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Un cortigiano imperfetto: percezione del nano-buffone tra fascino e ripugnanza

C APITOLO II I L GROTTESCO ‘ INTRINSECO ’: IMPLICAZIONI DELLA RITRATTISTICA NANESCA ALLA CORTE DEL CINQUECENTO

II. 2.2 ‘Antico’ versus ‘Moderno’: ricadute divertite della riflessione sulla classicità

II.2.4. Un cortigiano imperfetto: percezione del nano-buffone tra fascino e ripugnanza

Sebbene di levatura infima, il nano era pur sempre un elemento dell’ensamble cortigiano, e come tale doveva – in teoria – rispondere ai dettami dell’etichetta messa a punto dal Castiglione. Certo, questo per quanto gli fosse possibile: la corte principesca sa bene che il nano è un cortigiano imperfetto – il contrario, invero, del cortigiano modello presentato dall’umanista mantovano –, e la richiesta principale che fa al suo subalterno menomato è semplicemente quella di rispondere alla sua mansione più ovvia, ossia d’intrattenere i suoi padroni esibendosi in performance ridicole e sregolate. Questo non era dovuto al fatto che il nano cortigiano fosse necessariamente un mentus defectus: mentre Aristotele individuava nella sproporzione nanesca della testa rispetto al tronco un sintomo di deficienza mentale – controbilanciata perlomeno da un’invidiabile prestanza sessuale –, alcune considerazioni di Giovan Battista della Porta descrivono il nano come un personaggio d’intelligenza vivace e dai riflessi fulminei, essendo sveltezza e acume conferitigli da una circolazione sanguigna particolarmente veloce, poiché fluente in un corpo più piccolo134. Nonostante il suo cognome indicasse suo malgrado una persona di scarso intelletto – e il suffisso diminutivo cadeva purtroppo a fagiolo –, il nano Barbino era tutt’altro che uno sciocco, e il suo ritratto scultoreo restituitoci dal Cioli (fig. 67), raffigurante un giovane imberbe dell’età di circa venti anni recante un pesce e una rete – forse perché il pesce d’acqua dolce dal nome ‘barbo’ o ‘barbio’ richiamava la sua persona –, ce ne dà una conferma iconica. Al contrario dell’originario

pendant costituito dal Morgante barbuto, dove la carica comico-grottesca è lampante, al

secondo nano mediceo sembra esser stato riservato un trattamento sensibilmente diverso: l’acondroplasia di Barbino, che si manifesta in primis nelle gambe sbilenche e corte, non è idealizzata né taciuta, così come l’evidente ingrossamento del capo, ma la scultura trasmette nel complesso un ritratto di serena e composta dignità. Sappiamo da alcune fonti

134 ESTHER DIANA, Il ‘popolo dei piccoli’. Un percorso di affermazione tra credenze e medicina, in Buffoni,

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tramandateci che Pietro Barbino era anche un apprezzato letterato e poeta, sebbene nessun componimento di sua mano ci sia stato tramandato: Vasari lo ricorda come un «nano ingegnoso, letterato e molto gentile, favorito dal Duca nostro»135. Il riconoscimento dell’arguzia nanesca o della manifestazione di un estro creativo, com’è deducibile, non costituiva tuttavia un requisito sufficiente a collocare il nano in una posizione gerarchica superiore: e nondimeno, questa ferrea convinzione della propria superiorità di uomini e donne ‘normali’ celava in realtà una profonda, ben radicata sensazione di turbamento avvertita in presenza dell’acondroplasico. Sulla figura nanesca, difatti, gravava anche una nutrita serie di pregiudizi e credenze popolari, che alimentava una percezione traviata del piccolo buffone: essi narravano – ad esempio – della sua incontenibile lascivia, di voracità insaziabile e persino di una presunta irritabilità incendiaria136. L’ultima coppia oppositiva

