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Parte II – Analisi e critica delle interpretazioni della filosofia della religione

2. L’interpretazione teologica: da Revelatio a Offenbarung

2.2 Critiche all’interpretazione teologica

Immaginare uno scenario che ponga l’effettiva inesistenza del finito risulta un inganno dell’intelletto, la facoltà che non è in grado di concepire la negazione e il divenire fino in fondo: nella Logica, infatti, Hegel è chiaro quando afferma che pur essendo il non essere l’essenza dell’essere finito, questo “perire” delle cose non deve essere assunto come risultato finale, ma ricompreso al contrario come un’ulteriore morte che lega le finitezze

76 C. Bruaire, Logique et religion chrétienne dans la philosophie de Hegel, Editions du Seuil, Paris 1964, pp.27-28

in una catena di passaggi in costante divenire dialettico. Come ci ricorda Martinetti a proposito dell’interesse di Hegel per il mondo finito, dunque, l’infinito, nella misura in cui esso è presente all’interno dei singoli finiti che trapassano l’uno nell’altro, si manifesta come sintesi di questa catena. Allo stesso modo si potrebbe dire che il Dio della proposizione “solo Dio è” si annida nei momenti finiti costituiti dalle esistenze umane che, riconoscendosi in esso, muoiono e negano la loro morte. Per questo motivo, contro la lettura sopra presentata che vede Hegel come un assolutista e un teologo “nemico della finitezza”, proporrei due critiche in particolare che, pur essendo declinazioni della medesima dinamica, presenteranno rispettivamente natura più logica e dunque incentrata sul divenire delle cose (contro Hegel assolutista) e natura invece religiosa legata al rapporto tra uomo e Dio (contro Hegel teologo):

- Se Hegel è un assolutista che ha risolto le finitezze all’interno di una struttura ideale, come può la dialettica del suo sistema muoversi? In altre parole, cos’è che diviene se non le finitezze che subiscono continue mediazioni logiche e ontologiche nella realtà? In questa prima critica si riassume lo scontro tra le concezioni dialettiche di destra e sinistra hegeliana: quando si diceva che la prima era “conservatrice” invece che “rivoluzionaria” si faceva accenno a tale dinamica di immobilità, individuabile allo stesso modo nella concezione cristiana di Dio. Quando Antonio Rosmini, infatti, scrive nella sua Teosofia che un Dio che diviene non può essere Dio78, egli fa riferimento proprio alla centralità di quel concetto di divenire che in Hegel rende le finitezze le vere protagoniste del movimento dell’assoluto. Quest’ultimo, dunque, risulta un Dio che è letteralmente “rivoluzionario”. Ipotizzare, al contrario, l’esistenza di un concetto di assoluto che sin dal principio ha ricompreso tutto al suo interno, anche i finiti che in questo caso non avrebbero concreta sussistenza, impedisce di cogliere quel movimento di determinazione e negazione che caratterizza l’andamento del reale. Lo Spirito, come sappiamo, deve per forza subire la

78 “Dio stesso per lui diventa (leggi: diviene), come diventa il Mondo e lo Spirito. Ora, poscia che ciò che diventa non può essere Iddio, conseguita che, sebbene nel suo sistema tutto si riduca ad un solo principio, il diventare; tuttavia egli non sia panteista, perché Iddio manca affatto nel suo sistema, mancando le proprietà e il carattere di Dio di essere immutabile e di non poter diventare cosa alcuna. In una parola egli si colloca così nella seconda classe de’ Panteisti, che propriamente Atei devono denominarsi”; A. Rosmini, Teosofia I, Marzorati, Milano 1967, p.694

