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L’allievo e il maestro, tra l’apprendistato e l’eredità della bottega Considerazione introduttiva sulla ‘maniera’ del giovane Giulio

C APITOLO III O TIUM ET N EGOTIUM: ‘SERIO LUDERE ’ A P ALAZZO T E A

III.1. Giulio Romano e Raffaello

III.1.1. L’allievo e il maestro, tra l’apprendistato e l’eredità della bottega Considerazione introduttiva sulla ‘maniera’ del giovane Giulio

Quando Raffaello morì improvvisamente il 6 aprile del 1520 – nel probabile giorno del suo compleanno e di Venerdì Santo –, consunto da un breve quanto fatale episodio febbricitante, i suoi illustri mecenati, colleghi e amici artisti si strinsero all’unanimità nel cordoglio per il pittore e architetto urbinate, scomparso a soli 37 anni. Rappresentante monumentale della maniera moderna, il Sanzio si mostrò ben più cordiale dello scontroso Michelangelo e maggiormente affidabile dello sfuggente e cervellotico Leonardo, e la sua prematura dipartita, oltre a comportare l’ovvia impossibilità da parte dei mecenati di potersi servire in futuro delle sue straordinarie doti artistiche, nonché la scomparsa di un artefice dalle rari qualità umane, contraddistinto da un’autentica «natura gentile» unita a «graziata affabilità»146, comportava un necessario passaggio di consegne, ovvero la gestione

dell’équipe di artisti che aveva adunato nel corso degli anni immediatamente precedenti, la

146 G.VASARI, Le vite…, cit., vol. IV, p. 154. In entrambe le edizioni della Vita dedicata a Raffaello, Vasari

esordisce e concluderà la sua biografia ponendo l’accento sul carattere squisito dell’artista urbinate – «non meno eccellente che grazioso» –, contrapponendolo apertamente a quello impossibile di Michelangelo e, in generale, a certe attitudini ‘viziose’ che sovente si manifestano nell’indole degli artisti, alle quali il Sanzio pareva, miracolosamente, essere immune. Benché si riscontrino delle differenze tra la biografia dell’edizione giuntina e di quella torrentiniana, queste sono trascurabili ai fini del messaggio trasmesso: questo non subisce in definitiva alcuno stravolgimento, e l’effetto elogiativo delle parole vasariane non risulta attenuato. Scrive, nella redazione del ‘68: «il quale [Raffaello] fu dalla natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole alcuna volta vedersi in coloro che più degl’altri hanno a una certa umanità di natura gentile aggiunto un ornamento bellissimo d’una graziata affabilità, che sempre suol mostrarsi dolce e piacevole con ogni sorte di persone et in qualunque maniera di cose. Di costui fece dono al mondo la natura quando, vinta dall’arte per mano di Michelagnolo Buonarroti, volle in Raffaello esser vinta dall’arte e dai costumi insieme. E nel vero, poi che la maggior parte degl’artefici stati insino allora si avevano dalla natura recato un certo che di pazzia e di salvatichezza che, oltre all’avergli fatti astratti e fantastichi, era stata cagione che molte volte si era più dimostrato in loro l’ombra e lo scuro de’ vizii che la chiarezza e splendore di quelle virtù che fanno gli uomini imortali, fu ben ragione che, per contrario, in Raffaello facesse chiaramente risplendere tutte le più rare virtù dell’animo, accompagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia et ottimi costumi quanti sarebbono bastati a ricoprire ogni vizio, quantunque brutto, et ogni macchia, ancorché grandissima. Laonde si può dire sicuramente che coloro che sono possessori di tante rare doti quante si videro in Raffaello da Urbino, sian non uomini semplicemente, ma, se è così lecito dire, dèi mortali […]» (ivi, vol. IV, pp. 154-155).