esemplificata dal Morgante risiede proprio nella doppiezza morale attribuita al nano dagli ambienti principeschi: cortigiano inserito – e, come Barbino, alle volte colto e versato nelle arti –, ma mostro subumano; personaggio infimo, bersaglio delle vessazioni e dello scherno dei princeps, e tuttavia figura indecifrabile e insidiosa, che risveglia inquietudini e tormenti legati alla sua particolare condizione fisica. In quanto figura apicale della piramide cortigiana, il signore si aspetta piena sudditanza e fedeltà dal nano di corte, ma il pericolo che la creatura ‘inferiore’ irrompa nella sua alterità mostruosa e sconosciuta, rompendo gli argini di quella struttura gerarchica socio-culturale, è costantemente percepito. In virtù della persistenza di questo sentimento ambivalente verso il nano cortigiano, non mi sembra irragionevole leggere e interpretare gli esempi di ritrattistica nanesca anche come espressioni di una sorta di pratica apotropaica per immagini, volta a contenere e normalizzare quegli aspetti indecifrabili e temuti del bizzarro cortigiano. Venendo ritratto – da solo o in effigi d’insieme –, il nano non solo si esibiva come ‘gingillo’ e attributo di prestigio del signore, ma acquisiva un aspetto omologato. Benché giustamente riconducibile alla convenzione esibizionistica del signore espressa col medium artistico, mi pare che il Ritratto di Scipione

Clusoni con un paggio nano (fig. 68) – eseguito da Tintoretto nel 1561 –, illustri quella

sensazione fastidiosa di cui prima, cogliendo un’atmosfera non propriamente distesa. Il dipinto potrebbe proprio esemplificare quella doppiezza nanesca, nel suo innescare un gioco di specularità distorta nel quale il Clusoni, fissandone le fattezze alterate – sedotto ma altresì

135 D.HEIKAMP, Nani alla corte…, cit., pp. 50-54; G.VASARI, Le vite…, cit., vol. VI, p. 254. 136 C.SPILA, Mostri da salotto…, cit., pp. 45-46.

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turbato dalla devianza dalla norma fisiologica incarnata dal paggio –, riconosce nel nano un suo «doppio anormale», una versione mostruosa e inintelligibile della propria persona137. Nonostante il Morgante del Bronzino rappresenti ad ora l’unico dipinto in cui il nano sia ritratto da solo – insieme all’esempio scultoreo del Cioli e alcuni bronzetti del Giambologna e della sua cerchia –, il celebre Braccio fa incursione in numerosi altri lavori di provenienza fiorentina. Ad esempio, la sua piccola figura grottesca è ravvisabile nella sezione del basamento bronzeo della statua equestre di Cosimo che ne ritrae l’Elezione a duca, sempre della mano di Giambologna (1599) (fig. 69): Braccio, con la complicità del cagnolino che porta in collo, è forse dissuaso da un altro cortigiano dal compiere qualche dispetto in quell’occasione così solenne; ed ancora, un nano in armatura, recante una lanterna – verosimilmente lo stesso Morgante – compare nel grande affresco realizzato da Vasari e Giovanbattista Naldini nella parete est del Salone dei Cinquecento, raffigurante La presa del

forte presso Porta Camollia a Siena (1570), la quale costituì uno dei passaggi verso la

conquista della città, avvenuta tra il ’53 e il ‘55 (figg. 70-71)138. La presenza di Morgante in queste scene – che scandiscono momenti cruciali della stirpe medicea e della nascita del Granducato – , colorisce gli episodi narrati con una nota grottesca, rendendo nel mentre conto dell’aspetto riccamente eterogeneo della corte fiorentina; e più in generale, la comparsa del nano è giustificata dalla sua accettazione ormai consolidata nell’ambiente ‘familiare’ – intendendo l’accezione amplia dell’aggettivo, che valga come sinonimo di ‘cortigiano’ –, ponendosi come un atto di conferma visivo nei confronti di quel contenimento normativo attuato dalla ricontestualizzazione nanesca nella struttura di corte. Allo stesso modo, Morgante e altri nani compaiono sovente in raffigurazioni diverse dell’ambiente cortigiano, che non immortalano episodi bellici né altre occasioni similmente auliche. Il XVI secolo adduce non poche testimonianze visive di grandiosi banchetti e conviti imbastiti dalle regge, che rappresentavano il momento ideale in cui il padrone poteva fare sfoggio dell’opulenza e della sontuosità del suo ambiente: la fissazione di quei momenti goderecci tramite l’atto artistico, com’è intuibile, era funzionale a perpetrare nel tempo il ricordo di quelle occasioni gloriose; il nano, espletando la sua comicità prevalentemente in contesti

