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Oltre Clark e Gombrich: sulle tracce di un’ideale filiazione artistica all’insegna della varietas

C APITOLO III O TIUM ET N EGOTIUM: ‘SERIO LUDERE ’ A P ALAZZO T E A

III. 1.2 «Sermone isto milesio»: la Camera di Psiche Conquiste artistico-identitarie attraverso la manipolazione della fabella di Apuleio

III.2. Giulio Romano e Leonardo

III.2.1. Oltre Clark e Gombrich: sulle tracce di un’ideale filiazione artistica all’insegna della varietas

Nel passare al vaglio le possibili valenze dell’immagine paesaggistica lungo i secoli, Kenneth Clark – nel suo Landscape into Art, al capitolo titolato Landscape of fantasy – prende in esame i convulsi disegni leonardiani dei ‘moti dell’acqua’ – i ‘deluge’ –, osservando come questi ultimi, dal ductus vorticoso e autodistruttivo, trascrivano la spaventosa impossibilità da parte dell’uomo di domare queste calamità naturali, con enfasi catastrofica: e tuttavia, questo insieme di disegni non incarna l’apocalittico simbolico medievale, dal momento che Leonardo era per certo e primariamente interessato alla restituzione pittorica di questi dati, procedendo di fatto all’eliminazione della differenza tra «symbol» e «reality». Non escludiamo che Leonardo, soggetto straordinario ma pur sempre essere umano, si sia alle volte sentito sopraffatto nell’appurare la terribile imprevedibilità e immanenza di talune, perniciose manifestazioni naturali, le cui grandiose e numerose forme assunte scoraggiavano altresì la sua fiducia nel riuscire a registrarle esaustivamente in immagine; eppure, allo stesso modo, concorderemo con Batkin che la vera tragedia per Leonardo sarebbe risultata dall’esaurirsi della varietas, con conseguente inaridimento della sua attività pittorica: la qual cosa, sicuramente, non si poneva come un rischio percorribile175. Venti anni dopo, prosegue Clark, il sentore catastrofico sprigionato dai

deluge leonardeschi verrà rievocato da Giulio Romano, che ne amplificherà in concretezza

quella vena apocalittica, operando non su piccoli fogli, bensì sulle grandi pareti murarie della

Sala dei Giganti di Palazzo Te. Tra le pagine seguenti, s’insinua una sensazione generale di

fastidio nei confronti dell’inesattezza dell’elemento naturalistico tipico dell’arte manierista, la quale si riserba di fare affidamento su «tricks» e «minimum first-hand observation», che finiscono per distorcere, per l’appunto, la verità ottica del dato reale. Invero, i due unici esponenti del Manierismo che vengono redenti per le qualità «significative» dei loro brani paesaggistici sono El Greco e Tintoretto, anche se l’ultimo, al contrario di Rubens, citato poco dopo e apprezzato per il riscontro preciso con il dato naturale, «probably never paused

to draw the correct form of a single leaf». Lo stesso Giulio Romano, erede dello spirito

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naturalistico-catastrofico di Leonardo, incarnato dai Giganti schiacciati dai grevi brandelli dell’architettura rovinosa, ricrea un immaginario «powerful and exciting», «grotesque, but

significant». E purtroppo, conclude Clark con una punta di delusione: «[…] the feeling for the independent life of nature which was the mainspring of Leonardo, has been lost in mannerism»176.

Al di là del commento poco entusiasta circa l’interpretazione del naturale offerta dall’artista manierista, quel che c’interessa estrapolare ai fini del nostro discorso è che sia stato teorizzato un collegamento ideale tra Leonardo e Giulio Romano. La suggestiva proposta di Clark venne accolta con curiosità da Gombrich, coinvolto anch’egli nell’esplorazione dei

deluge di Leonardo, che ha cercato d’ipotizzarne con maggior specificità i passaggi

intermedi: era necessario ripercorrere le rotte umane e artistiche di Leonardo e Raffaello, al fine di trovare eventuali punti d’intersezione tra i due al momento giusto. Già ‘conosciutisi’ durante gli straordinari anni fiorentini del 1504-1505, che videro l’eccezionale compresenza anche di Michelangelo, Leonardo sostò nuovamente a Roma dal 1513 al 1516, dove Raffaello risiedeva oramai stabilmente177. Leonardo, ipotizza Gombrich con una certa

