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Di alcuni usi del concetto di ratio sufficiens nella Scolastica e in Leibniz*

Francesco Piro

1. Le varietà del Principio di Ragion Sufficiente

Tanto l’origine quanto il contenuto del Principio di Ragion Sufficiente (d’o- ra in poi, PRS) pongono questioni complicate allo storico della filosofia. Pro- blematico è già chi abbia proclamato per primo il principio. Alcuni storici della filosofia indicano Spinoza, il quale – nel suo commento ai Principia di Cartesio, edito nel 1663 – estrae dal testo cartesiano questo “assioma” impli- cito: «Non esiste alcuna cosa di cui non si possa chiedere quale sia la causa (ovvero la ragione) per cui esiste»1. Difficile stabilire perché Spinoza, che di-

scute l’“assioma” quando cerca di spiegare Cartesio, non lo esponga in modo altrettanto esplicito quando scrive in proprio.

A farne invece un “principio” è Leibniz, fin dai primissimi scritti: la Con- fessio Naturae contra Atheistas del 1669 ne fa già uso, pur senza esplicitarlo, la prima comparsa pubblica del celebre detto Nihil est sine ratione è del 16712.

Senza entrare nella questione indecidibile se Leibniz abbia preso ispirazione

1 «Nulla res existit, de qua non possit quaeri, quaenam sit causa (sive ratio), cur existat. Vide Ax.1. Cartesii. Cum

existere sit quid positivum, non possumus dicere, quod habeat nihil pro causa (per Ax. 7.) […]» (B. Spinoza, Principia

Philosophiae Cartesianae, I, axioma 11: G, I, 158). Tra le storie che vedono Spinoza come il primo formulatore del

principio, cfr. M. Della Rocca, A Rationalist Manifesto: Spinoza and the Principle of Sufficient Reason, in «Philoso- phical Topics», vol. 31, n° 1-2, 2003, pp. 75-93; M. Lin – Y. Y. Melamed, Principle of Sufficient Reason, in «The Stanford Encyclopedia of Philosophy», edizione rivista, 2016, https://plato.stanford.edu/entries/sufficient-reason/. Per una di- scussione critica sul tema, si veda il saggio di Chantal Jaquet in questo stesso libro.

2 Sulla datazione della presenza del PRS in Leibniz, cfr. Ch. Mercer, Leibniz’s Metaphysics. Its Origins and De- velopment, Cambridge, Cambridge UP, 2001, pp. 71-82; F. Piro, Spontaneità e ragion sufficiente. Determinismo e filosofia dell’azione in Leibniz, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001, pp. 38-78.

* Per le raccolte di opere di Leibniz e Spinoza qui adottate, si useranno le seguenti sigle: A = G. W. Leibniz, Sämtli-

che Schriften und Briefe (Akademie-Ausgabe), Darmstadt, 1923…, con numero di serie, di volume e di pagina; GP

= G. W. Leibniz, Die philosophischen Schriften, Hrsg. von C. I. Gerhardt, Berlin 1875-90, con numero di volume e di pagina; Grua = G. W. Leibniz, Textes inédits, par G. Grua, Puf, Paris 1948; G = B. Spinoza, Opera, Hrsg. von C. Gebhardt, Heidelberg, 1925, 4 voll.

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dal commento spinoziano, vi è sicuramente un punto cruciale di somiglianza e, al tempo stesso, di differenza. Per Spinoza, la spiegazione di un fatto non deve necessariamente introdurre una causa esterna; la spiegazione può partire anche da qualcosa di interno all’ente considerato, cioè in base alla sua “natura” o “definizione”, cioè della sua essenza3. Spinoza sta pensando alla differenza

tra le cose finite, che sono portate all’esistenza da cause esterne, e Dio, che esiste in virtù della sua stessa essenza. Leibniz condivide questa distinzione, ma la coordina con una differenziazione terminologica che non troviamo in- vece in Spinoza: quando la spiegazione richiede un ente esterno, allora usiamo propriamente la parola causa; se invece il fatto dipende soltanto dall’essenza o natura dell’ente considerato, allora la parola corretta è ratio. Poiché questa distinzione verrà tracciata con nettezza proprio in quei testi in cui Leibniz polemizza con la definizione di Dio come causa sui da parte di Cartesio e Spi- noza, l’obiettivo evidente è distinguere radicalmente i rapporti di Dio con se stesso (che non sono causali) da quelli di Dio con il mondo (che lo sono), bloc- cando gli esiti immanentistici dati da Spinoza alla dottrina dell’autocausalità divina4. Ma la conseguenza è che il concetto di ratio prende il sopravvento su

quello di causa e la spiegazione causale diviene solo uno dei modi di “dona- zione della ragione”.

