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Alcuni accenni dall’”Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio”

Parte I – Il Cristianesimo nell’opera di Hegel

5. Alcuni accenni dall’”Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio”

L’altra grande opera in cui Hegel tratta di religione è l’Enciclopedia, della quale ci pervengono più edizioni (1817, 1827, 1830). All’interno di questo densissimo testo il filosofo ripercorre le parti e il funzionamento del suo sistema più maturo, collocando la religione rivelata nella sezione dello Spirito assoluto, l’ambito nel quale, come è noto, lo spirito perviene finalmente a se stesso. Riprenderemo qui brevemente alcuni passi dell’opera per ribadire ed approfondire degli argomenti già trattati, che risulteranno poi utili all’inquadramento della dinamica tra religione e filosofia e in ultima analisi dunque al dibattito sulla natura più o meno teologica del pensiero hegeliano. Prima di tutto, riallacciandoci al discorso dell’introduzione a proposito del criterio interpretativo basato sui ruoli di forma e contenuto, bisogna specificare, per cercare di non tradire le intenzioni dell’autore, che nonostante si sia qui proposto di dimostrare un cambiamento persino contenutistico nel passaggio da religione a filosofia (una secolarizzazione ancora più profonda di quella formale), Hegel è molto chiaro invece nel dichiarare la totale identità di contenuti tra le due sfere, le quali entrambe contengono il vero, come sappiamo, ma sotto forma di linguaggi ed espressioni diverse, più o meno autoconsapevoli. Le prime pagine dell’Enciclopedia, infatti, che contengono le premesse alle diverse edizioni, rivelano come la verità si palesi agli uomini sia tramite la religione, che è la modalità della coscienza attraverso la quale tutti possono accedervi, sia tramite la filosofia, che garantisce invece una conoscenza scientifica riservata ai pochi disposti a faticare per ottenerla. Una questione di differenza esclusivamente formale, dunque, che Hegel descrive attraverso parole molto evocative:

Il contenuto è lo stesso, ma, così come Omero dice che alcune cose hanno due nomi – l’uno nel linguaggio degli dei, l’altro nel linguaggio degli uomini ordinari –, allo stesso modo ci sono due linguaggi per quel contenuto: l’uno è il linguaggio del sentimento, della rappresentazione e del pensiero intellettivo la cui dimora è nelle categorie finite e nelle astrazioni unilaterali; l’altro è il linguaggio del Concetto concreto32.

E’ interessante notare, tuttavia, come la religione che intende Hegel sia di fatto molto diversa da quella studiata dalle forme di teologia della sua epoca, tanto da portarci a ipotizzare che seppure egli sostenga che i significati contenuti all’interno di religione e filosofia coincidano, sia avvenuto comunque un tipo di salto qualitativo per lo meno tra cristianesimo canonico e lettura hegeliana. Sempre nelle prime pagine dell’Enciclopedia, egli, oltre a biasimare quella forma di ateismo scettico propria del pensiero illuminista, non risparmia forti parole di critica per le teologie moderne: viene rifiutata in primis la cosiddetta teologia “del cuore”, che si abbandona alla devozione e al sentimento soggettivo, considerato arbitrario e non scientifico; la “teologia ecclesiologica” che impone la dottrina in maniera positiva partendo da un presupposto trascendente rispetto agli uomini “difettosi”; la “teologia storica” che astraendo da qualsiasi indagine di natura scientifica per privilegiare la ricostruzione sterile degli eventi equipara i teologi “ai commessi di una casa di commercio”; ma anche, in ultima analisi, la cosiddetta “teologia razionalista”, che operando in modo simile all’intelletto illuministico, con i suoi principi manchevoli di identità e differenza, divide finito da infinito, uomo da Dio, ed incappa in posizioni unilaterali ed erronee. Quest’ultima, infatti, pur spacciandosi per esercizio del pensiero in materia divina, si risolve in una vuota astrazione dell’intelletto, perché approccia l’oggetto della riflessione in maniera totalmente esteriore, ignorando dunque il vero metodo razionale, quello della Vernunft, che Hegel individua invece nella sua dialettica: “è impossibile spiegare senza l’intervento del proprio spirito, come se il senso fosse soltanto dato”33 e “questo spirito può essere soltanto quello che procede in se stesso secondo necessità, non secondo presupposizioni”34. Hegel scrive poi che né la “religiosità pia” né la “religiosità libera” sono entrate nel dominio della “Cosa”, perché non agiscono all’interno della filosofia. Per indicare la necessità della conoscenza spirituale, inoltre, egli cita il Cristo dei Vangeli che redarguisce i fedeli insolenti della concezione pietistica, quelli che gridano “Signore, Signore” per lodarsi dei loro atti di fede (Matteo 7,20), e in seguito pronuncia la frase “dal corpo di chi crede in me scorreranno fiumi di acqua viva” (Giovanni 7,38), indicando con questa immagine il ricevimento della verità tramite uno spirito che vivifica i corpi, lo Spirito santo. Hegel ritiene, dunque, che sia giunto il momento di fondare una teologia che operi “mediante il concetto” e l’azione spirituale “che vivifica”, poiché il suo Dio è essenzialmente razionale e quindi Spirito. La vera