sicurezza, ‘deve’ aver visto la volta ultimata della Cappella Sistina, affrescata dal suo arcirivale Michelangelo. Deve anche aver saggiato, continua lo studioso, gli eccezionali progressi maturati dal collega nella raffigurazione dell’anatomia umana, ma deve aver parimenti osservato il sostanziale disinteresse di quello nei confronti della restituzione dell’elemento naturale e di tutto quello che implica, soprattutto degli «effetti atmosferici» tanto cari al genio: il Diluvio michelangiolesco (fig. 92), in particolare, avrà convinto il pittore vinciano che l’odiato collega non fosse veramente ‘universale’, reo qual era di aver praticamente omesso, abbozzandolo con sintetica sufficienza, l’imprescindibile mondo naturale. Suggestionato anche dalla presenza nel catalogo grafico leonardesco di un disegno ritraente un diluvio particolarmente simile, nella sua composizione, all’omonimo soggetto affrescato da Michelangelo (fig. 93), Gombrich azzarda infine una sua conclusione. Confidando nell’accadimento effettivo di incontri ‘fisici’ tra Leonardo e Raffaello sia a Firenze che Roma – il secondo si confrontò chiaramente con l’opera del primo al suo arrivo

176 KENNETH CLARK, Landscape into Art, Penguin Books, Harmondsworth 1961 (ed. or. 1949), pp. 60-63. 177 A tal proposito, per il primo incontro di Raffaello con l’opera leonardesca – e forse con Leonardo stesso –,

cfr. ANDRÉ CHASTEL, Raffaello e Leonardo, in Studi su Raffaello, a cura di M. Sambucco Hamoud e M. L. Strocchi, atti del convegno internazionale di studi, Urbino-Firenze 6-14 aprile 1984, Edizioni QuattroVenti, Urbino 1987, vol. II, pp. 335-343; per le implicazioni posteriori, della decade successiva: cfr. CARMEN C. BAMBACH, Leonardo and Raphael in Rome in 1513-16, in Late Raphael, atti del congresso internazionale, a cura di M. Falomir, Museo del Prado, Madrid ottobre 2012, Brepols, Turnhout 2013, pp. 26-35.

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nel capoluogo toscano –, fantastica che l’urbinate, memore dell’accesa contesa fra i due illustri artisti, abbia condiviso coll’allievo prediletto, Giulio Romano – o forse, che Giulio stesso avesse ascoltato colle proprie orecchie una conversazione del genere, fors’anche avuta in prima persona con Leonardo –, l’aneddoto circa l’ardore leonardesco nel mettere a punto un progetto artistico finalmente rispettoso della varietas naturale, forse proprio un Diluvio il cui, protraendo l’incedere tumultuoso del disegno di Windsor, avrebbe dimostrato cosa significasse veramente esercitare tale professione. L’oggetto di tale colloquio deve aver esercitato una notevole suggestione sul giovane allievo, che negli anni a seguire avrebbe portato a compimento il progetto leonardesco che non fu, dando vita all’apocalisse virtuosistica della Sala dei Giganti di Palazzo Te178. Tuttavia, se vogliamo continuare ad indulgere a questa teoria accattivante, ritengo sia inderogabile considerare il divario sussistente tra l’interpretazione della professione artistica offerta da Leonardo e Giulio Romano, le cui risposte non coincidono. Ho cercato, pertanto, di varcare la questione sinora proposta come ambito di raffronto, quella ben circoscritta dell’immagine naturale apocalittica, per valutare se fosse possibile instaurare un’utile connessione tra i due artisti su basi argomentative differenti, fondate magari sulla stessa concezione di varietas, la quale giustificava, come abbiamo ricordato, l’interesse verso le derive grottesche del pittore vinciano.

