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'Serio ludere': l'immagine grottesca oltre il comico e il repulsivo tra il tardo Quattrocento e il Cinquecento manierista

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

ANNO ACCADEMICO 2018/2019

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE

IN STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE,

DELLO SPETTACOLO E DEI NUOVI MEDIA

Classe LM-89: Storia dell’arte

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

Serio ludere: l’immagine grottesca oltre il comico e il repulsivo tra

il tardo Quattrocento e il Cinquecento manierista

IL RELATORE

IL CANDIDATO

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I

NDICE

INTRODUZIONE P.3

CAPITOLO I. UNA PRATICA SOLIPSISTICA MA «DIVINA»: QUALITÀ GROTTESCHE NELL’OPERA DI LEONARDO DA VINCI

I.1. Leonardo, ‘genio rinascimentale’: croce e delizia di un’espressione tanto

elogiativa quanto fuorviante p. 8

I.1.1. «Mirabile» ma «ghiribizzoso»: il Leonardo di Vasari e la persistenza della sua

immagine contraddittoria p. 8

I.1.2. Leonardo e il ‘suo’ Rinascimento: l’anelito alla varietas e peculiarità lessicali

del suo vocabolario p. 13

I.2. Il Leonardo ‘grottesco’: alcuni casi esemplari tratti dal corpus dei suoi disegni p. 18 I.2.1. Draghi et similia. Gli animali fantastici di Leonardo, tra suggestioni

quattrocentesche e pastiche pseudo-scientifico p. 18

I.2.2. Il dilemma delle ‘teste grottesche’: ritratti ‘al naturale’, esasperazioni

fisiognomiche, o pure invenzioni? Proposta per una classificazione delle stesse p. 27

CAPITOLO II. IL GROTTESCO ‘INTRINSECO’: IMPLICAZIONI DELLA RITRATTISTICA NANESCA ALLA CORTE DEL CINQUECENTO

II.1. La nascita della corte fiorentina e la maturazione del gusto principesco per le

bizzarrie della natura: collezionare l’anomalia p. 42

II.2. Un curioso dipinto recto-verso: il Nano Morgante del Bronzino p. 50 II.2.1. ‘Pittura’ versus ‘Scultura’: Benedetto Varchi e il «Paragone» p. 52

(3)

II.2.2. ‘Antico’ versus ‘Moderno’: ricadute divertite della riflessione sulla classicità

p. 57

II.2.3. ‘Nobile’ versus ‘Popolare’: l’eterogenea cultura letteraria del Bronzino

p. 62

II.2.4. Un cortigiano imperfetto: percezione del nano-buffone tra fascino e

ripugnanza p. 67

CAPITOLO III.OTIUM ET NEGOTIUM:‘SERIO LUDERE A PALAZZO TE A MANTOVA

III.1. Giulio Romano e Raffaello p. 74

III.1.1. L’allievo e il maestro, tra l’apprendistato e l’eredità della bottega.

Considerazione introduttiva sulla ‘maniera’ del giovane Giulio p. 74

III.1.2. «Sermone isto milesio»: la Camera di Psiche. Conquiste artistico-identitarie

attraverso la manipolazione della fabella di Apuleio p. 85

III.2. Giulio Romano e Leonardo p. 94

III.2.1. Oltre Clark e Gombrich: sulle tracce di un’ideale filiazione artistica

all’insegna della varietas p. 94

III.2.2. Enfatizzazione grottesca dei ‘moti dell’animo’ e trompe-l'œil avvolgente: il

gioco complementare della Sala dei Giganti p. 100

CONCLUSIONI P.111

TAVOLE P.114

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~ 3 ~

INTRODUZIONE

Approcciarsi a un lavoro che aspira a fare del ‘grottesco’ il proprio movente ed epicentro argomentativo può apparire velleitario, o fors’anche un po’ pretenzioso. Linguisticamente parlando, la gittata semantica della parola, ampia ma dai contorni sfumati, rende per certo imperativa una delimitazione concettuale, cronologica e contestuale. Ed infatti, è del tutto legittimo chiedersi, caso per caso, che cosa intendiamo per ‘grottesco’, ossia: quali sono i requisiti per cui una determinata situazione, persona, o più generalmente, un’immagine specifica possa essere definita a pieno titolo come tale? La risposta a questo interrogativo, non a torto, potrebbe dimostrarsi non univoca, ma, genericamente, oscillare tra il riconoscimento del carattere inadeguatamente comico dell’elemento grottesco, congiuntamente alla messa in evidenza di qualità disturbanti che risultano dalla sua carica marcatamente repellente. Mi sia concesso un brevissimo accenno alla vicenda semantica del termine. La parola ‘grottesca’ nasce effettivamente nell’alveo del lessico artistico, giacché fu coniata sul finire del XV secolo per identificare quei bizzarri motivi decorativi, costituiti da esili e ingegnose creature ibride, zoomorfe e fitomorfe, rinvenuti nei resti della Domus

