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Leibniz, Heidegger e il principio di ragione Paul Rateau

Il principio di ragione (Der Satz vom Grund, 1957) è il titolo sotto cui Hei- degger ha riunito le tredici lezioni di un corso tenuto all’università di Friburgo nel semestre invernale 1955-1956 e il testo di una conferenza pronunciata il 25 maggio 1956 a Brema e il 24 ottobre dello stesso anno a Vienna. L’andamen- to seguito nel Corso è volutamente didattico e laborioso, col ritmo lento di passaggi, ripetizioni, ricapitolazioni e digressioni. Si restituiscono così, passo dopo passo, le tappe di un pensiero “in cammino”, che medita sul principio di ragione. Tale principio appare a un primo sguardo evidente e persino banale, al punto da non suscitare immediatamente nessuna curiosità, eppure esso «è forse la più enigmatica di tutte le tesi possibili e immaginabili»1. Scopo delle

lezioni è, al di là di questa piatta, per così dire, evidenza iniziale, mostrare quanto il principio dice di “inaudito”. L’andamento adottato nella Conferenza è, per contro, più sintetico e diretto: esso si basa implicitamente sul corso, rias- sumendone i risultati e tirandone le conseguenze, a rischio di perderne le sfu- mature e di dimenticarne la prudenza. La sua concisione impedisce deviazio- ni, dando l’impressione di radicalizzare certe posizioni o almeno conducendo ad affermarle più chiaramente come tesi. Segnatamente questa: il principio di ragione, come Leibniz l’ha enunciato per la prima volta in modo rigoroso, si- gnifica la potente ingiunzione di rendere ragione di tutto, caratteristica dell’e- poca contemporanea (l’era “atomica”). Questa esigenza, alla quale tutto deve essere rapportato e sottomesso, compreso lo stesso uomo, trasforma ogni cosa in quantità misurabile e calcolabile. È il frutto del razionalismo trionfante dei “tempi moderni”, il cui programma alienante sarebbe oggi portato a compi- mento dalla tecnica, strappando l’uomo dal “suolo natio”.

1 M. Heidegger, Il principio di ragione, a cura di F. Volpi, trad. it. di G. Gurisatti e F. Volpi, Milano, Fabbri Editori,

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Ragione, razionalità e razionalizzazione in età moderna e contemporanea

Insieme con altri commentatori, Jacques Bouveresse ha mostrato quanto questa interpretazione di Heidegger sia contestabile per la semplificazione che opera (da Leibniz allo sfruttamento dell’atomo) e per il suo snaturamento del pensiero del filosofo di Hannover2. La critica di Bouveresse è in parte giu-

stificata. Ma lo è solo in parte e, quando lo è, non è detto che sia adeguata. Nelle pagine che seguono ci proponiamo di mostrare almeno due difetti che le fanno mancare talvolta bersaglio, dando l’impressione che quanto viene criticato non lo sia sempre a sufficienza né sempre nel modo opportuno, men- tre quanto non viene criticato avrebbe meritato di esserlo. 1. Gli argomenti utilizzati contro la lettura heideggeriana del principio di ragione, considerato nella sua prima accentuazione non si fondano su un’analisi completa del prin- cipio esaminato nelle sue diverse formulazioni. Ciò conduce a ridurre la loro portata o persino a farne venire meno, in certi casi, la pertinenza. 2. La critica non colpisce nel segno, non insiste cioè sul modo in cui Heidegger intende la ragione (ratio), associa la facoltà (Vernunft) al fondo o al fondamento (Grund), e collega l’appello del principio all’emergere della soggettività moderna. 1. L’intepretazione di Heidegger e la critica di Bouveresse

Prima di esaminare gli argomenti critici avanzati da Bouveresse, conviene richiamare quelli che Heidegger presenta, nella settima lezione, come i «ca- pisaldi» (Hauptsachen) emersi, nell’arco del Corso, dalla sua meditazione sul principio di ragione.