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quale avrebbe dovuto occuparsi dei progetti rimasti incompiuti. A causa di allogagioni sempre più incalzanti e onerose, Raffaello, al culmine della sua fortunata vicenda artistica, si trovò impossibilitato a sopperire da solo a tutte le operazioni necessarie per adempiere alle varie richieste in tempistiche soddisfacenti. Riservandosi di elaborare personalmente e in misura pressoché totale l’impostazione concettuale del lavoro artistico, nella forma concreta di studi grafici preparatori e cartoni, cominciò a delegare le varie fasi esecutive e di rifinitura a uno stuolo di artisti che presero a lavorare con lui, intensificando questa pratica nei momenti di maggior necessità, soprattutto a partire dagli ultimi, movimentati anni dei suoi impegni romani. Le personalità artistiche facenti parte del suo atelier variavano dall’essere giovani allievi ancora inesperti al costituirsi come pittori già smaliziati e affermati, ma la scelta degli artisti era attuata sempre e comunque in funzione del futuro buon esito della commissione. Pur nella sua composizione eterogenea per età ed esperienza degli artisti, il reclutamento di questi ultimi puntava a coprire aree specifiche di competenza, selezionando artefici che potessero svolgere con particolare perizia, autonomia e inventiva un determinato passaggio esecutivo: esemplare al nostro proposito citare la militanza nella bottega raffaellesca di Giovanni da Udine, lo ‘specialista’ delle riscoperte grottesche e delle immagini naturalistiche147. Guidati dall’illustre maestro, i collaboratori avevano modo di carpire preziosi suggerimenti saggiando coi propri occhi il ‘divino’ all’opera, ma la permanenza nella bottega di Raffaello forniva anzitutto un’importante occasione per abituarsi alle modalità e tempistiche di un lavoro di squadra, dal momento che questa soluzione cooperativa era spesso imperativa, resa necessaria dall’ingente mole di lavoro presupposta da talune grandiose committenze. L’apprendistato presso la scuola raffaellesca costituì un momento formativo imprescindibile per l’allievo Giulio Romano, nell’averlo altresì dotato degli strumenti necessari per dirigere in un futuro prossimo i lavori architettonici e pittorici di Palazzo Te a Mantova, per la cui commissione spetterà a lui, a sua volta, presiedere un ingente gruppo di artisti alle sue dipendenze.

Oltre ai già citati Giovanni da Udine e Giulio Romano, nella scuola raffaellesca lavorarono Perin del Vaga, Giovan Francesco Penni, Polidoro da Caravaggio, per rammentarne gli artisti

147 Giovanni da Udine ci ha tramandato le sue qualità nella realizzazione, ad esempio, dei brani vegetali, animali

e a grottesca nella Loggia di Psiche della Farnesina di Agostino Chigi e nelle Logge papali, dove si è destreggiato abilmente anche con lo stucco. Ed ancora, Vasari c’informa che la realizzazione dell’organetto dell’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello (1515-1516 ca) è da ricondurre allo stesso, il cui intervento non è effettivamente discernibile a detta del biografo, a riprova della grande abilità ivi dimostrata. Cfr. la Vita dedicata all’artista friulano, in ivi, vol. V, pp. 447-456.

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più in mostra. Vasari ricorda Giulio come il più valente degli allievi di Raffaello, in esordio della Vita a lui dedicata:

Fra i molti, anzi infiniti discepoli di Raffaello da Urbino, dei quali la maggior parte riuscirono valenti, niuno ve n’ebbe che più lo immitasse nella maniera, invenzione, disegno e colorito di Giulio Romano, né chi fra loro fusse di lui più fondato, fiero, sicuro, capriccioso, vario, abondante et universale; per non dire al presente che egli fu dolcissimo nella conversazione, ioviale, affabile, grazioso e tutto pieno d’ottimi costumi […]148.