Aurea neroniana – allora semi-sepolti nel terreno, come una ‘grotta’ per l’appunto –,

esplorata a partire dalla fine degli anni Settanta del Quattrocento. L’incredibile scoperta accese l’immaginazione degli artisti del tempo, che presero ad impiegare l’estroso motivo decorativo nelle superfici murarie di costruzioni coeve: in particolare, l’ornato ‘a grottesca’ della Stufetta e della Loggetta del cardinal Bibbiena, condotto da Raffaello e la sua bottega tra il 1516 e il 1517, giocò un ruolo fondamentale nella consacrazione del motivo stesso, in virtù della sua adesione filologica al modello romano e del suo impiego totale, a coprire ogni porzione della superficie. Procedere a un’indagine sulle grottesche in sé – pur avendo brevemente preso in considerazione la loro espressione a Palazzo Te a Mantova, in conclusione del capitolo finale – non è rientrato nelle mie intenzioni, poiché ho preferito rivolgere la mia attenzione a certe manifestazioni pittoriche, scultoree o architettoniche, originatesi tra la fine del Quattrocento e il pieno Cinquecento, che potessero, in virtù di motivazioni di natura eterogenea, fregiarsi dell’epiteto del ‘grottesco’, divenuto oramai un generico aggettivo: il termine ha difatti sperimentato una successiva e progressiva emancipazione dall’utilizzo linguistico originario, che denotava un genere artistico

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individuale, acquisendo una valenza semantica autonoma e camaleontica1. Personalmente, ho trovato decisamente calzante la definizione sul grottesco fornita a suo tempo da Peter Fingesten, e pronunciata all’interno di una sua recensione alla pubblicazione di Geoffrey Galt Harpham dal titolo On the Grotesque. Strategies of Contradiction in Art and Literature. Egli scrive:

The grotesque does not always have to be a deformation, but it exists in the interval between two possibilities; it suspends logic, the normal, and the expected. It has its own range from the demonic and fear-inspiring to a certain kind of humour […]2.

Fingesten definisce il nostro campo d’interesse come un’espressione che «sospende la logica, il normale, e l’aspettato». Ritengo che l’efficacia di questa definizione risieda proprio nell’inclusività non banale né pedante delle parole impiegate, che nel nostro caso, volto a saggiare un nucleo di espressioni grottesche nella storia dell’arte rinascimentale e manierista, risulta particolarmente preziosa: rintracciare la loro presenza in un’epoca artistica in apparenza votata al ‘bello’, può tentarci di etichettare tali varianti grottesche come manifestazioni di una sub-cultura, o comunque di assegnare loro un carattere esclusivamente ludico, depotenziandone le qualità originarie e aggirandone i diversi significati ad esse sottese.

L’obiettivo primario della mia ricerca è consistito quindi nell’indagare circa le motivazioni legate all’impiego della figurazione grottesca in alcuni esempi scelti delle arti visive, nonché sul significato che tale scelta abbia potuto rivestire per gli artisti e i committenti. Dal momento che sono state le celebri ‘teste composte’ di Giuseppe Arcimboldo a suggerirmi l’idea per il lavoro, mi è parso doveroso tributargli almeno una piccola parentesi di questa

1 Sulle grottesche del Rinascimento e del Manierismo: cfr. MARIA FABRICIUS HANSEN, The Art of

Transformation. Grotesques in Sixteenth-Century Italy, Edizioni Quasar, Roma 2018. In particolare, per una disamina introduttiva della questione, dell’impatto del rinvenimento dei motivi della Domus Aurea, nonché dei caratteri e dell’importanza rivestita dalle decorazioni a grottesca compiute da Raffaello e bottega, si veda soprattutto ivi, pp. 15-31, 56, 83-88, 118-135, 149-163, 166, 182-183.

2 PETER FINGESTEN, Review / Reviewed work(s): On the Grotesque. Strategies of Contradiction in Art and

Literature by Geoffrey Galt Harpham, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», a. XLV, n. 4, estate 1985, pp. 412-413. Il riferimento bibliografico del lavoro recensito è: GEOFFREY GALT HARPHAM, On the Grotesque. Strategies of Contradiction in Art and Literature, Princeton University Press, Princeton 1982. Per una pubblicazione recente sull’argomento, che abbia accolto il taglio cronologicamente ampio di Harpham, cfr. FRANCES S.CONNELLY, The grotesque in Western art and culture: the image at play, Cambridge University Press, Cambridge 2012.