33 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp.109-110 34 G.W.F. Hegel, Scritti di Filosofia della Religione, Verifiche, Trento 1975, pp.105-106

scienza della religione è, secondo Hegel, quella che potremmo chiamare teologia speculativa, la quale è in grado di conciliare le due istanze sopra riportate di sentimento e ragione in virtù della sua comprensione del movimento spirituale e quindi, in ultima analisi, in virtù della sua natura filosofica. La teologia per Hegel è essenzialmente filosofia e in questo caso, specificando ovvero tali premesse, si può affermare che un cambiamento si sia verificato anche a livello di contenuto e significato fondamentale: dopotutto la posizione di Hegel va sostanzialmente a negare sia il carattere sentimentale della fede cristiana, legato al mistero al quale la ragione non può mai partecipare completamente, sia la trascendenza di Dio che vede contrapposti la sua infinitezza e il mondo finito e umano. Così facendo, tale posizione si risolve in un paradigma teologico completamente differente, che merita di essere indagato senza il condizionamento di una lettura cristiana dogmatica e presupposta.

Un altro punto da affrontare, legato alla razionalizzazione delle vecchie forme di teologia, in quanto sua cornice più generale, è la critica della metafisica passata e in particolare dei predicati da essa utilizzati per descrivere l’Assoluto. Hegel ammette che essendo la metafisica la scienza per cui ciò che è, in quanto viene pensato, può essere conosciuto nella sua essenza fondamentale, essa è in una certa misura superiore alla filosofia critica successiva, perché di fatto contiene seppur in maniera ingenua il principio cardinale dell’identità tra essere e pensiero. Tuttavia questa verità ultima, così come gli attributi che la metafisica assegna ai suoi oggetti (anima, mondo e Dio), sono trattati come presupposti, nel senso che invece di essere esaminati nel loro funzionamento dialettico si mostrano limitati ed esteriori. La metafisica quindi attribuiva ad anima, mondo e Dio delle determinazioni dell’intelletto come se questi oggetti fossero “soggetti precostituiti”, senza indagare la loro vera natura essenziale: ciò significa che essa, nell’usare i predicati di esistenza (“Dio ha esistenza”), di finitezza e infinitezza (il mondo finito o infinito) o di semplicità (“l’anima è semplice”), “non ha sottoposto a esame se tali predicati siano in sé e per sé veri, né se la forma del giudizio possa essere la forma della Verità”35. Il vero, infatti, non può procedere da rappresentazioni che svolgono il ruolo di soggetto presupposto per garantire al pensiero un “sostegno stabile e saldo”, al contrario è quest’ultimo a dover giustificare le prime. E’ il predicato a dire che cos’è il soggetto e senza di esso, se ci limitiamo ovvero alla sola rappresentazione “Dio”, nella proposizione