Lo storiografo lo inquadra dunque come un artista completo, che disponeva di una fervente invenzione compositiva, di una sicura impostazione grafica e di abilità indiscussa nel ‘colorire’, preannunciando, nell’attenta selezione di aggettivi quali soprattutto «fiero» e «capriccioso», quei caratteri distintivi della ‘maniera’ del pittore, enfatica e spettacolare; quella giuliesca era altresì una compagnia amabilmente cortigiana, avvezzo com’era l’artista all’atmosfera mondana e intellettualistica dell’ambiente. Sempre secondo il brano vasariano, Giulio Romano ebbe, sin dal suo collaudo iniziale, un ruolo di spicco all’interno della bottega di Raffaello, dimostrandosi un collaboratore cruciale e particolarmente solerte per tutta la sua permanenza nella stessa. Il suo valido contributo fu determinante soprattutto nella decorazione delle Logge per Leone X, dove tradusse in pittura una parte consistente dell’invenzione raffaellesca, ma si estese in modo parimenti efficiente alle altre commissioni del maestro urbinate, quali la decorazione della Loggia di Psiche alla Farnesina e della terza stanza papale. Alla morte di Raffaello, furono Giulio e il Penni gli allievi designati a sobbarcarsi l’eredità del maestro, secondo quanto stabilito da quest’ultimo nel testamento149. Chiaramente, si trattava di un compito nobilitante, che attestava anzitutto il primato del Pippi e del Fattore sugli altri allievi dell’urbinate – o perlomeno, ne certificava una migliore predisposizione manageriale, indispensabile a coordinare la bottega –, ma si profilava al contempo come un incarico potenzialmente gravoso. Sostituirsi a Raffaello implicava, inevitabilmente, sostenere un agone col maestro, doversi confrontare con la sua modalità di

148 Ivi, vol. V, pp. 55-56.

149 Ivi, vol. IV, pp. 209-210. Vi si legge: «Per che fece testamento: e prima come cristiano mandò l’amata sua

fuor di casa e le lasciò modo di vivere onestamente; dopo, divise le cose sue fra’ discepoli suoi, Giulio Romano, il quale sempre amò molto, Giovan Francesco Fiorentino detto il Fattore, et un non so chi prete da Urbino suo parente; […] e lasciò ogni suo avere a Giulio e Giovan Francesco, faccendo essecutore del testamento messer Baldassarre da Pescia, allora datario del Papa».

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gestione del gruppo di collaboratori e, soprattutto, con i suoi risultati effettivi. Consacrato come uno dei massimi artefici di tutti i tempi in vita, già subito dopo la sua morte gli veniva tributato uno status di artista divino e inarrivabile: la storiografia artistica era pronta a giudicare gli esiti della nuova amministrazione di Giulio e del Penni, confrontandola con i gli esiti ottenuti dalla direzione raffaellesca.

Il rischio principale derivante dall’impiego di più collaboratori, ossia la possibilità dell’emersione di disomogeneità stilistica nella traduzione finale del lavoro artistico, era ben chiaro a Raffaello e doveva esserlo, a maggior ragione, anche a Giulio e al Penni, che avrebbero dovuto presentarsi come nuovi capocantieri. Artista dall’eclettismo mai pedissequo, a partire dal suo primo soggiorno romano il pittore urbinate si confrontò più apertamente con la maniera di Michelangelo, assimilandone quel carattere di monumentale plasticismo con cui invigorisce la sua ‘graziosa’ maniera, la qual cosa è anzitutto testimoniata dall’inserimento in extremis del ‘michelangiolesco’ Eraclito nell’affresco della

Scuola di Atene150. Tuttavia, Vasari annota che la ricezione raffaellesca fu talora eccessivamente cocciuta e forzata, tale da compromettere parzialmente la buona riuscita dei nudi dell’Incendio di Borgo – «ancora che siano buoni, non sono in tutto eccellenti» –, e ancor più quella dei corpi affrescati nella volta della Loggia di Psiche alla Farnesina – che mancavano di quella «grazia e dolcezza» caratteristica del pittore –, questi ultimi gravati, nella loro resa formale, anche e soprattutto dall’intervento evidente della bottega nel trasferimento pittorico: ragion per la quale Raffaello decise di riservarsi una padronanza totale, sia dell’invenzione che della fase esecutiva, della pala con la Trasfigurazione151. La decorazione della quarta stanza papale, la Sala di Costantino, fu orchestrata quindi da Giulio e dal Penni, che portarono a termine il lavoro nel 1524. Prima di morire, Raffaello, preso da altre, imprescindibili commissioni papali, in primis dall’avanzamento del progetto