Leibniz esplorerà ampiamente le possibilità dischiuse da questa definizione del PRS. La sua filosofia naturale riabiliterà le “forme sostanziali” della Sco- lastica – dunque ciò che un aristotelico avrebbe chiamato la causalità formale – proprio perché, secondo Leibniz, i comportamenti dei corpi sono fondati su leggi interne e non solo su interazioni esterne. Alla base dei corpi vi sono poi sostanze individuali (“monadi”) che agiscono in modo totalmente spontaneo e autoregolato. Gli enti finiti hanno bisogno di una causa esterna – Dio – per essere posti nell’esistenza, ma il modo in cui esistono e agiscono è spiegato dalla loro essenza o natura interna5.

3 « […] ergo aliquam causam positivam, sive rationem, cur existat, assignare debemus, eamque externam, hoc

est, quae extra rem ipsam est, vel internam, hoc est, quae in natura, et definitione rei ipsius existentis comprehen- ditur» (G I, 158).

4 Cfr. i frammenti del 1677-1678: Causa Sui (A VI 4B, 1372); note marginali su Ethica (A VI 4B, 1773). Cfr. S. Di

Bella, Die Kritik des Begriffs causa sui in den Leibnizschen Anmerkungen zu Spinozas Ethica, in VI. Internationaler Leibniz-Kongress, Leibniz. Tradition und Aktualität, Hannover, G. W. Leibniz Gesellschaft, 1988, 52-6; E. Scri- bano, L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 152-66.

5 Resta però poco chiaro se questa riabilitazione delle cause formali e materiali aristoteliche sia completa. Se si

tratta di “ragioni”, sembrerebbe ovvio considerare le Forme Sostanziali come semplici idee presenti nella mente di Dio, il quale resterebbe l’unica causa efficiente. Questa interpretazione occasionalistica di Leibniz è stata effet- tivamente sostenuta da Sukjae Lee, Leibniz on Divine Concurrence, in «The Philosophical Review», vol. 113, n° 2,

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Nel campo della filosofia morale e della teodicea, la distinzione tra “cause” e “ragioni” servirà a stabilire che una scelta è sempre basata su “ragioni” che la inclinano, più esattamente su rappresentazioni di possibilità e sulla valuta- zione della loro desiderabilità. Dunque anche la scelta è un’azione spontanea e tuttavia dotata di una forte determinazione interna. Non solo le ragioni che spiegano la scelta vengono a dipendere dalle capacità intellettive e dalla storia individuale del soggetto che sceglie. Ma soprattutto la scelta non si verifica se non quando una possibilità risulti prevalente sulle altre per la sua desiderabi- lità. Solo la presenza di un ottimo – di un oggetto di scelta migliore degli altri dal punto di vista del soggetto che sceglie – fornisce una ragione sufficiente per scegliere. Nel caso della scelta di Dio, l’Ottimo coincide, secondo Leibniz, con quell’architettura del mondo che riesce a tenere insieme il massimo della varietà e il massimo dell’ordine: questo è infatti l’unico caso in cui non abbia- mo ragione di chiedere perché non si sia scelto di realizzare qualcosa di più o di meglio6. Abbiamo qui una proto-teoria della scelta razionale (sicuramente

anche ispirata alle conoscenze di Leibniz sulla decisione giudiziaria) che for- merà la base della teodicea leibniziana.

Infine, Leibniz ricondurrà al PRS persino la differenza tra verità fonda- mentali e derivate. Per Leibniz, la forma generale dell’enunciato vero è nella relazione di inerenza soggetto/predicato. Nel caso delle verità di ragione, cioè delle verità necessarie, questa relazione è dimostrabilmente una relazione di “contenuto” ovvero di inclusione concettuale: il predicato B del soggetto A è coincidente con uno degli ingredienti della definizione di A oppure è deri- vabile logicamente da essi. Secondo Leibniz. nel caso delle verità contingente sussisterebbe questa stessa relazione di inclusione, ma non potrebbe essere di- mostrata in un numero finito di passi, cioè non è completamente penetrabile da un intelletto finito. Questa teoria analitica della verità viene posta dal Lei- bniz maturo come la definizione stessa del contenuto del PRS, il quale sarebbe appunto esprimibile anche come principio che “ogni verità può essere provata a priori” ovvero che ogni predicato di un soggetto è derivabile dal concetto di tale soggetto7.