Leonardo è del tutto proiettato verso l’acquisizione pittorica della varietas, sia nelle sue declinazioni naturali che in forme nuove, forgiate ex novo dalla creatività inestinguibile della mente del pittore: in altre parole, il pittore-demiurgo si appropria, grazie al suo agire di artista, dello scibile umano. L’obiettivo ‘scientifico’, come abbiamo ricordato, viene rincorso nel cimentarsi instancabile nella processualità dell’operato artistico, nel preferire

178 E.H.GOMBRICH, L’eredità di Apelle…, cit., pp. 69-70, 89. Per completezza, segnalo infine che la sfida

lanciata da Clark e raccolta da Gombrich, coinvolse effettivamente almeno un altro contendente: cfr. CARLO

PEDRETTI, Echi leonardiani nell’opera di Giulio Romano a Mantova, in Giulio Romano, cit., pp. 285-292. L’intervento, che per ammissione dell’autore stesso ha «carattere di improvvisazione», vuol accennare alla permeazione di alcune problematiche leonardesche nell’operato mantovano di Giulio, quale in primis l’importanza dello studio del modello dell’antico: la Ninfa in primo piano del Banchetto di Amore e Psiche, ritratta leggermente di schiena nel mentre, indaffarata ad imbastire il convito, richiama l’attenzione di Mercurio, si accosta ad alcuni disegni ‘classici’ di Leonardo, quelli delle Ninfe Danzanti (1515 ca) delle Gallerie dell’Accademia di Venezia e della cosiddetta Pointing Lady (1515 ca) della Royal Library di Windsor. Inoltre, sappiamo che le questioni di ottica e prospettiva hanno particolarmente interessato il Leonardo tardo, il quale avrebbe messo per iscritto le sue considerazioni sugli scorci prospettici in un libro perduto visto a Roma da Federico Zuccaro – al quale il redattore del Codice Huygens avrebbe attinto –, nonché in un altro manoscritto perduto, il Libro A: queste ultime riflessioni, in particolare, trovano un’evidente messa in opera nella già menzionata Camera di Psiche. Tuttavia, nella mia ricognizione, ho preferito dare un’impostazione un po’ diversa alla problematica del rapporto tra Leonardo e Giulio Romano, pur non eludendo questi campi di raffronto.

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un abbozzo dell’opera puramente disegnativa al prodotto pittorico completo, con conseguente insofferenza dei committenti spazientiti e il destarsi di un certo grado di perplessità nei nuovi artisti-capocantieri dell’età della Maniera, tra cui lo stesso Vasari. Giulio Romano è, oramai, un artista che opera nell’epoca delle grandi commissioni orchestrate dai vari principes, in cui un’efficiente sinergia tra committente, letterati – coadiuvanti nella stesura dell’apparato iconografico-logico – e l’intera équipe di artisti, capeggiata da un artefice responsabile dell’inventio e operante, questa, sotto una logica gerarchica da team working, è sempre mandatoria, nonché finalizzata a un prosieguo solerte dei lavori. Ma si tratta, anzitutto, di un’epoca che ha compreso appieno la presenza arricchente dell’artista come fiore all’occhiello dell’entourage cortigiano, che ha pienamente riconosciuto le preziose potenzialità dell’opera artistica con le sue immagini illustrative e catalizzatrici del potere dinastico-politico: frutto, queste, dell’invenzione di un artefice che, quale ‘cortegiano’ alle dipendenze del suo signore, ha reciso in definitiva il legame riduttivo con le discipline meccaniche. La mutata situazione critica e lavorativa, che premiava l’invenzione concettosa ma disinvolta, unitamente alla necessità di operare abbastanza celermente per soddisfare il progetto del committente, potrebbe aver indotto un confronto un po’ meno ‘leonardianamente’ rigoroso con il dato naturale. Giulio eredita per certo da Leonardo e dagli altri giganti della maniera moderna, in primis da Michelangelo e dal maestro Raffaello, la propensione insistita e ineludibile nei confronti dell’esercizio grafico, il quale, a quest’altezza cronologica, si è chiaramente imposto come il mezzo privilegiato per elaborare e controllare man mano l’invenzione concettuale, definendo simultaneamente i caratteri di originalità del lavoro. Eppure, l’attività disegnativa di Giulio, nella sua cospicuità e trasversalità – disponiamo di oltre cento fogli autografi risalenti al cantiere di Palazzo Te –, non si affilia mai al marasma confusionario di quella leonardesca: laddove il Romano procedeva a un’inventio equilibrata, finalizzata sempre e comunque alla commissione mantovana, Leonardo si perde nei meandri di una stratificazione ingarbugliata e apparentemente insensata, riversando, spesso e volentieri, numerosi e differenti studi del naturale nel medesimo foglio179. In particolare, è stato notato che Giulio procedette in taluni casi ad accorciare certe fasi dell’iter grafico, evitando, ad esempio, d’indagare in determinati studi preparatori le nudità di personaggi che sarebbero stati vestiti nella redazione pittorica finale; oppure si è constatata l’omissione repentina e pressoché totale dell’impiego di matite negli schizzi – rinuncia estranea di fatto alla prassi cinquecentesca, ma soprattutto a