1. Egli evoca innanzitutto il lungo periodo della prima incubazione3 del

principio di ragione (Nihil est sine ratione). Il pensiero occidentale – «dal sesto secolo avanti Cristo»4 – lo conosceva e ne faceva uso molto prima di Leibniz,

ma è stato necessario attendere «duemilatrecento anni» perché esso fosse esplicitamente formulato come principio.

2. Il filosofo di Hannover è infatti colui che l’ha enunciato per primo in forma rigorosa5, come principium reddendae rationis sufficientis (che Hei-

2 Si vedano il suo corso al Collège de France (2009-2010) dedicato a Leibniz e le ulteriori riflessioni contenute nel

recente articolo Quelques remarques sur les relations entre le “principe de contradiction”, le “principe de raison” et

le “principe du meilleur” chez Leibniz, in Leibniz et le principe de raison. Enjeux théoriques et pratiques, dir. J.-M.

Fleury, Paris, Collège de France, OpenEdition Books, 2014.

3 Cfr. in particolare M. Heidegger, Il principio di ragione, cit., pp. 17 sgg. 4 Ivi, p. 17; p. 98.

Paul Rateau, Leibniz, Heidegger e il principio di ragione

degger traduce con «principio del fondamento che va fornito») e l’ha elevato al rango di principio supremo dell’enunciazione, della conoscenza e di tutto ciò che è6. Cogliendo il suo «richiamo decisivo», Leibniz non ha fatto altro

che esprimerlo – e qui sta il suo grande merito – inserendo questa sola paro- la: reddendum7. Comincia così il dominio del principio di ragione «nel senso

palese che ogni rappresentare corrisponde di regola alla pretesa della forni- tura incondizionata del fondamento sufficiente di ogni ente»8. L’ente diven-

ta oggetto e l’essere, che si sottrae, appare come «oggettività degli oggetti». Scienza e tecnica diventano da allora possibili9. La pretesa di fornire il fon-

damento è infatti per la scienza «l’elemento in cui il suo stesso rappresentare si muove, come il pesce nell’acqua o l’uccello nell’aria»10. È qui che comincia

la seconda incubazione del principio di ragione, in quanto principio concer- nente l’essere11.

3. Il principio di ragione (principium grande, magnum, nobilissimum), inte- so secondo la prima accentuazione (nulla è senza ragione) fa risuonare ovun- que il suo richiamo e afferma la sua potenza al di là del dominio del pensiero astratto, fino a determinare tutta la natura e l’esistenza storica dell’uomo12.

In questo processo la filosofia kantiana costituisce una tappa decisiva13. Tale

pretesa incondizionata, che domina completamente l’uomo di oggi, rappre- senta per lui una «minaccia», privandolo di ogni «fondamento» e di «qualsiasi terreno per un radicamento nella propria terra»14. Il dominio del principio,

noterà Heidegger nella Conferenza, è tanto più potente in quanto «generale, ovvio e quindi inappariscente»15. L’epoca contemporanea è il momento in cui

6 Cfr. ivi, pp. 48-49. 7 Cfr. ivi, pp. 49-50.

8 Ivi, p. 100; si vedano anche pp. 54-55; p. 55: «[…] poiché secondo l’idea dominante della filosofia moderna, qual-

cosa “è” soltanto nella misura in cui un rappresentare fondato l’ha posto al sicuro per sé come proprio oggetto, il principium reddendae rationis rimane il principio supremo non solo del conoscere, ma anche degli oggetti del conoscere». A questo punto il principio «dispone di ciò che deve poter valere universalmente come oggetto del rappresentare» e «come qualcosa che è, come un ente» (pp. 202-203). Soddisfarlo diviene la condizione di possi- bilità perché una cosa sia.

9 Sulla tecnica cfr. anche ivi, p. 204. 10 Ivi, p. 60; pp. 207-208.

11 Cfr. ivi, p. 101 e p. 116. 12 Cfr. ivi, p. 102.

13 Si vedano in particolare la nona lezione, ivi, pp. 118 sgg., e la decima lezione, pp. 130 sgg. A p. 138 Heidegger

scrive: «Il metodo trascendentale corrisponde alla pretesa della tesi del fondamento. Con il metodo trascenden- tale, il principium rationis sufficientis che domina nella ratio (Vernunft, ragione) perviene nello spazio libero e chiaro dell’esercizio del suo potere».