2004, pp. 203-46. Cfr. per una discussione di essa, F. Piro, Creaturely Action in Leibniz’s Theodicy, in M. Favaretti Camposampiero, M. Geretto e L. Perissinotto (a cura di), Theodicy and Reason. Logic, Metaphysics and Theology

in Leibniz’s Essais de Théodicée (1710), Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, Digital Publishing, 2016, pp. 87-110. 6 Sul Principio dell’Ottimo e i suoi rapporti con il Principio di Ragion Sufficiente, cfr. soprattutto N. Rescher, Leibniz. An Introduction to His Philosophy, Oxford, Blackwell, 1979, che considera il Principio dell’Ottimo come

un principio ulteriore e non riducibile al Principio di Ragion Sufficiente, diversamente da altri interpreti.

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Già da questa esposizione si nota la varietà di applicazioni e addirittura di interpretazioni che Leibniz dà al Principio di Ragion Sufficiente. Per dirla con Lois Frankel, esso si presenta simultaneamente come un principio cau- sale, deliberativo, fondativo: ogni evento ha una causa, ogni scelta nasce dal prevalere di una ragione su altre, ogni verità ha uno stabile fondamento8. La

tendenza di insieme è chiaramente percepibile: garantire la conoscibilità del reale ma, nel contempo, ridurre il ruolo della causalità efficiente, tipica del modello meccanicistico, a vantaggio di modelli di “donazione della ragione” basati su enti che agiscono spontaneamente e finalisticamente e così via. Ma non è detto che questa tendenza di insieme renda chiari i singoli usi del PRS e dia un unico significato al Principio stesso. Non a caso, buona parte della storia successiva delle discussioni sul principio, fino a Schopenhauer incluso, sarà dedicata a cercare di sbrogliare la matassa e distinguere ciò che Leibniz sovrappone o identifica.

Tuttavia, quest’impressione di non piena coerenza potrebbe essere dovuta al fatto che non vediamo tutti i fili della matassa, cioè che alcuni sottintesi siano divenuti incomprensibili nel corso del tempo. La storiografia filosofica recente ha dato già alcune linee di risposta alla domanda posta da Heidegger su dove “dormisse” il Principio di Ragione prima che Leibniz lo proclamas- se, quale ne sia stata – per dir così – l’incubazione9. Vincent Carraud ha

ripercorso la storia delle relazioni concettuali causa/ratio nel XVII. secolo da Suárez a Leibniz10. Chi scrive ha seguito la traccia dell’interpretazione della

causalità come insieme di condizioni necessarie e sufficienti dal Medioevo a Hobbes e al giovane Leibniz11. Proverò in questa sede ad esplorare un altro

lato della questione, vale a dire le discussioni teologiche sulla scientia Dei, più specificamente sulla scienza che Dio ha dei futuri contingenti. Come ve- dremo, questa discussione non soltanto contiene alcuni termini tecnici che ritroveremo anche in Leibniz (a partire dallo stesso lemma ratio sufficiens),

proinde ad immediatam reducibilis per resolutionem, quod ipsum est probare a priori, seu rationem reddere» (A VI B, 1395)

8 L. Frankel, From a Metaphysical Point of View: Leibniz and the Principle of Sufficient Reason, in «The Southern

Journal of Philosophy», vol. 24, n° 3, 1986, pp. 321-334.

9 M. Heidegger, Der Satz vom Grund, Pfullingen, Neske, 1957; trad. it. Il principio di ragione, a cura di G. Gurisatti

e F. Volpi, Milano, Adelphi, 1998, p. 98: «Dove e come la tesi del fondamento è rimasta tanto a lungo in letargo, pre-sognando già ciò che in essa rimaneva impensato?»

10 V. Carraud, Causa sive Ratio: La raison de la cause, de Suarez à Leibniz, Paris, Presses Universitaires de France

2002.

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ma nasce da un dilemma che, pur essendo strettamente teologico, condiziona profondamente l’elaborazione leibniziana del PRS: poiché certamente non si può ammettere che Dio non conosca i futuri contingenti, a che cosa si deve la loro prevedibilità? Questa domanda è una delle basi su cui Leibniz misura il potere e la corretta interpretazione del suo PRS e in cui emerge anche uno degli aspetti inquietanti del PRS leibniziano, cioè la presenza di punti in cui è difficile decidere se Leibniz stia ponendo un principio logico-ontologico che Dio stesso non potrebbe mutare o una sorta di principio prescrittivo di natura al tempo stesso epistemologica e morale: in altre parole, se il contenuto del Principio sia Nihil est sine ratione o piuttosto Nihil sit sine ratione.