179 Ed effettivamente, come abbiamo già saggiato, proprio nel recto del disegno leonardesco bifronte dello

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Leonardo –, una scelta presumibilmente scaturita da un’indiscutibile sicurezza e confidenza nei confronti della propria tecnica, assieme a un orgoglioso autocompiacimento della propria facilità e sveltezza inventiva. La veemenza critica con cui Leonardo si scagliò nei suoi scritti contro coloro che adottavano in pittura un simile atteggiamento approssimativo, gli esecrabili ‘abbreviatori’, evidenzia in maniera piuttosto evidente questa divergenza di pensiero sussistente tra i due artisti, confermandoci altresì il gap generazionale oramai incorso nell’arco degli ultimi decenni, di cui abbiamo reso conto in precedenza180. Ad

esempio, nella parete sud della Camera dei Venti di Palazzo Te, visto che la costellazione del grande mammifero era stata scelta tra quelle connesse al segno zodiacale dei Pesci, Giulio progetta l’esecuzione di un affresco raffigurante La pesca della balena (figg. 94-95). L’animale rimasto impigliato nella rete non è scientificamente riconoscibile con esattezza, dal momento che assomiglia solo vagamente alla balena, ma ricorda in egual misura il delfino o un fantastico – e grottesco, dagli occhi ed espressione decisamente poco intimidatori – mostro marino181.

Scrive Amedeo Belluzzi: «La varietà è il principio che ispira la configurazione di Palazzo Te»182. Le coperture dei ventisei ambienti della residenza suburbana indicano l’avvenuto impiego di un’eterogeneità di soluzioni architettoniche, variamente giustificate da problematiche intrinseche: soffitti lignei, a cassettoni – quadrangolari e ottagonali – vengono preferiti per il rivestimento di strutture preesistenti, per questioni di semplificazione statica e celerità costruttiva, ma anche a causa dell’irrequietezza del Gonzaga, che scalpitava per vedere la conclusione delle stanze iniziali quanto prima; altrove, troviamo impiegato un campionario ben diversificato di coperture a volta e a cupola. Per quanto concerne il versante decorativo, constatiamo che, sebbene la decorazione di alcune stanze venga affidata esclusivamente alla pittura, si rivela decisamente più frequente l’utilizzo congiunto dell’affresco e degli stucchi – il cui impiego ‘all’antica’ è delineato proprio da Raffaello nelle Logge Vaticane –, conferendo a questi ultimi, nella camera omonima, un protagonismo inusitato, svincolato dalla sudditanza nei confronti della pittura. Ma la ‘varietà’ della

180 A.BELLUZZI, Palazzo Te…, cit., vol. I, pp. 147-158. Batkin ha dedicato un breve capitolo del suo lavoro

monografico alla disamina della percezione leonardesca degli ‘abbreviatori’, contro cui l’artista vinciano si accanisce talora con una «nota d’amarezza», presumibilmente dovuta alla svalutazione della sua incessante ricerca – soprattutto disegnativa – ad opera dei contemporanei: cfr. L.M.BATKIN, Leonardo da Vinci, cit., pp. 127-130.

181 A.BELLUZZI, Palazzo Te…, cit., vol. I, pp. 399-400. Disponiamo di un disegno autografo di Giulio Romano,

conservato al Louvre (inv. 3562), il quale ci indica che l’immagine originaria della ‘balena’ non fosse dissimile da quella affrescata.

