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La fase del conflitto

Nel documento Diritto delle Relazioni Industriali (pagine 143-148)

E RISORSE UMANE

3. Gli eventi

3.1. La fase del conflitto

A seguito dell’avvio della procedura di mobilità riguardante uno degli stabilimenti di Licemera, il sindacato reagì in maniera molto forte ma anche scomposta.

Alcune sigle boicottarono da subito la calendarizzazione dei primi in-contri, mentre si organizzavano le assemblee nelle quali i sindacalisti rilasciavano affermazioni, anche colorite, che, per l’estremizzazione dei loro contenuti, si sarebbero poi rivelate quali veri e propri macigni lun-go la strada della nelun-goziazione. I sindacati decisero l’attuazione di uno sciopero prima ancora di avviare le consultazioni con l’azienda, sciope-ro accompagnato presso gli ingressi dell’impresa dai “presidi”, eufemi-smo terminologico per indicare i “picchetti” che permangono ancora nella cultura sindacale del nuovo millennio.

Aspetto non insignificante fu che la partecipazione dei dipendenti ai cosiddetti presidi restò molto scarna. Gli assembramenti, che impediro-no l’ingresso nella fabbrica a coloro che viceversa avrebbero voluto en-trare (nel rispetto dei ben noti cliché italiani, per cui chi protesta finisce in genere per prevaricare, mistificando il rapporto tra maggioranze – spesso silenziose – e minoranze – spesso rumorose), erano costituiti

dalle strutture sindacali di categoria “comandate” per l’occasione (7) dai membri dei sindacati interni (RSU) e da alcuni dipendenti, equamente suddivisi tra curiosi e, per così dire, esuberanti. L’astensione dal lavoro, a prescindere dalle modalità con cui nei fatti si concretizzò, fu comun-que ampia e trasmise al sindacato la convinzione di disporre di un so-stegno incondizionato da parte della base.

Allo stesso tempo, le azioni di protesta che si registrarono nel periodo furono sostenute da interventi dei politici locali ed enfatizzate da una pressione mediatica (televisioni e radio, articoli sulla stampa del luogo, prese di posizioni consiliari, ecc.) tesa ad ostacolare la decisione presa dall’azienda.

La tattica del sindacato fu di esercitare fin da subito una forte pressione preventiva su Licemera, nella convinzione che ciò potesse indurre la proprietà aziendale a recedere dalla propria decisione di chiudere il sito.

Detta convinzione si sosteneva su alcune stime induttive: il forte radi-camento nel tessuto sociale locale dell’impresa, una gestione operativa da sempre attenta ad evitare eccessivi turbamenti del clima interno ed una certa bonomia diffusamente riconosciuta alla proprietà rappresen-tavano, infatti, gli ingredienti necessari per sperare di ottenere una re-trocessione delle iniziali posizioni dell’impresa.

A partire da siffatti presupposti, il sindacato riteneva insomma plausibi-le riuscire a sgretolare plausibi-le convinzioni dei proprietari e la loro vo-glia/capacità di resistenza nei confronti di manifestazioni e di pressioni pubbliche.

Dunque, nella fase del conflitto, le preferenze dei protagonisti andava-no in direzioni opposte: da una parte il sindacato, andava-non interessato a trat-tare per far desistere l’impresa, dall’altra Licemera, che invece insisteva nel volersi confrontare con il proprio interlocutore, preoccupata di esse-re comunque sollevata dai rischi di contenzioso insiti nelle azioni di ri-strutturazione organizzativa.

Questa fase è ascrivibile, nel linguaggio della teoria dei giochi, ai gio-chi di pura competizione nei quali il conflitto di interesse tra le parti è totale: più una parte vince, più perde l’altra. La spartizione delle risorse costituisce allora l’unico accordo possibile, ma essendo, per ovvi moti-vi, in questa fase ogni qualsivoglia soluzione non totalitaria inaccettabi-le per il sindacato, si determinò una situazione di impasse, rappresenta-bile attraverso una matrice dove le possibili strategie, cioè le scelte

(7) Cfr. C. CALVELLI, G. CAZZOLA, A. SERVIDORI, Qui si parla solo di politica, in R.