2. C’è una ratio sufficiens della prescienza divina dei futuri contingenti? Da Durando a Suárez

Mentre esiste una storia documentabile sul concetto di causa sufficiens (e dei suoi equivalenti terminologici: causa plena, causa integra, causa totalis) prima di Leibniz – una storia che va da Ockham a Hobbes con una certa coerenza12 – più difficile è individuare una storia coerente negli usi del lem-

ma ratio sufficiens. Ciò si deve al fatto che la cultura scolastica è una cultura della ratio, che rende onnipresente tale termine. Di ogni posizione teologica sostenuta occorreva fornire le ragioni (reddere rationem) e stabilire se esse ri- spondono a tutte le obiezioni oppure no. Un caso particolare è costituito però dalla prescienza divina dei futuri contingenti, una questione tormentosa non perché fossero molti a dubitarne – era considerato eretico il farlo – ma perché ogni tentativo di spiegazione comportava conseguenze indesiderate.

La posizione più nota sul problema era quella di Severino Boezio e Tom- maso d’Aquino, usualmente definita come visio in aeternitate. Dio vedrebbe i futuri contingenti semplicemente perché Dio vede simultaneamente tutto ciò che accade nel tempo e questa sua scientia visionis è del tutto indipendente dai decreti della sua volontà. Questa posizione autorevole poneva però problemi, dal momento che, per essere presente, qualcosa deve “esistere” in qualche sen- so e dunque sembrava che la posizione tomistica attribuisse agli oggetti tem-

12 Su questa vicenda, rinvio in particolare a A. Maier, Studien zur Naturphilosophie der Spätscholastik, I, Roma,

Edizioni di Storia e Letteratura 1949, in part. pp. 232-49. Sull’eredità della concezione occamistica della causalità in Hobbes, cfr. Y.-Ch. Zarka, La décision métaphysique de Hobbes, Paris, Vrin 1987.

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porali uno status di enti eterni, cioè troppo prossimo a quello divino. E poi, se tutto ciò che accade successivamente nel tempo, viene visto da Dio simultane- amente, come farà Dio a sapere che cosa viene prima e che cosa viene dopo? La sua visione sarebbe dunque priva di logicità interna. Tali questioni irrisolte convinsero molti teologi, a partire quantomeno da Duns Scoto, ad adottare una teoria alternativa che concepiva la prescienza divina come dipendente dai decreti divini, dunque semplicemente come conseguenza del fatto che Dio vuole ogni evento che si verificherà nel tempo e ha ovviamente coscienza di ciò che vuole nonché dell’ordine di successione delle sue stesse volontà, ordi- ne che sarà necessariamente rispettato13. Questa dottrina “post-volizionale”

della prescienza divina appariva più coerente con la maestà divina, nonché con il continuo concorso che Dio darebbe (secondo Scoto, ma già secondo Tommaso) all’esistere di ogni creatura. Tuttavia, attribuendo a Dio una preci- sa volontà affermativa per ogni singolo evento, ivi compresi i peccati compiuti dalle creature, essa appariva solidale con quella “doppia predestinazione” (al bene e al male) che la maggior parte dei teologi aborriva.

Una terza e meno diffusa teoria sosteneva infine che Dio conosce i futuri contingenti in causis e cioè sulla base della sua infallibile capacità di prevedere ciò che le cause operanti in natura provocheranno. Poiché le cause naturali sono pur sempre create da Dio, anche questa teoria è post-volizionale, ma essa non comporta che Dio voglia ogni evento che si verifica. Anzi qualcuno anda- va così lontano nel tentativo di scagionare Dio da affermare che l’operare delle cause naturali potesse essere efficace anche senza un concorso attivo con esso da parte di Dio, semplicemente sulla base del consenso generale che Dio dà all’esistenza del mondo (una concezione “pelagiana” che Descartes, Spinoza, Leibniz, per non parlare di Malebranche, rifiuteranno con orrore). Questo è il caso appunto del domenicano anti-tomista Durando di San Porciano (1270 circa – 1334) che sicuramente fu noto (per vie indirette) anche a Leibniz.

