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Parte II – Analisi e critica delle interpretazioni della filosofia della religione

1. L’interpretazione mistica

1.3 L’ermetismo speculativo: Jakob Böhme

Giungiamo, infine, alla trattazione dell’ultimo autore di questo primo capitolo, il più importante ai fini della nostra analisi dell’interpretazione mistica e dei legami tra Hegel e la tradizione che abbiamo definito ermetica. Jakob Böhme fu una personalità quanto mai singolare, un genio di umili origini attraversato da un profondo sentimento di affinità per la mistica e la filosofia. Nelle Lezioni Hegel lo descrive come un calzolaio comune ma allo stesso tempo sensibilissimo, soprattutto nei confronti della concezione del negativo e della trinità. Nato a Görlitz da genitori poveri, Böhme fu effettivamente protagonista durante la sua vita di una serie di episodi estremamente mistici, visioni ed esperienze interiori che giustificano la sua inequivocabile appartenenza alle schiere del misticismo e della teologia. Nella sua opera, infatti, questi ultimi sono ancora sostanzialmente legati, laddove al contrario in Hegel e in questa tesi sono stati separati per indicare la totale scientificità del suo discorso sul divino. Il filosofo svevo è profondamente colpito dai tentativi di Böhme di carpire la natura dell’Idea e di Dio e seppure specifichi sin da subito che quei tentativi risentono di una forma aconcettuale del tutto inadeguata, definisce il suo predecessore teosofo il primo philosophus teutonicus ad interpretare la filosofia in una determinata maniera. Con ciò ci si riferisce evidentemente alla traccia di quella mistica speculativa mantenutasi intatta in tutte le diverse tradizioni di pensiero qui analizzate: Böhme individua una ragione nel mondo che svolge il ruolo di principio propulsore del tutto, sostenendo che in virtù di questa ragione Dio può essere

conosciuto dagli uomini, anzi essi gli sono necessari. Scrive Elizabeth S. Haldane nel suo articolo “Jacob Böhme and his Relation to Hegel”:

In a sense no one was further removed from mysticism than Hegel, if mysticism is regarder simply as what is incomprehensible, or at least beyond our ken. That form of mysticism he connects with superstition, and he believes it to be false and transient. But mysticism in Böhme’s sense, and in the sense of many others to whom the name of mystic is given, is really something very different. It represents what is more akin to speculative thought. […] In this case the mystical is taken to indicate, not a region somewhere outside the embrace of thought, but simply one beyond the reach of the abstract understanding in its own unaided efforts. […] the mystery is a mystery indeed, and yet no mystery, for it is revealed to us through Reason. Nothing is too great for us, as rational creatures, to know; and yet what we know, cannot be known by astract thinking68.

Viene portato qui ad estreme conseguenze il carattere razionale della speculazione intorno al principio primo che avevamo individuato in Proclo e in Eckhart, sebbene in questi ultimi fosse esplicato in maniera ancora non perfettamente formata. Ciò significa, ovvero, che in questi pensatori il principio rimane mistero (Eckhart) oppure la sua dialettica presenta ancora una forma troppo immediata (Proclo). Böhme, invece, intuisce il legame “mediato” tra la conoscenza dell’essere umano e Dio, e nonostante lo faccia nella figura ancora barbara della rappresentazione mistica, manifesta un’acuta comprensione della necessità e dell’intellegibilità che caratterizzano questo rapporto: “Non hai bisogno di chiederti dove è Dio. Ascolta, uomo cieco: tu vivi in Dio e Dio in te; e se vivi santamente, allora dentro di te tu stesso sei Dio”69. Questi concetti si concretizzano nella trinità che Böhme espone nella sua teosofia, l’elemento principale del suo legame con la filosofia hegeliana. La trinità di Böhme, infatti, è eccezionalmente più sofisticata di quella di Proclo, perché oltre ad avere a disposizione le rappresentazioni del cristianesimo e quindi la vera mediazione, insiste fortemente su quest’ultima: egli mette in primo piano il momento negativo presente all’interno della trinità in quanto tale, superando in questa