“Dio è eterno” non sappiamo propriamente cosa “Dio” sia. Hegel conclude che la forma del giudizio è inadatta ad esprimere la verità perché non può cogliere lo “Speculativo” necessario a comprendere la relazione tra soggetto e predicato. Per questo motivo la metafisica, incapace di pensare dialetticamente e gestire l’identità di due affermazioni opposte perché ancora affetta dall’astrattezza dell’intelletto, è dogmatismo, al pari di quella teologia che non riesce a concepire la natura di Dio come divina e umana al contempo. Tutto ciò confluisce nella questione delle prove dell’esistenza di Dio, già trattate nelle Lezioni nei rispetti della prova ontologica e qui riprese per chiarificare la loro natura incredibilmente complessa: corrette in se stesse come lo era l’assunto metafisico dell’identità tra essere e pensiero e per questo superiori alle critiche moderne di pensatori come Kant, ma dogmatiche e soggettive, e dunque non spirituali, nel loro essere presupposte. Hegel scrive che l’obbiettivo della ragione della metafisica è quello di conciliare “l’identità astratta” (ciò che veniva considerato il concetto di Dio) e l’essere, poiché Dio, essendo l’ente supremo che accoglie tutte le realità, contiene anche quella dell’esistenza. Per portare avanti questa unificazione si profilano due strade diverse, quella che va dall’essere all’astratto del pensiero e quella inversa. La prima corrisponde alla prova cosmologica e alla prova fisico-teologica, che determinano il mondo rispettivamente “come una collezione di accidentalità infinitamente molteplici” e “come una collezione di fini e di rapporti finalistici infinitamente molteplici”. Entrambe operano un passaggio da questa condizione di accidentalità e singolarità ad una di necessità e universalità, il cui essere è diverso da quello del mondo e coincide con Dio. Si tratta, tuttavia, appunto di un semplice passaggio, di un “sillogismo”, che non giustifica effettivamente l’esistenza di Dio nella realtà: la molteplicità del mondo empirico, infatti, non mostra così come è realmente l’universalità rappresentata dal pensiero e neppure dunque l’elevazione in esso della finitezza. Da questo punto di vista ha paradossalmente ragione Hume, uno di quei pensatori critici della modernità che vengono surclassati rispetto alla vecchia scolastica, il quale afferma che dalle percezioni del mondo sensibile ed empirico non si può estrarre l’universale e il necessario. In realtà, tuttavia, è esattamente quello che avviene, nella misura in cui però, si comprende, seguendo Hegel, che il famoso passaggio da finito a infinito non è una semplice relazione affermativa, “come una conclusione sillogistica da un termine, che sarebbe e rimarrebbe, a un altro termine che sarebbe anch’esso”36, ma al contrario un movimento che avviene all’interno

dello stesso pensiero e dell’uomo in quanto essere pensante. Quando si pensa il mondo empirico, esso non rimane più nella sua primitiva forma sensibile, perché il pensiero lo eleva a universalità attraverso la sua mediazione, esercitando quindi una negazione su quel materiale: “il nucleo intimo del percepito viene portato alla luce mediante l’eliminazione e la negazione dell’involucro”37. Le prove metafisiche dell’esistenza di Dio, dunque, sono difettose perché mancano di questo momento negativo fondamentale, che non a caso rappresenta il cuore della dialettica di Hegel, il movimento attraverso cui il concetto si autodetermina. In questo modo Dio perde i caratteri esteriori e irrelati del passaggio non dialettico e diviene Spirito, struttura logico-concettuale nella quale l’essere finito è ricompreso ed elevato attraverso la mediazione del negativo (egli attraversa infatti l’incarnazione in Cristo e la sua conseguente morte in croce). Allo stesso modo nella seconda via dell’unificazione, seppur il movimento sia opposto, ovvero passaggio dall’astratto del pensiero all’essere, deve essere portata alla luce l’autorelazione del concetto e dell’essere. Si tratta della prova ontologica già indagata, in cui l’opposizione si profila esplicitamente tra pensare ed essere invece che tra le due forme di essere individuale/accidentale e universale/necessario. E’ chiaro che il risultato di questa identità sia frutto di quel movimento concettuale appena citato e non di una dogmatica affermazione in merito all’esistenza dell’ente più perfetto di tutti. Kant, non avendo presente questa dinamica, critica alla maniera di Hume l’esistenza di Dio, specificando, nel caso della prova ontologica, che viceversa dal concetto non si può cavare l’essere. Hegel si rivolge a tal proposito contro il celebre argomento kantiano dei “cento talleri”, specificando che Dio rappresenta un oggetto ben diverso dai cento talleri, in quanto essendo egli nient’altro che la veste del Concetto che si autodetermina attraverso la negazione della propria essenza astratta e la concrezione nell’esistenza, deve per forza implicare in se stesso l’essere. Questo passaggio sarà ripristinato inizialmente nel cosiddetto sapere immediato, ovvero la fede, ma in seguito sarà la filosofia con la sua forma logica ad esplicitarne correttamente il meccanismo necessario. Anche qui risulta incredibile come Hegel, sostenendo una posizione apparentemente molto teologica e fideistica stia in realtà rivolgendo una pesante critica alla teologia di stampo scolastico e al pensiero dogmatico della religione e della metafisica in generale. Nel voler dimostrare la veridicità dell’esistenza di Dio, contro lo scetticismo dell’Aufklärung, ci presenta una forma di teologia completamente rinnovata, un’esposizione logica e filosofica appunto,