Per Durando, le cause naturali non “necessitano” il loro effetto, dal mo- mento che ognuna di esse resta virtualmente impedibile da altre cause na- turali o dall’intervento diretto di Dio. Ma, poiché Dio conosce in anticipo quando l’impedimento avverrà e quando no, egli ha una prescienza infallibile degli eventi futuri, pur se questi ultimi restano in se non necessari14. Sappiamo

13 Cfr. W. L. Craig, The Problem of Divine Foreknowledge and Future Contingents from Aristotle to Suarez, Leiden,

Brill, 1988; L. Trinkaus Zagzebski, The Dilemma of Freedom and Foreknowledge New York – Oxford, Oxford UP, 1991.

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che Leibniz conobbe questa tesi durandiana – non per lettura diretta ma per averla incontrata in una silloge di posizioni teologiche autorevoli pubblicata dal teologo calvinista William Twisse15 – e siglò il passo durandiano come

un “egregius locus”, cioè una soluzione non lontana dalle sue. Purtroppo la collezione di Twisse non conteneva anche un altro passo in cui Durando usa- va il concetto di “ragion sufficiente” per stabilire che, poiché l’essenza divina comprende in se stessa tutte le cause naturali che Dio stabilirà di realizzare, l’autoconoscenza divina è la “ragion sufficiente” della prescienza dei futuri contingenti:

Sic igitur patet qualiter Deus cognoscit futura contingentia quia cognoscit ea determinate quantum ad suas proprias et determinatas actualitates quas habebunt, nec cognoscit eas per hoc quod sint ei ab aeterno praesentia realiter, sed per hoc quod essentia divina ut causa est sufficiens ratio repraesentandi intellectui divino singula modo quo dictum fuit prius. De cae- teris singularibus licet etiam essentia divina sit prima et sufficiens ratio intelligendi ea, tamen nihil prohibet quod Deus ea cognoscat in causis creatis contingentibus, cognitio tamen utro- rumque dependet a cognitione divinae essentiae16.

Perché Durando, che ha discusso finora solo di “cause” – l’essenza divina come causa delle entità naturali, le entità naturali come cause degli eventi – introduce il termine ratio quando parla del rapporto tra autoconoscenza e precienza in Dio?

Una prima soluzione potrebbe essere: perché qui egli è cosciente di stare facendo un discorso ipotetico e usa il termine ratio nel senso strettamente dialettico o logico-argomentativo di giustificazione di una tesi. Ciò che egli afferma sarebbe parafrasabile così: dati gli enunciati “Dio conosce la propria essenza” “l’essenza di Dio precontiene i principi causali che Dio porrà in esse- re nel mondo”, “chi conosce tutte le cause conosce anche tutti gli effetti che si verificheranno” non abbiamo bisogno di altre premesse per giustificare la tesi che dovevamo dimostrare, cioè “Dio ha prescienza di tutti gli eventi futuri”.

Ora, senza negare che questa sia la possibile origine della nozione usata da Durando, mi sembra però più forte l’ipotesi alternativa che Durando usi ratio

S. Porziano. Elementi filosofici della terza redazione del “Commento alle Sentenze”, Firenze, La Nuova Italia, 1969;

I. Iribarren, Durandus of St Pourcain. A Dominican Theologian in the Shadow of Aquinas, Oxford – New York, Oxford UP, 2005. L’edizione del Commento che utilizzerò è: Durandus a Sancto Porciano, In Petri Lombardi Sen-

tentias Theologicas Commentariorum Libri IV, Venetiis, 1571 (d’ora in avanti: Comm.).

15 W. Twisse, Scientia Media, Arnhem, 1639 (i passi letti e commentati da Leibniz si trovano in Grua, pp. 347-359).

Cfr. F. Piro, Lo Scolastico che faceva un partito a sé (faisait band à part). Leibniz su Durando di San Porziano e la

disputa sui futuri contingenti, in «Medioevo. Rivista di filosofia medievale», vol. 34, 2009, pp. 507-543. 16 Comm. I, distinctio 38, quaestio 3, § 18 (folio 104 verso).

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perché non sarebbe appropriato usare causa per il rapporto tra due attributi eterni di Dio, ma che il termine indichi nondimeno una dipendenza ontologi- ca e non semplicemente logico-deduttiva. Ciò che Durando intende dire è che, tra i fatti metafisici che possiamo stabilire a proposito di Dio, l’autoconoscen- za viene prima della prescienza dei futuri contingenti, anche se questa priorità non va intesa in senso temporale, ma come una “priorità per natura”, come l’avrebbe chiamata Aristotele17. Non si può affermare che Dio ha conosciuto

prima (nel tempo) la sua essenza e poi (nel tempo) le creature, ma ha senso dire che la sua conoscenza delle ultime dipende dalla prima.

La terminologia usata da Durando fece scuola e infatti la ritroviamo an-