mediazione della concretizzazione nel mondo, non può essere solo logica, che di fatto viene definita non a caso “il regno delle ombre”. Questa concretizzazione è garantita dalle finitezze, l’unico vero luogo in cui avviene il movimento e in cui lo Spirito, abbandonata l’idealità della “trinità immanente”, può finalmente pervenire a se stesso in maniera completa. Ne deriva che concepire la filosofia di Hegel come un idealismo in cui tutto ciò che conta è il concetto e quindi il Dio precedente alla creazione del mondo, genera un’aporia che si scontra con il cuore di quella stessa filosofia, ovvero il movimento dialettico. Proprio perché lo Spirito di Hegel non è un concetto immobile e trascendente, il finito deve avere una sua dignità ontologica che ospiti il divenire effettivo di tale struttura. In questo senso l’assoluto di Hegel, invece che costituirsi a scapito del mondo reale, invera quest’ultimo e lo rende in una certa misura ancora più concreto e necessario. La critica può essere riassunta affermando che la verità per Hegel non è mai un’immediatezza, non è un principio presupposto che non ha bisogno di specificazione, ma al contrario è sempre il risultato di una mediazione, di un divenire tra categorie logiche e fatti storici.

- In ambito religioso questa visione dell’assoluto si traduce in un concetto di Dio che abita nella trinità economica, un Dio che non può essere qualcosa di “superiore” al mondo in senso separato. Una condizione simile, infatti, porterebbe con sé tutti quei caratteri di trascendenza, mistero, positività e gratuità volontaristica che criticheremo in seguito e abbiamo già trattato, in parte, nei capitoli precedenti. Il secondo punto contro la mortificazione del finito si esplica proprio nella questione del “luogo” di Dio: dov’è Dio se non nel finito e quindi nell’uomo? E’ proprio quest’ultimo che risulta rivalutato dalla filosofia della religione di Hegel, poiché è nell’umanità che in definitiva si svolge il processo dell’assoluto, e quindi di Dio, in maniera completa e consapevole. Abbiamo visto, infatti, come in nessuna pagina della sua opera Hegel sostenga la benché minima ipotesi di trascendenza, oggetto anzi delle sue feroci critiche nei confronti della metafisica e della teologia classiche, ma anche di quell’ermetismo appena indagato che aveva iniziato ad intuire questa immanenza divina nell’uomo. Non c’è dubbio, quindi, che il Dio di Hegel non sia una sostanza collocata “al di là delle stelle”, come vorrebbe in teoria il

cristianesimo vero e proprio. Né tantomeno, sempre riallacciandoci alla tradizione mistica già esaminata, Hegel accenna ad anime del mondo o ad enti cosmici come vorrebbe la lettura neoplatonica di Magee. Allo stesso tempo, nella sua filosofia non troviamo neanche traccia di un immanentismo di natura panteistico-naturalista, dal momento che non tutte le finitezze possono raggiungere il livello di totale consapevolezza dello Spirito. La natura e gli animali, infatti, non sono dotati di capacità di autocoscienza come lo è l’uomo: sarà proprio quest’ultimo a garantire il luogo di sviluppo dell’idea divina che stavamo cercando. Possiamo concludere che la posizione finale di Hegel, secolare nella misura in cui nega i caratteri principali della religione, come appunto la trascendenza, sostiene un’immanenza del divino nell’umano, un immanentismo umanista: “Lo spirito del mondo ha realtà solo nello spirito dell’uomo o è niente altro che il concetto dello spirito che si svolge e si compie nello spirito storico e nella sua autocoscienza. Non ha un proprio regno, un proprio mondo, un proprio cielo”79. Il processo di auto-riconoscimento dell’assoluto di cui si parlava non avviene in un mondo ideale né nella semplice natura, ma nel filosofo autocosciente che grazie all’esercizio della ragione riesce a cogliere l’identità tra la sua essenza e quella universale. A riprova di ciò vi è il fatto che la parola ultima di Hegel sul concetto di assoluto e di Dio riguarda non la sostanza, bensì il sapere: l’idea della Logica così come l’ultima figura della Fenomenologia sono sapere assoluto e più propriamente sapere assoluto che si sa all’interno degli uomini. Ne deriva, in conclusione, che la teologia hegeliana di certo non privilegia il Dio della trinità immanente a scapito dell’umanità finita. Al contrario ci indirizza verso una posizione di totale umanismo, forse avvicinabile a quella atea.