BRUNETTA, V. FELTRI (a cura di), I Sindacati, Free Foundation for Research on Euro-pean Economy, Firenze, 2007.

comportamentali (negoziare/non negoziare) assumibili dalle parti, cor-rispondono alle righe ed alle colonne. L’incrocio tra ogni riga ed ogni colonna evidenzia il risultato conseguente all’attivazione di quelle de-terminate strategie. Così ciascuna cella disegna un diverso stato (l’accordo, lo scontro oppure un’offerta di negoziazione respinta dalla controparte) che discende dalle strategie attuate dagli attori. A ciascuno scenario è attribuita una valutazione in termini di desiderabilità da parte di entrambi i soggetti. Ciò è espresso attraverso una coppia di numeri, dove il primo rappresenta la valutazione dell’attore di riga (l’azienda) ed il secondo la valutazione dell’attore di colonna (il sindacato); la massima desiderabilità è, sia per l’azienda sia per il sindacato, conven-zionalmente stabilita uguale a 4 ed essa decresce attraverso livelli sem-pre più bassi (prima 3, poi 2) fino a raggiungere il risultato minimo, po-sto uguale a 1.

SINDACATO

Negoziare Non negoziare

AZIENDA Negoziare Intesa (2, 2)

Proposta aziendale non accolta

(1, 4) Non negoziare Proposta sindacale

non accolta (4, 1)

Scontro (3, 3)

Poiché il sindacato aveva deciso di non negoziare alcunché dopo l’avvio della procedura, per l’azienda la migliore strategia di risposta fu quella di non trattare (valore 3), poiché l’alternativa dello spingersi co-munque sul terreno della negoziazione avrebbe posto Licemera in una situazione di grave debolezza iniziale in una lunga trattativa (valore 1).

Di contro, se il sindacato avesse invece aperto subito alla negoziazione, per l’azienda sarebbe stato molto più vantaggioso non negoziare (valore 4) invece che collaborare subito (valore 2), poiché avrebbe così potuto sbilanciare in maggior misura l’interlocutore, spingendolo ad ammor-bidire ulteriormente la propria iniziale posizione.

Dunque, in quella fase la strategia di non negoziare garantiva alle parti i risultati migliori rispetto ai possibili esiti alternativi.

Conseguenza di queste strategie è il conflitto reciproco (valore utilità totale: 6), che infatti caratterizzò quel periodo della vicenda qui esami-nata. Il risultato così determinatosi presentava caratteristiche di

invaria-bilità nel tempo poiché né un giocatore né l’altro, date le proposizioni valoriali assunte in partenza, avrebbe avuto da un punto di vista razio-nale vantaggio a modificare unilateralmente la propria condotta in favo-re di un accordo (valofavo-re 2).

La strategia del rifiuto a negoziare fu alimentata soprattutto attraverso il ricorso alle minacce ed agli avvertimenti, che costituiscono alcune delle possibili mosse (8) utilizzabili dagli attori nei giochi competitivi. In par-ticolare il sindacato, facendovi ricorso, intese probabilmente sia riap-propriarsi davanti ai lavoratori di una credibilità di lotta trascolorata nel tempo a causa del clima di aperto dialogo consolidatosi negli anni in azienda, sia rafforzare il messaggio di indisponibilità a qualsiasi tratta-tiva se prima non fosse stato offerto qualche segnale da Licemera di non voler vanificare opportunità future di intesa. Attraverso tale aspetto il sindacato puntava a ricostituire il legame reciproco di fiducia con Li-cemera da una posizione di forza.

Nel promuovere ciò, tuttavia, il sindacato non valutò appieno due a-spetti: a) un eccesso di fiducia nella validità della propria tattica (9), su-blimata nel momento dell’astensione dal lavoro; b) la convinzione di riuscire a mantenere nel tempo il controllo su tutti gli attori contrappo-sti – o idealmente chiamati a contrapporsi – a Licemera, quali alcune forze politiche o gli organi di informazione.

Dal primo punto di vista, la decisione atipica del sindacato di ricorrere da subito a forme ultimative quali lo sciopero preventivo incarnò ap-pieno alcuni miti del costume sindacale nazionale: la volontà di forzare e di verificare il consenso (10), di incanalare su percorsi già semi-definiti il confronto così da condizionarne in gran parte l’esito finale, di rinnovare e rinvigorire lo spirito pugnativo assunto come intrinseco e latente alla classe operaia (11). Questa tattica originava innanzitutto da sentimenti di ribellione e di disapprovazione, sentimenti sconosciuti al clima aziendale interno, e non anche da una rivendicazione sufficien-temente strutturata, che fosse cioè intesa quale credibile alternativa

(8) Cfr. R. FISHER, B. PATTON, W. URY, L’arte del negoziato, Corbaccio, Milano, 2005; T.C. SCHELLING, La strategia del conflitto, Mondadori, Milano, 2006.

(9) Cfr. M.H. BAZERMAN, M.A. NEALE, Improving negotiation effectiveness under final offer arbitration: the role of selecting and training, in Journal of Applied Psychology, 1982, 67.