68 E.S. Haldane, Jacob Böhme and his Relation to Hegel, in The Philosophical Review, Duke University Press, Durham

1897, Vol.6, N.2, p.149

maniera anche lo stesso cristianesimo che tendeva a mantenere indifferenziato il Dio sommamente buono e autosufficiente. Poiché Dio è sempre “self-distinguished”, Böhme non lo concepisce mai come statico e trascendente, ma al contrario lo denota come processo attivo all’interno della storia e del mondo: “Ma non devi pensare che Dio se ne stia o fluttui nel cielo o al di sopra del cielo, come una forza o una qualità che non ha in se stessa nessuna ragione o scienza”70. Un processo, tra l’altro, che vuole a tutti i costi conoscersi e realizzarsi in se stesso e la cui autorivelazione non può avvenire senza “un altro” che si ponga di fronte a lui. Il fatto che Böhme, dunque, sia giudicato da Walsh come “l’araldo del Dio che si evolve e realizza se stesso”71 rivela la sostanziale ermeticità del suo pensiero: più che in tutti gli altri mistici, il Dio böhmiano non può essere senza l’uomo e senza l’attività razionale svolta da quest’ultimo. La separatezza metafisica che caratterizzava gli altri autori viene progressivamente colmata dalla teosofia di Böhme, che concepisce finalmente in maniera adeguata la necessità dell’immanenza divina nell’umano. Proprio in questa dipendenza risiede il vero significato della caduta e si chiarifica l’attenta trattazione di Böhme nei confronti di Lucifero e del peccato originale. Come in Hegel, poiché Lucifero e Adamo peccatore costituiscono il momento negativo della dialettica dell’Uno, essi devono cadere necessariamente affinché esso sia concreto. Certamente Böhme non aveva ancora compreso quel concetto preciso di sviluppo in cui un risultato positivo segue dall’interno del momento contraddittorio e negativo della progressione. A questo si rifaceva anche la critica di Donà riguardo la mancanza di una processione che si muove all’interno di un Assoluto da sempre presente, ab origine. In ogni caso, tuttavia, Böhme aveva già teorizzato nella sua trinità una forma di “diversità nell’identità”, arrivando a legare la trinità cristiana non tanto alla dottrina in quanto tale ma a ciò che verrà considerato da Hegel come l’Idea assoluta. Egli sostiene che tale trinità, ovvero Dio, è manifesta ovunque, nel mondo quanto negli uomini, e il suo “grande mistero” non fa altro che rivelarsi costantemente. Nella prima sfera trinitaria Dio, infatti, è un Abisso indifferenziato esattamente come nella “notte in cui tutte le vacche sono nere” di Hegel. Böhme tuttavia ci dice in seguito che Dio ha bisogno di garantirsi uno specchio

70 J. Böhme, Aurora, cap.3. Questa citazione è solo in Gr, che la trae da Thaddä Anselm Rixner, Handbuch der Geschichte

der Philosophie zum Gebrauche seiner Vorlesungen, Sulzbach: Kommerzienraths J.E. von Seidel Kunstund

Buchhandlung, 1822-1823, Vol.II, Anhang, p.106

71 D. Walsh, The Mysticism of Innerworldly Fulfillment: A Study of Jacob Böhme, University Presses of Florida, Gainesville 1983, p.1

in cui riflettersi per palesarsi a se stesso e da ciò deriva la necessità del secondo momento, l’uomo, o anche la caduta. E’ all’interno di Dio stesso dunque che avviene quella negazione che il cristianesimo voleva relegare alla sola sfera finita dell’umanità e della natura. Abbiamo già parlato di come Hegel superi questo dualismo astratto con la sua reinterpretazione dell’episodio del giardino dell’Eden. Allo stesso modo Böhme individua la verità di un Dio malvagio, concentrandosi eccessivamente sul concetto di ira divina e sulla figura del diavolo poiché, come Hegel ben sa, la sua teosofia è ancora ferma alla rappresentazione. In seguito al momento negativo e alla venuta di Cristo, Böhme accenna poi a un processo di rigenerazione che tramite lo Spirito Santo effonde la natura del Figlio all’interno degli esseri umani, ma come si diceva, egli non è ancora perfettamente conscio del terzo e ultimo risultato della dialettica. Hegel riassume così la questione:

Queste sono le concezioni principali di Böhme; la maniera barbara nella quale sono esposte non dev’esser disconosciuta: per dar parole al pensiero, essa si serve di brutali immagini sensibili come salnitro, tintura, essenza, pena, spavento, eccetera; d’altronde bisogna riconoscere la grandissima profondità impegnata nella lotta per la violenta unificazione d’antitesi assolute. Egli coglie gli opposti nel modo più duro e grezzo, ma non trascura, mediante la loro stessa ritrosia, di porre l’unità72.