14 Ivi, p. 61. 15 Ivi, p. 204.

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Ragione, razionalità e razionalizzazione in età moderna e contemporanea

la forza del principio raggiunge il suo parossismo16. La ratio, che significa cal-

colo, deve essere integralmente resa; ciò suppone «la possibilità di un calcolo esaustivo», la «calcolabilità totale», ossia finisce col consegnare il mondo e l’uomo al calcolo17.

4. Il confronto del principio con un verso di Angelo Silesio – La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce – permette nella quinta lezione di distinguere la ragione come perché dalla ragione come poiché. La rosa è senza perché, in quanto il perché implica una ragione rappresentata come ragione. Ora la rosa per fiorire «non ha bisogno che prima le si fornisca espressamente il fondamen- to del suo fiorire». Essa non è tuttavia senza poiché (infatti: essa «fiorisce poiché fiorisce»): questo poiché rinvia certamente a una ragione, ma a una ragione che non è esterna al fiorire stesso e che dovrebbe fondarlo. «Il fiorire si fonda in se stesso, ha il proprio fondamento presso esso stesso e in esso stesso. Il fiorire è puro schiudersi da se stesso, puro splendere»18. La ragione del poiché abban-

dona la cosa a se stessa, la lascia semplicemente essere. Il poeta contraddice il principio di ragione solo nella sua prima tonalità, secondo cui significa «niente è senza perché». E anche qui, esso resta valido per noi (nonostante non lo sia per la rosa), nella misura in cui la rosa è un oggetto della nostra rappresenta- zione in merito al quale noi esigiamo delle ragioni19. Il verso di Angelo Silesio

tuttavia ha la seguente peculiarità: esso fa già intendere il principio accentato nel secondo modo, in quanto «proprio qui, in un certo senso, possono essere scorti il fondamento in quanto essere e l’essere in quanto fondamento»20.

5. Il principio di ragione quale è accentato nel secondo modo – nulla è senza ragione – fa risuonare un altro appello. Non è una enunciazione su ciò che è (l’ente), ma parla dell’essere in quanto tale, dicendo che essere e fondamen- to sono «lo Stesso» (senza essere intercambiabili21) e che l’essere è «l’abisso» o

il «senza fondo». Secondo questa tonalità, «l’essere è essenzialmente in sé in quanto fondante [als gründendes]»22, o ancora «il fondamento […] fonda in

modo tale che il suo fondamento è qualcosa che è, cioè un ente»23. Come spie-

gare questa identità di essere e ragione? Heidegger parte dalla duplice tradu- 16 Cfr. ivi, p. 65. 17 Ivi, p. 172. 18 Ivi, p. 103; cfr. anche p. 73. 19 Cfr. ivi, pp. 71-72. 20 Ivi, p. 104. 21 Cfr. ivi, pp. 153-154. 22 Ivi, p. 91. 23 Ivi, p. 154.

Paul Rateau, Leibniz, Heidegger e il principio di ragione

zione – che è anche una trasmissione – del latino ratio in tedesco: Vernunft (la ragione come facoltà, come percepire24) e Grund (la base, ciò che è in basso, il

fondo che porta e sostiene, l’humus25), e si interroga sul rapporto tra questi due

sensi. Per comprenderlo bisogna tornare all’accezione originale di ratio che si- gnifica conto26 (inteso in un senso più largo che il calcolo matematico): «conta-

re, fare conto, tenere conto, significa: regolare qualcosa su qualcosa d’altro, rap- presentare qualcosa in quanto qualcosa»27. Ora i due sensi di ratio si ritrovano

in “conto”, poiché vi è «sup-posto» (cioè posto in basso, come base e fondo) ciò che fa sì che una cosa si presenti come tale e che questa presentazione comporti una produzione dinanzi a sè della cosa e, in tal modo, l’atto di percepirla28.