Oltre a questi due primi punti fondamentali, che come abbiamo visto mirano a rivalutare il finito di contro all’interpretazione teologica della destra hegeliana e dei suoi successori, possiamo indicare una serie di altre critiche che riconsiderano in maniera più estesa le questioni accennate nella prima parte della tesi. Tali ulteriori argomentazioni a favore della lettura anti-teologica riprendono le delicate dinamiche dei rapporti tra logica, storia e religione accennati all’inizio del capitolo, invertendo tuttavia la subordinazione della

filosofia a quest’ultima che la destra aveva cercato di imporre. Inoltre, proprio in virtù della critica dell’assoluto da noi appena esposta e quindi del ruolo fondamentale attribuito al finito, all’incarnazione storica e all’uomo, i punti qui riportati si concentreranno anche sulle diverse e rivoluzionarie concezioni di necessità, libertà e umanismo. Quest’ultimo risulterà infine il vero oggetto della nostra indagine e il traguardo attribuibile all’opera di Hegel.

1) Prima di tutto parliamo di storia, ovvero del rapporto che Hegel intrattiene con il processo storico in quanto tale e delle relative conseguenze in ambito religioso. Come si diceva nell’introduzione della prima parte, Hegel è senz’altro un filosofo della storia poiché è innanzitutto interessato alla “realtà del suo tempo”. Proprio per questo motivo, egli sostiene che l’obbiettivo primario del filosofo sia quello di collocare all’interno della storia i principali fenomeni “spirituali” che si succedono nello scorrere delle epoche. In tal modo, essi possono essere contestualizzati in ciò che egli considera l’andamento del reale, ovvero la dialettica di natura logica che costituisce la struttura dell’intero. Il cristianesimo non sfugge di certo a questa pretesa, dal momento che al pari di altre manifestazioni dello Spirito si presenta come un grado di consapevolezza di quest’ultimo appartenente a un’epoca particolare, la modernità. Contrariamente alla visione per la quale la religione cristiana sembra essere qualcosa di assoluto, qui si profila l’atteggiamento decisamente più secolare di una trattazione storico-scientifica della religione: non è la storia ad essere al servizio del cristianesimo, ma quest’ultimo che serve ad esplicitare la struttura che è alla base del processo storico, facendolo in una maniera certamente più completa e consapevole delle altre religioni, ma comunque in qualità di “fase” dello sviluppo dello Spirito. Cerchiamo di spiegare meglio questa prima critica, impiegando i termini di Assoluto e di Dio per dimostrare come l’uno sia una semplice rappresentazione storica dell’altro. Biasutti ci ricorda giustamente che Hegel parla di un Assoluto che si manifesta nella natura e nella storia. Questa struttura, tuttavia, non viene mai indicata come l’oggetto esclusivo della rivelazione cristiana in quanto tale. Non ci sono indizi, ovvero, di una religione che dà senso al resto della storia come se nel suo credo fosse presupposta una verità non già operante nelle epoche precedenti. Biasutti scrive che non è tanto il cristianesimo ad avere il privilegio di essere latore del messaggio rivelativo