Da queste parole si intuisce chiaramente quale sia la problematica principale che allontana Hegel dalla teosofia di Böhme: la forma, allo stesso modo che nel cristianesimo classico, è rappresentativa e di conseguenza manchevole. L’intera trattazione böhmiana del divino e della trinità è attraversata da un linguaggio e da tematiche altamente esoterico-religiose, motivo per cui gran parte degli studiosi di misticismo lo considera una sorta di “mago teosofo”, vicino alle arti alchemiche e ai misteri ermetici. Gli stessi interpreti, come il già citato Voegelin, cercano di individuare anche in Hegel questo carattere “magico”, ma le parole del filosofo svevo tradiscono senza alcun dubbio tale tentativo interpretativo. Persino Magee arriva ad ammettere che la forma del discorso di Böhme viene totalmente criticata e superata da Hegel, il quale compie lo stesso processo di secolarizzazione formale che abbiamo messo in luce precedentemente nei confronti del cristianesimo qui

nella tradizione mistico-ermetica della teosofia böhmiana, così come anche in tutto il resto dei pensatori che abbiamo considerato. Come si anticipava nell’introduzione del capitolo, se Böhme può essere considerato il “secolarizzatore” del misticismo, poiché quell’ineffabilità dell’Uno (la separatezza metafisica) e quei caratteri generalmente sensibili e aconcettuali della riflessione in merito ad esso sono stati cancellati in virtù di un razionale esercizio della dialettica, presente negli uomini tanto quanto in Dio, Hegel è a sua volta il “secolarizzatore” e il punto di congedo definitivo di Böhme, che al pari del cristianesimo non riesce ad esprimersi in accordo a quella dialettica che ha parzialmente intuito. In più, questa tesi propone anche uno slittamento di carattere contenutistico dei significati essenziali delle due sfere, böhmiano-cristiana e hegeliana: nonostante Böhme abbia compiuto passi avanti sostanziali rispetto alla teologia classica, come per esempio la concezione della necessità e del negativo, il suo Dio rimane assoluto e chiuso in un’autologia soggettiva alla maniera cristiana. Come si vedrà nel capitolo successivo, tale visione cercherà di essere abbandonata in vista di una lettura più basata sul finito e sull’uomo. Concludendo la trattazione dell’interpretazione mistica, possiamo affermare che Hegel sia stato certamente influenzato da quella particolare forma di misticismo che, seguendo Magee, abbiamo chiamato ermetismo e ritrovato in Proclo e Meister Eckhart, per poi raggiungere l’espressione massima in Jakob Böhme. Allo stesso tempo, tuttavia, nonostante i principali caratteri mistici di mistero, trascendenza e sensorietà siano già superati dal teosofo tedesco, è impossibile includere Hegel nella categoria del misticismo come Magee, Voegelin e Dilthey cercano di sostenere. Le questioni formali e contenutistiche che abbiamo espresso provano la fallacia di un simile tentativo. Hyppolite, quando si pone la famosa domanda “misticismo o umanismo?”, chiedendosi se Hegel debba essere interpretato a partire da Eckhart e Böhme oppure da quell’umanismo che diverrà antropologia in Feuerbach, risponde così:

Fra il misticismo in cui la vita dell’umanità è un momento della vita divina, dell’autocoscienza divina, e l’antropologia filosofica che riduce dio all’uomo, quale è la soluzione di Hegel? Certo non si tratta di una soluzione mistica: per quanto interpreti e tiri al suo mulino le formule di certi mistici, in esse Hegel vede già l’immagine della propria dialettica73.

Hegel, dunque, vede già operare la logica in quelle rappresentazioni che, pur implicandola, di dialettica erano sicuramente poco consapevoli. Risulta interessante, tuttavia, per comprendere le critiche di cui parleremo nel prossimo capitolo che egli rivolge al cristianesimo classico, tenere a mente che egli abbia alle spalle una tradizione che ha tentato di anticipare la necessità e la razionalità di tale dialettica in ambito religioso.

2. L’interpretazione teologica: da Revelatio a Offenbarung