di certo lontana dalla religione considerata nei casi della teologia scolastica e razionale o sentimentale e devozionistica. Che il cristianesimo abbia da sempre avuto questo nucleo speculativo sembra essere un’idea di Hegel stesso, dunque, dal momento che molti interpreti potrebbero invece considerare il lavoro di concettualizzazione che egli ha operato nel passaggio da forma rappresentativa a forma concettuale una “violenza” nei confronti della natura essenziale della religione cristiana: vedremo a questo proposito nel capitolo successivo come Vitiello sostenga che nella filosofia hegeliana ci sia il rischio che essa “si impoverisca”, impoverimento inteso qui, a mio parere, come cambiamento totale e dunque secolarizzazione. A riprova di queste modifiche formali, che riflettono forse, come dicevamo, anche un cambiamento di contenuto, per lo meno tra teologia cristiana e teologia hegeliana, riportiamo infine l’ennesima descrizione del movimento trinitario, che si presenta qui nell’Enciclopedia in maniera completamente logicizzata e dunque, per usare il concetto appena proposto, secolarizzata. Nella parte sulla “religione rivelata” della terza sezione, quella sullo Spirito assoluto, Hegel scrive prima di tutto che in essa Dio è letteralmente rivelato, in quanto egli è lo Spirito e la natura dello Spirito è appunto quella di manifestarsi. In seguito, specifica che proprio per questo egli non può essere il Dio nascosto o invidioso dei pagani e di una certa teologia che “ha battuto vie più facili” per risolvere il problema della sua conoscenza, affermando che essa è impossibile. Come è evidente, già la semplice affermazione sull’identità tra Dio e Spirito genera divergenze, ma andando avanti la questione si rende ancora più logica e concettuale, e quindi lontana dalla classica impostazione teologica, quando Hegel afferma che in virtù di questa identità, Dio, al pari dello Spirito che è e si sa anche Natura, deve farsi e sapersi nell’uomo. Per questo motivo egli deve attraversare tra sfere diverse: il “Contenuto eterno che nella sua Manifestazione permane presso se stesso”, ovvero il momento dell’universalità come puro pensiero che per non essere semplice presupposto deve diventare “creatore del cielo e della terra”; la “Differenziazione tra l’Essenza eterna e la sua Manifestazione, la quale, mediante questa Differenza, diviene Mondo fenomenico in cui entra il Contenuto” e quindi l’esistenza concreta dello spirito finito che è male ma al contempo riconciliazione nel Figlio, identità tra sé e altro da sé; il “Ritorno infinito e la Conciliazione infinita del Mondo esteriorizzato con l’Essenza eterna, come il Rientro dell’Essenza stessa nell’Unità della sua pienezza a partire dal Fenomeno”38, la singolarità in cui universale e particolare ritornano nel loro fondamento e lo Spirito è

finalmente “effuso” nella vita, ovvero concreto. Da tale evoluzione emerge non solo una differenza notevole del linguaggio, ovvero della forma filosofica rispetto a quella religiosa, ma anche una diversa configurazione del cristianesimo, modificato da concetti quali la necessità della manifestazione, l’immanenza del divino nel finito e la rivalutazione del male all’interno della creazione.