dell’Assoluto, ma è piuttosto la storia con il suo andamento di natura concettuale a costituire la manifestazione di quest’ultimo, “in modo tale che non è più il Cristianesimo, come valore assoluto presupposto, a conferire validità allo sviluppo storico, quanto piuttosto il divenire stesso della storia a riconoscere, a posteriori, un valore assoluto al Cristianesimo, in quanto fatto storico”80. Ne deriva che tutti quei dogmi e quelle verità rivelate che il cristianesimo aveva considerato suo appannaggio esclusivo, non sono altro che simboli di un processo concettuale e storico che esprime da sempre la natura ultima della verità, intesa come la sostanza che si fa soggetto, l’uomo che realizza il proprio carattere divino. La dialettica religiosa dell’uomo-Dio viene sussunta in qualcosa di molto più ampio, che modifica infine lo stesso contenuto della religione: la Menschwerdung cristiana, infatti, sfocia di certo in un cambiamento formale, poiché inserendosi nella storia si palesa come uno dei vari “linguaggi” della coscienza, persino non esauriente, di dire la verità; ma in più, assume anche un significato essenzialmente diverso rispetto a quello religioso, poiché non è il Dio cristiano come ente sovrasensibile che si manifesta, ma una struttura differente, lo Spirito, che agendo da sempre nella storia sotto vesti diverse, eleva microcosmo umano e macrocosmo divino. L’importanza dell’immanenza divina nell’uomo come ulteriore elemento di secolarizzazione verrà trattata più avanti. Qui intanto è importante specificare che tale processo, oltre ad essere il risultato del movimento del concetto, ha anche natura storica, proprio perché, come si diceva, esso ha attraversato nel tempo una serie di esplicitazioni responsabili del progressivo insorgere dell’identità tra sostanza e soggetto. Pur avendone rappresentato un esempio molto sofisticato, il cristianesimo rimane comunque una di queste forme, tanto è vero che Hegel fornisce una profonda trattazione anche delle altre religioni, dei personaggi e della cultura in generale precedente all’avvento di Cristo. Come si è più volte ribadito, lo Spirito e il suo concetto agivano in maniera ancora non manifesta già al di sotto di queste impostazioni più ingenue. L’Idea, infatti, non irrompe a un certo punto in una determinata categoria della logica, ma è presente sin dall’inizio del processo, in veste di suo motore che ha bisogno di esplicitazione. Ne deriva che Hegel non dà realmente posizione privilegiata ad alcuna religione. Come abbiamo visto,

infatti, non è la teologia particolare di una determinata religione ad essere il fulcro della sua filosofia, ma al contrario il funzionamento dello Spirito:

Ciò che importa è come lo Spirito comprende, se è lo Spirito vero, retto, che comprende. Questo spirito può essere soltanto quello che procede in se stesso secondo necessità, non secondo presupposizioni. […] Avanzare il diritto che la religione si sviluppi fedelmente e francamente a partire dalla ragione e che la natura di Dio e la religione siano trattate senza prendere come punto di partenza la parola determinata81.

Nelle Lezioni, per l’appunto, Hegel non solo analizza una serie di altre religioni oltre al cristianesimo che presentano caratteri della sua dialettica, ma esplicita anche che “l’essenziale, ciò che conta anzitutto, è il passaggio dal concetto nella realtà”82. Facendo ciò, dimostra come non sia importante che il Dio di cui si parla sia esclusivamente quel Dio della Bibbia della tradizione cristiana. Di conseguenza è giusto specificare che seppure il cristianesimo sia stato al centro della filosofia hegeliana in maniera eminente, non ne è tuttavia l’ispiratore. Lo dimostra proprio la dinamica sopracitata della trattazione di altri personaggi e culture, motivo per cui Hegel non ha sempre e solo considerato Cristo come “mediatore assoluto” e “fulcro della storia”. E’ interessante notare, infatti, come già in Socrate egli individui il principio fondamentale che sarà poi alla base del suo cristianesimo, ovvero l’interiorità del vero nell’uomo. Soprattutto negli anni di Tubinga, in cui Hegel era più legato alla figura di Socrate che a quella di Cristo, egli sottolinea l’insorgere della libertà infinita e dell’autocoscienza all’interno della filosofia socratica ben prima di riconoscerli nel fenomeno religioso dell’incarnazione. Che l’uomo debba pervenire alla verità in se stesso e per se stesso è il messaggio fondamentale di Socrate, con il quale ha inizio “la riflessione della coscienza in se stessa, il sapere che la coscienza ha di sé come di ciò che è l’essenza – o se si vuole, la coscienza che Dio è uno spirito, e, se si preferisce in una forma più grossolana, sensibile, che Dio riveste forma

81 G.W.F. Hegel, Scritti di Filosofia della Religione, op. cit., pp.105-106

umana”83. Sembra evidente, secondo la mia opinione, che essendo quella verità apparentemente cristiana dell’identità tra uomo e Dio già in nuce nelle parole di un filosofo del V secolo a.C., quest’ultima non può essere il frutto di una religione comparsa in un determinato momento storico, ma qualcosa di presente, in maniera diversa, tanto in Socrate quanto in Cristo, i quali vengono giustamente definiti da Biasutti “tappe del cammino dello Spirito del mondo”. Il fatto che Cristo costituisca una “tappa” più consapevole e matura non implica la negazione di tutta la storia precedente al momento della sua rivelazione, la quale, come dicevamo, una volta collocata nel divenire storico, sposta l’attenzione dal carattere più propriamente religioso del suo messaggio (il Dio trascendente che crea e istruisce gli uomini) a quello prevalentemente filosofico e secolarizzato (l’uomo che diventa consapevole della sua propria natura razionale).