150 PIERLUIGI DE VECCHI, Raffaello, Rizzoli, Milano 2002, pp. 162-163.

151 G.VASARI, Le vite…, cit., vol. IV, pp. 205-207. Il restauro operato sulla pala negli anni Settanta dello scorso

secolo, con la conseguente pubblicazione a cura di Mancinelli, riconsegna la Trasfigurazione all’autografia raffaellesca, eccezion fatta per alcune aree che non vennero completate (JÜRG MEYER ZUR CAPELLEN, Raphael. A Critical Catalogue of his Paintings, vol. II – The Roman Religious Paintings, ca. 1508-1520 –, Arcos, Landshut 2001-2015, p. 198). Il che appare del tutto ragionevole, se consideriamo che la Trasfigurazione si poneva anche in diretta competizione con la Resurrezione di Lazzaro (1516-1519) che Sebastiano del Piombo andava gelosamente realizzando, anche questa commissionata dal cardinale Giulio de’ Medici per la cattedrale di Narbona. Difatti, la storica rivalità tra Raffaello e Michelangelo ha individuato un’importante figura mediana proprio in Sebastiano: quest’ultimo, con il frequente supporto di Michelangelo che gli forniva disegni e alle volte cartoni, su cui il Luciani a sua volta imprimeva la sua tecnica di pittura ad olio, poteva proporsi come un artista che esemplificasse sia il ‘disegno’ fiorentino che il ‘colorito’ veneziano, e sostituirsi al Buonarroti in un confronto diretto con l’urbinate (cfr. COSTANZA BARBIERI, The Competition between Raphael and Michelangelo and Sebastiano’s Role in It, in The Cambridge Companion to Raphael, a cura di M. B. Hall, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 141-164).

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per la basilica di San Pietro, fece appena in tempo ad ultimare alcuni cartoni per la suddetta stanza, ma il suo contributo per l’ultima sala si esaurì di fatto nell’espletamento di fasi preparatorie, senza che potesse inventare alcunché per gli ultimi due episodi del Battesimo e della Donazione. I problemi derivanti dal coinvolgimento pregresso di Raffaello, ormai deceduto, emergono praticamente da subito. Quest’ultimo aveva preparato la parete meridionale della sala affinché venisse dipinta con la tecnica ad olio, ma l’opzione esecutiva venne in seguito scartata dai nuovi capibottega: questi, delusi dai risultati della tecnica raffaellesca, mantenendo le due figure del maestro realizzate con la suddetta tecnica, la

Iustitia e la Comitas, questa nella parete della Visione della croce, optarono per il più

collaudato affresco, al fine di condurre il lavoro più velocemente e, probabilmente, per garantirsi un esito più agevole e felice152. Nella Vita di Giulio Romano, il giudizio vasariano

sulla quarta sala è ambivalente, presentando un’intonazione leggermente meno encomiastica rispetto a quella riservata alle prime due stanze vaticane, d’autografia esecutiva quasi esclusivamente raffaellesca. Tuttavia, nel medesimo contesto Vasari si concede un breve inciso evidentemente funzionale al riscatto della dignità artistica di Giulio, quando lo storiografo, poco più avanti, afferma che alcune debolezze degli affreschi siano evidentemente dovute a una certa insofferenza provata dall’artista nei confronti del suo compito largamente esecutivo, un’uggia tanto più struggente se rapportata all’altisonanza della commissione papale:

[…] i quali [si riferisce ai papi entro le nicchie, contornati da putti e figure allegoriche] tutti furono tanto bene accommodati e condotti da Giulio, il quale in quest’opera a fresco fece i migliori, che si conosce che vi durò fatica e pose diligenza; come si può vedere in una carta d’un San Salvestro, che fu da lui proprio molto ben disegnata, et ha forse molto più grazia che non ha la pittura di quello, benché si può affermare che Giulio esprimesse sempre meglio i suoi concetti ne’ disegni che

152 Cfr. G.VASARI, Le vite…, cit., vol. V, p. 59; CHRISTOPH LUITPOLD FROMMEL, Raffaello. Le stanze, Jaca

Book, Milano 2017, pp. 67-75. La restituzione delle figure della Iustitia e della Comitas alla mano di Raffaello deriva dai risultati da un’importante campagna di restauro che ha interessato le Stanze Vaticane dal 2015 al 2017, coordinata da Maria Ludmilla Pustka: in attesa della pubblicazione cartacea, cfr. Vatican Magazine,

“Amicizia e Giustizia, il Raffaello ritrovato”, 30-06-2017,

<https://www.youtube.com/watch?v=4iPcji7MLMs> (ultimo accesso: maggio 2019), il video esplicativo caricato dall’account del Centro Televisivo Vaticano in data 30 giugno 2017. Poiché si pone in evidente continuità col nostro precedente discorso circa Bronzino e la figura del nano cortigiano, richiamo l’attenzione su una stridente e irriverente presenza nanesca dipinta da Giulio nell’affresco della Visione della croce: si tratta di Gradasso de’ Berettini, appartenente al nipote di Leone X, che assume un comportamento quasi ingiurioso nel trastullarsi con un elmo troppo grande per lui, mentre si sta svolgendo il solenne episodio (cfr. R.O’BRYAN, Grotesque Bodies, Princely…, cit., pp. 252-254, 261).

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nell’operare o nelle pitture, vedendosi in quelli più vivacità, fierezza et affetto: e ciò potette forse avvenire perché un disegno lo faceva in un’ora, tutto fiero et acceso nell’opera, dove nelle pitture consumava i mesi e gl’anni. Onde venendogli a fastidio, e mancando quel vivo et ardente amore che si ha quando si comincia alcuna cosa, non è maraviglia se non dava loro quell’intera perfezzione che si vede ne’ suo’ disegni. Ma tornando alle storie, […]153.

Si tratta per certo di un’osservazione che mira a sottolineare l’eccellenza dell’invenzione grafica di Giulio Romano: Vasari sembra suggerire che, tutto sommato, egli fosse come sprecato ad occuparsi perlopiù della traduzione pittorica, lasciando intendere che in altre occasioni il pittore avrà modo di farsi valere esercitando questa sua fondamentale ed eccelsa qualità, senza ingerenze pregresse e limitanti. Per quanto l’ultima fase di traduzione pittorica costituisse, logicamente, un passaggio d’importanza assoluta e dovesse essere eseguita con indiscussa abilità, nella cultura rinascimentale, e soprattutto manierista, l’estro e il valore dell’artista si manifestavano anzitutto nell’elaborazione dell’inventio concettuale, tant’è vero che il capo di una grande committenza si occupava per prima cosa d’impostarne l’assetto concettuale, eventualmente delegando, in misura più o meno consistente, la fase esecutiva alla bottega154. Nel corso di un passo successivo della stessa Vita, lo storiografo aretino non esiterà a nominare Giulio «migliore artefice d’Italia», a riprova del fatto che l’esito non propriamente eccellente della sala di Costantino non potesse in definitiva pregiudicare la nomea di un artista così valente: a maggior ragione se certe imperfezioni di questi fossero imputabili all’estensivo confinamento del contributo di Giulio alla fase esecutiva155. Non ritengo astruso supporre che la preesistenza di un’impostazione raffaellesca unitamente a quell’aura leggendaria di cui l’urbinate, morto poc’anzi, poteva già ammantarsi, siano stati elementi in una certa misura limitanti per l’allievo all’opera. Sono conscia delle derive pericolosamente romanzesche che un simile pensiero adduce, e tuttavia, vorrei suggerire – affiancandomi comunque a un discorso già pronunciato dagli studiosi

153 G.VASARI, Le vite…, cit., vol. V, p. 60.

154 Si veda l’indagine di questa concezione relativamente alla fase artistica di nostro interesse in SALVATORE

SETTIS, Artisti e committenti fra Quattro e Cinquecento, Einaudi, Torino 2010 (ed. or. 1981), pp. 32-51.