Tuttavia l’indagine non si ferma qui, poiché ratio è a sua volta traduzio- ne del greco λόγος, che significa parimenti conto, relazione di una cosa con un’altra, ma ancora enunciazione e parola, e infine «ciò su cui qualcosa d’altro giace e riposa», dunque il suolo, il fondo29. Così λόγος è allo stesso tempo

presenza e fondo:

[Esso] nomina questa coappartenenza di essere e fondamento. La nomina in quanto dice in Uno e nello stesso tempo: «lasciar giacere-davanti» in quanto «lasciar schiudere», «schiudere da sè»: φύσις, essere; e: «lasciar giacere-davanti» in quanto «mettere-davanti», formare il ter- reno, fondare: fondamento30.

Λόγος esprime la coappartenenza di essere e fondamento; una coappar- tenenza dimenticata, che «ha il suo regno nella velatezza» e spiega l’evidenza immediata del principio di ragione31. La «sottrazione dell’essere», correlativa

del suo «destino» (Geschick), è allora per Heidegger l’occultamento attraverso cui l’essere si vela «nella sua iniziale coappartenenza destinale con il fonda- mento inteso come λόγος […]»32. E tuttavia velandosi l’essere «lascia venire

alla luce qualcosa d’altro, e cioè il fondamento (Grund)» sotto forma di prin- cìpi, cause, fondamenti razionali; ritirandosi «lascia dietro di sé queste forme del fondamento, che, tuttavia, rimangono ignote nella loro provenienza»33.

24 Cfr. ivi, p. 175. 25 Cfr. ivi, p. 164; p. 169. 26 Cfr. ivi, pp. 175 sgg. 27 Ivi, p. 175. 28 Cfr. ivi, pp. 177-178; p. 203. 29 Cfr. ivi, p. 183.

30 Ivi, pp. 183-184. Sul senso greco dell’essere cfr. pp. 180 sgg. 31 Ivi, p. 184.

32 Ivi, p. 187. 33 Ibid.

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Ragione, razionalità e razionalizzazione in età moderna e contemporanea

Dopo aver mostrato come essere e ragione siano la stessa cosa, resta da spiegare in cosa l’essere possa essere detto «senza fondo», «l’abisso». In quanto «l’essere “è” fondare», esso è senza fondo e conseguentemente senza fonda- mento34. Pensarlo, dunque, è pensarlo per la prima volta come essere, nella

sua verità35, e far entrare il pensiero nel gioco di cui parla Eraclito nel fram-

mento 52, un gioco senza «perché». Al pari del bambino che «gioca poiché gioca», l’essere, in quanto privo di fondo, «gioca come il fondo abissale, l’abis- so senza fondo di quel gioco che, in quanto destino, ci lancia [zuspielt] l’essere e il fondamento»36.

Alla fine della Conferenza Heidegger tornerà sull’opposizione tra il perché e il poiché (weil), stavolta a partire non da Angelo Silesio o da Eraclito, ma da un passaggio di Goethe («tu attieniti al poiché, e perché? non domandare»). A differenza del perché il poiché non cerca le ragioni, in quanto «non ha ragione, essendo esso stesso la ragione». Esso significa il fondo (Grund): «Grund è ciò su cui tutto riposa, è il fondamento che per ogni ente “c’è già” [vorliegt] come ciò che lo supporta. Il “poiché” nomina questo esserci-già supportante davanti al quale non possiamo far altro che arrestarci»37. Esso «nomina il semplice

esserci-già [Vorliegen], scevro di “perché”, da cui tutto dipende e su cui tutto riposa»38, cioè lo stesso essere. Ancora una volta: essere e ragione coincidono.

Inteso come discorso sull’essere, il principio di ragione enuncia dunque sem- plicemente il senso della parola essere. Ed è a questo discorso – al poiché – che si deve restare legati. Bisogna infatti vigilare, secondo Heidegger, affinché esso non venga eclissato dalla «rumorosa» pretesa del principio accentato nel pri- mo modo, e affinché prevalga invece su quest’ultima39.