(10) Cfr. A. PIZZORNO, Le due logiche dell’azione di classe, in ID., I soggetti del plu-ralismo. Classi, partiti, sindacati, Il Mulino, Bologna, 1980.

(11) Cfr. G. BERTA, L’Italia delle fabbriche. Genealogie ed esperienze dell’industrialismo nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 2006.

all’ipotesi aziendale di cessazione di un’unità produttiva già da tempo ritenuta inadeguata anche da gran parte della popolazione aziendale.

Probabilmente ciò limitò molto la costruzione di un’effettiva solidarietà tra i lavoratori, piuttosto disorientati dal precipitare degli eventi (l’annuncio inaspettato dell’azienda, la fulminea reazione sindacale) e dalle informazioni contrastanti che circolavano sulla vicenda, stante la mancanza di un tavolo di incontro ufficiale. Si pensò che la risposta alle inquietudini ed alle paure dei lavoratori potesse insomma trovare soddi-sfazione piena nel forte ruolo di indirizzo assunto dal sindacato esterno e nelle sue granitiche certezze.

Dal secondo punto di vista, la rilevante eco della vicenda portò ad al-largare il numero di coloro che, a vario titolo, si interessarono alla vi-cenda. Il sindacato, attribuendo all’opinione collettiva un ruolo di sup-porto alla propria azione di resistenza dissuasiva, ritenne che la prescel-ta prescel-tattica ricusatoria ne sarebbe sprescel-taprescel-ta agevolaprescel-ta: la risonanza della vi-cenda, in un ambiente sociale coeso e ricco di collegamenti interni qua-le quello in cui aveva sede Licemera, poteva equivaqua-lere ad un vero e proprio danno inflitto. Peraltro, nei fatti, lo stallo “armato” della vicen-da finì per essere per lo più ricondotto a sintomo di una crisi tra azienvicen-da e sindacati avente natura soprattutto politica, di principi. Come tale, la crisi si ritenne risolvibile con interventi simbolici. Nei confronti degli attori, di conseguenza, si esercitarono ingerenze e si sprecarono dichia-razioni pubbliche intessute di formule generiche, le quali, sovente limi-tandosi ad accennare a ragioni che non si potevano esprimere appieno, invitavano alla ragionevolezza e sollecitavano l’avvio di un concreto dialogo, senza comunque riuscire ad incidere concretamente sulla vi-cenda.

L’insuccesso di queste forme di sollecitazione, unite all’inesorabile tra-scorrere dei giorni previsto dalla legge, consentirono l’emersione di qualche prima voce dissonante all’interno del fronte sindacale. Senza nessuna risposta positiva fino ad allora ottenuta, in molti lavoratori si insinuò l’idea che la tattica seguita fosse alla fine davvero improduttiva, non lasciando intravedere dopo diverse settimane di dura dialettica al-cuna via di uscita. Inoltre, numerosi addetti, divenuti gradualmente consapevoli di non essere interessati dalla ristrutturazione aziendale, ri-tennero che fosse giunto il momento di rinunciare allo scontro e, in de-finitiva, a quel clima di insopportabile tensione che ciascuno di loro vi-veva quotidianamente sul posto di lavoro.

È chiaro che in situazioni di gruppo, qualora uno sospenda la coopera-zione (defezioni, nel linguaggio della teoria dei giochi), viene meno l’architrave della fiducia che sostiene qualsiasi alleanza di scopo. Fu

così che, rompendosi il preesistente equilibrio tra una quota di rappre-sentati e rappresentanti, si indebolì anche la compattezza della iniziale posizione sindacale.

Del resto, la strategia di chiusura adottata dalle organizzazioni sindacali palesò i suoi limiti, dipendendo da variabili (il trascorrere del tempo ed il controllo dei comportamenti individuali) solo in parte da esse gestibi-li: rifiutare una tregua significava, di fatto, per il sindacato rinunciare al principio-strumento della contrattualità ovvero rinnegare il proprio ruo-lo proattivo di maker negoziale (12). Di conseguenza, l’ostinato irrigi-dimento su una condotta ritenuta giusta, senza riflettere su come potes-se variare il contesto di riferimento, preclupotes-se in pratica al sindacato l’elaborazione di una tattica alternativa e mise l’azienda in una posizio-ne posizio-negoziale di vantaggio.

Si creò così tutta una serie di nuove condizioni capaci di rimodellare le preferenze degli attori e di condurre ad una nuova tipologia di gioco:

l’impasse poteva ora dirsi superato, mentre affiorava una strisciante vo-lontà di accordo che tuttavia avrebbe ancora faticato nel riuscire a ma-nifestarsi appieno.

Nel documento Diritto delle Relazioni Industriali (pagine 143-148)