137 Ivi,p. 38.

138 D.HEIKAMP, Nani alla corte…, cit., pp. 49-50,59. Il Morgante compare anche in uno dei quattro tondi del

soffitto della sala di Cosimo a Palazzo Vecchio, che raffigura Cosimo I che visita le fortificazioni dell’Elba (1556-1558 ca), di mano vasariana: l’inquadratura restituisce un’immagine decisamente simile a quella dipinta sul verso della tela bronzinesca (ivi, pp. 48-49). Ed ancora, lo si intravede, per esempio, ne La Vetreria di Giovanni Maria Butteri (1570-1572), uno dei dipinti che decora lo Studiolo di Francesco Medici: il suo corpo grasso si piazza sullo sfondo dell’opera, proponendosi come nota dissonante rispetto alla levità e trasparenza degli oggetti creati e alla solerzia svelta dei mastri vetrai (ivi, p. 50).

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gastronomici, vi trovava il suo naturale campo d’azione. La ricostruzione di queste occasioni mondane è spesso mediata, ossia: il pittore procede effettivamente con l’illustrare episodi simili rintracciabili – ad esempio – nelle Sacre Scritture, ma la magniloquenza della scena dispiegatavi tradisce il fatto che si tratti in realtà di una corte rinascimentale in incognito. Ed ecco l’immagine del Morgante – ricalcante a ben vedere l’effigie del verso del dipinto bifronte – profilarsi in primo piano nella veste di commensale del fastoso banchetto mostrato nel Siface di Numidia che riceve Scipione (figg. 72-73) – un episodio tratto dalla storia repubblicana romana –, affrescato da Alessandro Allori, discepolo di Bronzino, tra il 1578 e il 1582 nella sala di Leone X della Villa medicea di Poggio a Caiano: il nano è vestito di un abito giullaresco e tiene al guinzaglio una scimmietta che si nasconde sotto la tavola imbandita139. Una situazione decisamente simile si ripresenta nelle mense del Veronese, tra

le quali possiamo ricordare le Nozze di Cana (1563) e il Convito in casa di Levi (1573). Sia nel primo che nel secondo affresco figurano dei nani: nelle Nozze individuiamo un nano vestito alla moresca, con un’evidente deformazione alle gambe, che reca nella mano sinistra un pappagallo, indaffarato con l’altra a racimolare qualche cibaria da un piatto; nel Convito compare un altro nano vestito alla buffonesca, inquadrato in primo piano sullo scalone a sinistra, che tiene anch’egli un pappagallo nella mano sinistra, venendo nel mentre importunato da un garzone moro recante un piatto di stagno. In entrambi i casi, è interessante notare come il nano venga raffigurato accanto a degli animali – nel nostro caso, con scimmie e pappagalli –, con cui interagisce: oltre a costituirsi come una nota grottesca, il nano e determinati esemplari animali adducono un elemento di ‘esoticità’ alle opere citate140. L’associazione dell’umile buffone con la realtà animalesca della corte si traduce nella sua equiparazione preventiva con la stessa, che stabilisce l’impossibilità da parte del nano cortigiano di ricoprire un ruolo più dignitoso, negandogli di fatto la sua umanità: prendendo in prestito il termine coniato da Véronique Dasen, potremmo dire che il nano sia stato