La critica di Bouveresse verte principalmente sull’interpretazione del red- dendum rationis. L’errore di Heidegger sarebbe, a suo dire, doppio. Da una parte, starebbe nel vedere nel principio di ragione un’ingiunzione imperiosa, se non tirannica, di rendere ragione della realtà – «pressappoco come si par- lerebbe di fargli restituire il maltolto [de lui faire rendre gorge]»40 – laddove

per Leibniz si tratta di indicare semplicemente la possibilità di fornire tale 34 Cfr. ivi, p. 189. 35 Cfr. ivi., p. 190. 36 Ivi, p. 193. 37 Ivi, p. 214. 38 Ivi, pp. 214-215. 39 Cfr. ivi, pp. 216-217.

40 J. Bouveresse, Dans le labyrinthe: nécessité, contingence et liberté chez Leibniz, cours 2009-2010, Paris, Collège

Paul Rateau, Leibniz, Heidegger e il principio di ragione

ragione; possibilità che, seppur sempre esistente, non è in realtà necessaria- mente rinvenibile per noi, spiriti finiti. I testi lo provano: la ragione non è ciò che deve essere reso41, ma ciò che può essere reso; essa pertanto non è neces-

sariamente la ragione che può essere resa da noi (nonostante tale ragione esi- sta effettivamente). Il § 32 della Monadologia indica chiaramente che questa ragione, o piuttosto queste ragioni, «le plus souvent ne [peuv]ent point nous être connues». Il principio di ragione non sarebbe dunque capace di imporsi a noi come un obbligo, poiché Leibniz stesso sottolinea che la domanda di ragione «nella maggior parte dei casi non può essere soddisfatta»42. Il princi-

pio di ragione è piuttosto, secondo Bouveresse, un «principio di umiltà», che racchiude il seguente avvertimento:

“Il fatto che non abbiate trovato una ragione o soltanto delle ragioni insufficienti non vi auto- rizza a credere che non ci sia ragione”. Secondo Leibniz, ci è impossibile, ad esempio, trovare la ragione completa di una qualunque proposizione contingente. E ciò che non possiamo, certamente nemmeno lo dobbiamo43.

Dall’altra parte, Heidegger si sbaglierebbe interpretando la «ragione da rendere» espressa dal principio come un rendere conto e dunque un calcolo, alle esigenze del quale ogni cosa dovrebbe essere sottomessa. Bouveresse con- testa la riduzione del «rendere ragione» (così com’era inteso da Leibniz) a «fare il conto» o «calcolare», e la conseguenza che ne viene immediatamente tratta, cioè che «tutto deve poter essere razionalizzato in termini di calcolabilità ma- tematica e controllabilità tecnica»44. Il fatto che il filosofo di Hannover abbia

avuto l’idea di una lingua rationalis, di un calculus ratiocinator e che abbia eretto a modello il metodo matematico non significa che egli auspichi un’ap- plicazione della matematica a tutte le discipline o «la subordinazione di tutto ciò che è e di tutto ciò che accade a una esigenza di calcolabilità». Infatti dire, come fa Leibniz, «che, in tutti gli ambiti in cui si ragiona, si dovrebbe poter in linea di principio ragionare in modo tanto esatto quanto si fa in aritmetica e in geometria non è affatto la stessa cosa che stabilire il principio che “essere” debba voler dire “essere matematicamente calcolabile” e ridurlo a ciò»45.

41 Bouveresse cita Vincent Descombes (ibid.), che sottolinea come l’uso dell’aggettivo verbale latino (reddendum)

non segnali sempre un obbligo o un compito da adempiere, ma abbia anche «il senso più debole della semplice possibilità» (V. Descombes, Philosophie par gros temps, Paris, Les Éditions de Minuit, 1989, p. 103).

42 J. Bouveresse, Quelques remarques, cit., p. 29. 43 J. Bouveresse, Dans le labyrinthe, cit., p. 187. 44 J. Bouveresse, Quelques remarques, cit. p. 31.