2) Strettamente legata a questa critica riguardante il carattere storico del cristianesimo e la sua posizione più o meno privilegiata all’interno della filosofia hegeliana, risulta essere la questione della fondazione, di cui abbiamo parlato nelle conclusioni della prima parte in relazione all’interpretazione teologica di Vincent Holzer. Ricapitolando brevemente i concetti considerati nell’ambito dei rapporti tra logica concettuale e religione rappresentativa, ricordiamo che è la prima a fondare la seconda, in quanto, come abbiamo appena visto, il cristianesimo è una semplice seppur matura modalità di manifestazione nella storia di una struttura logica da sempre operante. Ciò significa che la logica costituisce la vera natura di quel Dio che è considerato Spirito, ed esattamente come era stato indicato per la dinamica tra storia e cristianesimo, la forma rappresentativa della religione risulta solo la veste di un apriori logico che soggiace e fonda assolutamente tutto il divenire di questo impianto spirituale. In questa consapevolezza si svela il carattere inadeguato del linguaggio religioso rispetto a quello logico-concettuale, motivo per il quale si può parlare innanzitutto di una secolarizzazione a livello formale. Tramite l’istituzione di un legame tra logica e processo storico, tuttavia, possiamo fare un passo avanti e affermare che da ciò deriva anche una modifica contenutistica: il

cristianesimo, appunto, da posizione assoluta e presupposta incentrata sull’avvento del Dio della teologia, diviene momento di un progressivo e logico emergere della verità all’interno dell’uomo e della storia. Non è il Dio cristiano ad agire, ma lo Spirito, il quale non ha natura trascendente né tantomeno positiva o mistica come nel cristianesimo tradizionale, ma è al contrario storia, realtà e se vogliamo finitezza. E’ proprio in virtù del movimento spirituale, dunque, che la logica viene a presentarsi come il vero fondamento del reale, compresa quella parte di esso costituita dalla religione cristiana. Quest’ultima di conseguenza non è come vorrebbe Holzer il punto di partenza del pensiero di Hegel, ma una sua “tappa”. Sostenendo, infatti, l’opinione per la quale Hegel non sia partito da una decisione di fede, ma da una riflessione sulla finitezza della realtà finita, Biasutti riassume chiaramente il problema del rapporto tra logica e religione in questa maniera:

Da questo lato allora la religione diventa essa stessa “l’opera della ragione che si rivela a se stessa”: perciò, essendo uno dei compiti storici della filosofia quello di costruire la religione su basi razionali, diviene naturale allora ricercare nella Logica l’aiuto per un’adeguata ermeneutica della filosofia della religione, modificando così il rapporto logica-religione, quale per lo più viene inteso, in quanto si è fuori strada ricercando l’origine della Logica hegeliana nella teologia cristiana84. Sempre seguendo questo ragionamento si comprende più accuratamente l’affermazione hegeliana, contenuta nell’Enciclopedia, secondo la quale “la Religione può certo esserci senza la Filosofia, mentre la Filosofia non può essere senza la Religione, perché la racchiude entro sé”85. Il vero significato di queste parole non risiede nella subordinazione del pensiero filosofico alla religione cristiana. Al contrario ciò che Hegel cerca di dire è che la religione può ben sussistere senza la filosofia proprio perché essa non costituisce un punto di arrivo a cui quest’ultima deve pervenire. La filosofia invece la contiene, poiché essa è lo sguardo universale sulla storia dello Spirito, il “pensiero del proprio

84 F. Biasutti, Assolutezza e Libertà. L’idea di Religione in Hegel, op. cit., p.149