155 G.VASARI, Le vite…, cit., vol. V, pp. 64-65. Giulio Romano raggiunse invero una fama tale da attirare

l’attenzione di Federico II Gonzaga, marchese di Mantova, il quale rappresentò per l’artista un mecenate fondamentale: «Per le quali sue ottime qualità essendo Giulio, dopo la morte di Raffaello, per lo migliore artefice d’Italia celebrato, il conte Baldassarre Castiglioni, che allora era in Roma ambasciadore di Federigo Gonzaga marchese di Mantova, et amicissimo, come s’è detto, di Giulio, essendogli dal marchese suo signore comandato che procacciasse di mandargli un architettore per servirsene ne’ bisogni del suo palagio e della città, e particolarmente che arebbe avuto carissimo Giulio, tanto adoperò il conte con prieghi e con promesse, che Giulio disse che andrebbe ogni volta, purché ciò fusse con licenza di papa Clemente».

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della materia – che Giulio Romano, assecondando soluzioni figurative più ardite e consone alla sua maniera a Palazzo Te – dove assume, finalmente, il ruolo di detentore esclusivo dell’inventio –, si liberi definitivamente dell’ombra raffaellesca, prendendosi al contempo una sorta di rivalsa sul pur stimatissimo maestro. Più concisamente: intendo affermare che tali soluzioni, viranti in taluni casi verso l’immagine ‘grottesca’, centro privilegiato del nostro interesse, vengano formulate con orgoglio e autoconsapevolezza, ed esibite come vessillo distintivo e di differenziazione rispetto alla lingua pittorica di Raffaello156.

Queste osservazioni mi offrono lo spunto per approfondire quest’argomento preliminare, quello relativo allo stile, o ‘maniera’ che dir si voglia, di Giulio Romano. John Shearman, che indagò estensivamente sull’opera grafica raffaellesca e sul funzionamento effettivo della bottega dell’urbinate, dissuase gli storici dell’arte dall’assegnare la paternità dei vari disegni sulla base esclusiva del carattere ‘stilistico’, dal momento che i ‘garzoni’ s’impegnavano alacremente nell’allinearsi al modus di Raffaello, contenendo i propri orientamenti disegnativi: la nozione guida doveva essere invece quella ‘qualitativa’, poiché i disegni dei giovani allievi, per quanto questi lavorassero con diligenza, non potevano raggiungere gli esiti ben più maturi di quelli raffaelleschi. Tra le prove grafiche per la definizione concettuale della volta della Loggia di Psiche, ve n’è una che illustra uno Studio per Ebe e Proserpina (fig. 76), per il quale Shearman propende per una paternità giuliesca. Si tratta, per lo studioso, di una buona prova grafica, che giunge quasi ad accostarsi alla qualità di quelle raffaellesche, ma che evidenzia nel complesso delle evidenti ingenuità compositive: quale ad esempio la definizione concettualmente non unitaria della struttura muscolare della schiena della figura, nonché una sostanziale, minore sensibilità del percorso grafico, che si manifesta nel tratteggio più energico ma meno controllato della matita. Il disegno con la coppiera viene raffrontato da Shearman con un altro di supposta mano giuliesca, uno Studio per un’erma per il basamento della Stanza dell’Incendio (fig. 77). Il confronto è proposto al fine di evidenziare i punti di contatto tra le due opere grafiche dell’allievo: la preoccupazione plastica oltremodo accordata al braccio destro, che non viene evidentemente pensato in