45 Ivi, p. 32. A questi due errori se ne aggiunge un terzo, che non mette direttamente in discussione l’interpreta-

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Ragione, razionalità e razionalizzazione in età moderna e contemporanea

2. Rendere ragione: obbligo o semplice possibilità?

Ciò che colpisce subito leggendo sia le parole di Heidegger che quelle di chi se ne fa critico è la poca attenzione accordata alla molteplicità e alla varietà delle formulazioni del «principio di ragione» da parte dello stesso Leibniz. Tali formulazioni46 in realtà non sono tutte riducibili al semplice «niente è senza

ragione», di cui non sono né parafrasi né semplici esplicitazioni. All’interno di questa molteplicità, Heidegger ricorda evidentemente solo la formulazione che serve al suo scopo e ignora le altre. Eppure, oltre a non dire tutte esatta- mente la stessa cosa, il loro statuto (enunciate come proposizione, regola, mas- sima, assioma, principio di esistenza e o di ragionamento, principio supremo), il loro oggetto (l’ente, l’essere e i suoi accidenti, l’accadimento, il vero47), la

loro comprensione (essere o non essere, essere così e non altrimenti) e il loro campo di applicazione (in logica, metafisica, teologia, morale e politica, nel- le scienze della natura e finanche in matematica) sono differenti. Persino la denominazione del principio può variare, se si considera, per esempio, che i princìpi di perfezione, della saggezza, del migliore o ancora di convenienza sono altri suoi nomi, o almeno corollari. Esso è anche designato, in un testo, con l’espressione «principe du bon sens»48. Nessuna menzione, in ogni caso,

sotto l’ingiunzione che enuncia, sottomettervisi. Bisogna dunque che anch’esso abbia una ragione, senza la quale rischierebbe di apparire puramente arbitrario (ivi, p. 21). In realtà, come mostra Bouveresse, questa obiezione di circolarità non tiene.

46 Che Arnaud Lalanne ha studiato con grande precisione, catalogandone accuratamente le occorrenze nella sua

tesi di dottorato intitolata Genèse et évolution du principe de raison suffisante dans l’œuvre de G. W. Leibniz. Ri- trovando nella tradizione filosofica e teologica le diverse fonti del principio di ragione e i suoi antecedenti, egli ha messo in evidenza una continuità dall’Antichità in avanti poco compatibile con l’idea di un presunto periodo di incubazione del principio.

47 L’equivalenza posta da Heidegger tra «niente è senza ragione, senza fondamento» e «ogni ente ha un fondamen-

to» (M. Heidegger, Il principio di ragione, cit., p. 19) può in questo senso apparire riduttiva e dunque contestabile. Essa inoltre non tiene conto del fatto che se nulla è senza ragione, il «nulla» – l’assenza di effetto, di cambiamento o di movimento – deve avere una ragione. Esso cade sotto la legislazione del principio di ragione al medesimo titolo del «qualcosa». Come esiste una ragione perché una cosa sia o accada, c’è una ragione perché una cosa non sia o non accada. In più testi, Leibniz riporta l’esempio del postulato di Archimede, secondo cui «s’il y a une ba- lance, où tout soit de même de part et d’autre, et si l’on suspend aussi des poids égaux de part et d’autre aux deux extrémités de cette balance, le tout demeurera en repos». L’equilibrio deriva dalla mancanza di ragione, cioè dal fatto «qu’il n’y a aucune raison pourquoi un côté descende plus que l’autre» (Second écrit de Leibniz, fine novembre 1715, in Correspondance Leibniz-Clarke, présentée d’après les manuscrits originaux des bibliothèques de Hanovre et de Londres par A. Robinet, Paris, PUF, 1991, § 1 p. 36).

48 «[…] c’est un des plus grands principes du bon sens, que rien n’arrive jamais sans cause ou raison déterminan-

te» (Leibniz a Coste, 19 e dicembre 1707, in Die Philosophischen Schriften von Gottfried Wilhelm Leibniz, voll. I-VII, hsgg. von C. I. Gerhardt, Berlin, Weidmann, 1875-90 [repr. OLMS, Hildesheim, 2008], III, p. 402; d’ora in poi GP, seguito dall’indicazione del volume e della pagina).

Paul Rateau, Leibniz, Heidegger e il principio di ragione

di un «Satz vom Grund» negli scritti tedeschi49. Quanto alla ragione (nella for-