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residenza campestre del Gonzaga non è semplicemente la risposta a questioni di natura pratico-strutturale, ma si costituisce in primis come l’espressione della poetica di Giulio Romano, che riversa un’esuberante poliedricità nella messa a punto dell’architettura e del piano decorativo, sfidando le convenzioni artistiche di norma impiegate e rispettate. L’invenzione architettonica di Giulio avviene talora all’insegna dell’eclettismo, esemplificato dall’accostamento di elementi fondanti d’ordine antitetico: all’intersezione tra la facciata orientale e settentrionale, elementi architettonici ‘giganti’ e ‘nani’ convivono direttamente, e la loro ‘promiscuità’ accentua fortemente la loro contrapposizione, rendendo manifesta l’intenzione del progettista di non attenersi a una debita collocazione e separazione proporzionale; i celebri «triglifi cadenti» (fig. 96) testimoniano invece della padronanza giuliesca della regola architettonica, il quale si diverte a giocare con l’ordine dorico per piegarlo alla sua maniera, simulando con ironia l’edificazione di conci traballanti di vecchi ruderi. Le scelte architettoniche di Giulio, che cavalcano il limen tra la ‘regola’ e la ‘licentia’, non solo non provocano i rimproveri del Vasari o di Sebastiano Serlio, ma né sollecitano perplessità o rimostranze da parte di questi. Essi devono aver riconosciuto il movente ultimo dietro a tali scelte: queste, non inquadrabili come capricci del tutto fini a se stessi di un artista ‘bizzoso’ e ‘ribelle’, si presentavano ai loro occhi come elementi facenti parte dell’espressione individuale di Giulio Romano183. Le licenze giuliesche, talvolta, nel loro addurre ‘varietà’ alla proposta artistica, assumono quindi un carattere ‘meta-artistico’, poiché testimoniano della riflessione da parte dell’artista sulla costrizione di determinati elementi architettonici o pittorici a contesti specifici, rompendo le maglie di talune convenzioni artistiche. Sul fronte iconografico, ad esempio, l’inserimento di una colonna tortile nel brano affrescato di Marte che insegue Adone (fig. 97), occupante la parete nord della Camera di Psiche, desta curiosità nel fruitore più avveduto, dal momento che tale elemento architettonico, solitamente impiegato in soggetti di tono religioso, trovava ora una spiazzante ricollocazione in un contesto amoroso184.

183 Cfr. ivi, vol. I, pp. 81-106.

184 Ivi, vol. I, pp. 110, 388-389. Ripercorrendo la tela russa dei Due amanti rammentata in precedenza (nota

170, p. 90), ci s’avvedrà che la presenza della vecchia grinzosa e sdentata, oltre che costituirsi come nota grottesca e disarmonica rispetto ai bei corpi nudi dei due giacenti, reca ulteriore materiale al gioco degli sguardi, che coinvolge apertamente lo spettatore: l’intimità della coppia è violata da noi, e fors’anche dalla vecchia sul ciglio della porta. Ma c’è di più: collocandosi al margine destro dell’opera – tradizionalmente letta da sinistra –, la vecchia mezzana coadiuvava un ‘effetto sorpresa’ più o meno sgradevole, ponendosi chiaramente come un elemento che favoriva l’abbattimento della cosiddetta quarta parete e una conseguente riflessione sulle finalità previste dall’artista per tale incursione. Difatti, le opere rinascimentali, sia queste religiose o di tematica pagana ed erotica, erano solitamente coperte da un tendaggio, da scoprire all’occasione. Nel nostro caso, il fruitore non fa in tempo a imprimersi negli occhi le due figure amoreggianti, magari immedesimandosi nell’una

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Sebbene l’osservanza della veridicità naturale paia essersi in parte affievolita, e l’artista romano non conservasse, con ogni probabilità, quell’ansia catalogativa propria di Leonardo – la quale veniva massimamente riversata nell’attività grafica –, l’anelito alla varietas non si nullifica, ma sembra assumere invero, nella sua autoreferenzialità mediale, un carattere meno schivo nell’opus magnum mantovana di Giulio. Questa si trasforma, semmai, in ‘meta-

varietas’, la quale si manifesta nella coesistenza di soluzioni artistiche eterogenee, esibite e

padroneggiate con fierezza e autocoscienza: l’artista condivide apertamente con lo spettatore i trucchi del suo mestiere – in primis nell’impiego generoso del trompe-l'œil–, perché vuole conquistare la partecipazione attiva da parte di quest’ultimo, accompagnandolo verso il riconoscimento stupefatto della versatilità inventiva dell’artefice.

III.2.2. Enfatizzazione grottesca dei ‘moti dell’animo’ e trompe-l'œil avvolgente: il gioco