139 D.KUNZELMAN, Le indagini…, cit., p. 31.Un esempio antecedente all’affresco dell’Allori è costituito dal

Tributo a Cesare di Andrea del Sarto – completato dall’Allori stesso nei primi anni Ottanta del secolo –, realizzato intorno al 1520 sempre per la villa medicea di Poggio a Caiano, nella medesima sala, su committenza del papa: non si tratta di un banchetto, ma l’opera tradisce per certo uno spirito affine al Siface nella raffigurazione del consueto parterre di animali esotici, tra cui una giraffa e delle scimmiette, testimonianti dei doni diplomatici ricevuti a suo tempo da Lorenzo il Magnifico – padre del papa e proprietario originario delle dimora campestre – e delle possessioni animali di Leone X. L’esoticità della scena ritratta è coadiuvata dalla presenza di Mori e Turchi nel corteo dei recanti doni, nonché da una figura nanesca assisa sul primo dei gradini. I tratti somatici da acondroplasico sono leggibili nel suo volto, inquadrato lateralmente, così come la deformità della sua gamba sinistra: anche in quest’occasione è ritratto vicino a una scimmietta, con cui condivide l’abbigliamento giullaresco, mentre nella mano destra accoglie un contenitore all’interno del quale riconosciamo un camaleonte (R.O’BRYAN, Grotesque Bodies, Princely…, cit., pp. 262-263).

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trasformato in un «animaltender», nel custode dello zoo cortigiano, dove detiene il medesimo status gerarchico delle bestie a cui bada141.

Mi pare che questa dimensione contenitiva e ambigua implicata dalla ritrattistica nanesca acquisisca una limpidezza ancor maggiore in alcune di quelle effigi dinastiche che si mostrano come istantanee dei membri della corte, ritratti intimamente familiari dietro i quali, ovviamente, si delineavano ambizioni politico-dinastiche. Sebbene esuli dal contesto cronologico prevalentemente preso in esame, mi permetto di ricordare sinteticamente un momento del ciclo affrescato della Camera degli Sposi del Mantegna (1465-1474) funzionale al nostro discorso, che si avvia alla sua conclusione. La parete nord della cosiddetta Camera picta reca un affresco raffigurante la corte del committente Ludovico III Gonzaga (figg. 74-75): vengono esibiti i componenti intimi del suo entourage, tra cui i membri della sua famiglia, alcuni dignitari, il cane, e la nana cortigiana. Come già detto a proposito degli esempi precedenti, l’inclusione della nana mira a inserire un commento dissonante nell’affresco ‘familiare’, testimoniando al contempo il costume cortigiano di collezionare tali personaggi, che nel caso della corte mantovana fu ampiamente praticato e apprezzato142. L’affresco ci conferma nuovamente la costruzione del binomio nano-animale che abbiamo osservato in precedenza: le dimensioni della donna minuta richiamano per analogia quelle della figura canina, mentre si contrappongono ai gentiluomini alla sua sinistra e al drappo del vestito della duchessa alla sua destra, dal quale l’anonima nana è parzialmente inglobata. Si noti infine come la degradazione del nano non risulti esclusivamente dalla sua associazione con la sfera animalesca, ma consegua altresì dalla sua associazione con la fisionomia infantile, rispetto alla quale la somatica dell’acondroplasico – e, nel nostro caso specifico, della nana del Mantegna – rappresenta un’alterazione grottesca. Irrigidita nel suo corpicino da «erma paradossale», la nana stringe con vezzo un po’ bambinesco un fazzoletto nelle mani giunte, ed è l’unica a sostenere lo sguardo dello spettatore, rivolgendogli uno sguardo triste, pur vagamente inquisitorio: forse volutamente a trasmettere una sensazione repulsiva e disagiata, percepita in primis dal Mantegna che l’ha ritratta e dalla corte del Gonzaga che l’ospitava nella propria dimora, ammaliata dal suo

