDERSEN, M. REGINI, Why deregulate labour markets?, Oxford University Press, Oxford, 2000.
(40) La vicenda esposta, per le sue poliedriche sfaccettature, presenta numerosi spunti di riflessione – che non si intende però sviluppare in questa sede – sulla attualità dell’esistente quadro normativo lavoristico.
tori sociali – sindacato ed imprenditori – dinanzi ad un mondo che essi faticano sempre più a controllare.
Il sindacato non può rifuggire da una riflessione interna vera e profonda sul cambiamento dei tradizionali schemi di riferimento che sottendono la sua azione, nonché sul venir meno di un concetto di solidarietà su cui esso ha fondato la propria strategia di affermazione, diffusione e conso-lidamento.
L’imprenditore, da parte sua, dovrebbe battersi con più coraggio e de-terminazione per affermare una cultura davvero liberale, capace però di farsi carico, in modo equo, anche degli aspetti di socialità e di conflitto:
la rete sociale è ormai connaturata agli assetti economico-istituzionali dell’Europa occidentale continentale, ed è perciò impraticabile il pensa-re di poterla cancellapensa-re, anche se dovpensa-rebbe pensa-restapensa-re comunque l’imperativo di una sua semplificazione e razionalizzazione (41).
Entrambe le parti dovrebbero, forse, interiorizzare meglio ed in maniera più allargata di quanto non avvenga oggi un’etica della responsabilità sociale, in quanto senso dei diritti ma anche senso del dovere.
A partire da queste fondamenta, è allora possibile ripensare le relazioni industriali quali momenti in cui il dialogo assurge a valore, la volontà comune si dispiega con risoluzioni raggiunte in tempi ragionevolmente brevi e l’intesa conseguita coincide con la sintesi – e non con il com-promesso – di posizioni difformi – e non antitetiche.
In assenza di uno sforzo siffatto, potrà magari esistere una parte che riesce a dichiararsi vincitrice in un circoscritto evento, ma non esisterà alcun beneficio per la collettività (42). In assenza di uno sforzo siffatto, ancora, continueremo ad avere solo un sindacato che interpreta – a se-conda delle opinioni, in modo ora degenerativo ora encomiabile – un ruolo di pura resistenza a tutela di un numero decrescente di lavoratori.
Continueremo ad avere, sull’altro versante, solo un imprenditore che a parole auspica la liberalizzazione, ma che nei fatti approfitta volentieri di forme assistenzialistiche desuete e di scarsa incisività. Continueremo ad avere una concertazione vissuta come scelta obbligata ed invero in-terpretata come “braccio di ferro” tra controparti, mistificazione di
(41) Cfr. J. GAUTIÉ, Gli economisti contro le tutele del mercato del lavoro: dalla dere-golazione alla “flexicurité”, in q. Rivista, 2005, 1.
(42) Nel gioco del “dilemma sociale” si dimostra come la tendenza degli allevatori a
(42) Nel gioco del “dilemma sociale” si dimostra come la tendenza degli allevatori a