141 Cfr. B.M.SACCHETTI, Venatio e deformitas…, cit., p. 19.

142 Sino a pochi anni fa, si dava credito a un’affascinante leggenda sorta attorno alla cospicua collezione

nanesca dei Gonzaga: trattasi di quella relativa alla ‘Casa dei Nani’, un appartamento in miniatura situato nel palazzo gonzaghesco di Mantova, all’interno del quale, secondo la tradizione, avrebbero risieduto i nani della famiglia. Il rinvenimento di una carta nell’Archivio storico diocesano ha permesso di scoprire che si trattasse in realtà di un luogo devozionale, costruito, come altri, a imitazione della Scala Santa del Laterano in Roma (C.SPILA, Mostri da salotto…, cit., pp. 31-32).

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essere a suo modo un prodigio naturale, ma parimenti disgustata e inquietata dall’anormalità nanesca143.

In quanto egli stesso promotore ed esecutore di successo e prestigio del marchingegno dell’arte cortigiana, spesso d’intonazione allegorica e autoreferenziale, Vasari era ben avvezzo alla possibilità che un prodotto artistico, cucito su misura del princeps, potesse presentare in definitiva implicazioni sfaccettate: lo storiografo colse immediatamente quella matrice di dualismo insita nell’opera bronzinesca, e l’apparente scabrosità del soggetto ivi rappresentato non costituiva di certo per l’aretino un ostacolo nella valutazione oggettiva del dipinto, ritenuto da questi una pittura «bella e maravigliosa»144. Nel momento in cui le immagini grottesche si svincolano dal solipsismo leonardesco per esaudire adempienze cortigiane, compiendo una maturazione a giovevole strumento di ostentazione politico- dinastica, queste, per quanto in apparenza «bizarre e capricciose» – queste le parole impiegate con tono entusiasta dal Vasari a proposito dei «capitoli bernieschi» di Bronzino, ma precedentemente impiegate, come ricorderemo, per denigrare alcune attività leonardesche145 –, divengono parte integrante del sistema cortigiano volto a realizzare la

celebrazione artistica del regnante, e per questo motivo legittimate dall’accademico. A questo punto, intuiremo con ragionevolezza che il ritratto bifronte di Braccio di Bartolo, quando affiancato a quello della duchessa Eleonora o del granduca Cosimo, non dovesse al tempo apparire come un dipinto stridente e anomalo, non nella sua concezione e né nell’effettiva realizzazione pittorica da parte del Bronzino, indubbiamente di pregevole qualità. Il personaggio nanesco è foriero di un’interpretazione plurima del serio ludere, che sfocia invero in un cortocircuito di significati: nell’incarnazione pittorica del Morgante, i cui risvolti ‘ludici’ e ‘seri’ sono stati saggiati poc’anzi; ma la natura ludens del nano era richiamata, principalmente e con immediatezza, dal suo stesso impiego buffonesco: condizione perlopiù mortificante, questa si presentava in fin dei conti come una professionalità largamente richiesta dalle corti, e quest’occasione ‘lavorativa’ faceva del

143 Ivi, pp. 13-16. O’Bryan trattiene la nostra attenzione sulla gestualità della nana, che si rivelerebbe essere, a

suo dire, più di un semplice gesto ingessato: l’indice della sua mano destra scivola nell’incavo dell’altro pugno chiuso, assecondando un tacito richiamo al coito – allusione rinforzata dal fatto che la nana fosse parte integrante della ‘coda’ della duchessa di Brandeburgo, con la cui parola si poteva alludere in gergo al fallo – e quindi richiamando implicitamente la capacità sessuale popolarmente accordata ai nani (R. O’BRYAN, Grotesque Bodies, Princely…, cit., pp. 257-260).

144 G.VASARI, Le vite…, cit., vol. VI, p. 235. 145 Ivi, vol. VI, p. 237.

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nano una presenza costante nelle regge, dov’era stipendiato e, alla fin fine, persino amato dai componenti della famiglia regnante.

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