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parte introduttiva del mio elaborato, nonché utile per esemplificare le problematiche di cui mi sono occupata. Più specificatamente, considerando il caso particolare del Vertumno realizzato dall’artista milanese nel 1590 (fig. 1), nel quale l’imperatore Rodolfo II si fa ritrarre come una delle bizzarre teste dell’artista, ho riflettuto sul significato dell’elevazione di un’iconografia con elementi legati a cosiddetti generi minori, quali sono gli elementi ortofrutticoli e floreali che compongono la testa e il busto dell’effigiato, a ritratto imperiale, intriso al pari di altri ritratti dinastici ufficiali di significazioni allegoriche volte a celebrare il monarca. Benché il ritratto che ne fa Arcimboldo restituisca poco delle fattezze dell’Asburgo, il confronto con altre raffigurazioni coeve e più convenzionali del monarca – come ad esempio quella eseguita da Joseph Heintz nel 1594 circa (fig. 2) – ci suggerisce che l’artista milanese abbia cercato di enfatizzare alcuni tratti somatici: ciò sembra essere testimoniato dalla trasfigurazione delle borse sotto agli occhi del sovrano in nespole e/o giuggiole, dalla traduzione delle gote piene in pesche e mele rubiconde, oppure dalla metamorfosi della barba e dei baffi in altrettanti elementi naturali, tra cui, in corrispondenza del mento, spicca un riccio di castagna. Si ravvisa quindi un ovvio tentativo, seppur chiaramente più debole rispetto a dipinti ‘canonici’ nella sua non immediata riconoscibilità, di legittimare il ritratto accennando a una corrispondenza fisiognomica con il volto dell’imperatore. Ma, ad ogni modo, il dato che più di ogni altro fuga ogni dubbio circa l’inclusione esclusiva di un intento derisorio e buffonesco è lapalissiano: perché l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo avrebbe richiesto sua sponte un ritratto del genere all’Arcimboldo, al tempo già famoso a corte per le sue bizzarre invenzioni, avendole altresì collaudate per il predecessore Massimiliano II, nella serie degli Elementi (1566 circa) e in quella, duplice, delle Stagioni (1563 e 1573), costellate di riferimenti simbolici alla dinastia regnante – la comprensione degli stessi venne coadiuvata dalla scrittura ad hoc di un panegirico da parte dal letterato Giovanni Battista Fonteo –, se lo stesso avesse ridicolizzato la sua eminente persona? La risposta è altrettanto lampante, ed è perché il Vertumno – il quale, nella sua sintesi ‘stagionale’, rappresenta la summa delle precedenti creazioni dell’artista – non implica solamente risvolti comico-satirici, presentandosi invero come un’opera di più complessa lettura. Il ritratto di Rodolfo II testimonia delle opportunità celebrative potenzialmente insite nell’effigie di un regnante, anche quando questa è alterata da una deformazione grottesca – essere equiparati a Vertumno, il proteiforme dio etrusco-romano del raccolto e dell’abbondanza, non poteva costituire uno spregio per l’imperatore –; nonché illustra la dinamica cortigiana tra il princeps e l’artista: un rapporto fidelizzato che vede nella prima figura un mecenate accorto, che riconosce le qualità assolutamente originali della

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‘maniera’ dell’artista milanese e ne promuove le attuazioni prestandosi allo scherzo artistico, e nel secondo una delle tante figure stipendiate della macchina cortigiana che gravitano attorno al sovrano3.Indagando oltre le peculiarità della corte asburgica di fine Cinquecento, che per l’appunto mi ha fornito un ottimo punto di partenza e un esempio cruciale, mi sono posta di approfondire la questione della deformazione grottesca applicata alla figura umana e talora animale, la quale introduce sovente una pluralità di significati e interpretazioni: ho quindi impostato il mio lavoro alla ricerca di casi consimili, tramite un percorso a ritroso lungo il XVI secolo, fino a toccare gli esiti ultimi del Quattrocento.

Ho assunto a mo’ di mantra personale il concetto del ‘serio ludere’, ossia dello ‘scherzare in modo serio’: la massima, originariamente socratica, venne accolta, tra gli altri, da Luciano e Apuleio, fino a venire ereditata da filosofi neoplatonici quali Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, i quali credettero, in accordo con Platone, che «delle cose più profonde è meglio parlare con ironia». Guidata da essa, ho agito nell’ottica di insinuarmi dentro la stratificazione di significati che la figurazione grottesca pone, non eludendo, ma indagando oltre l’ovvio effetto comico e/o repulsivo, pur presente nelle opere che sono state prese in considerazione4. Dopo aver saggiato preliminarmente la valenza della materia grottesca in Leonardo – contestualizzandola entro i momenti salienti della storiografia critica ottocentesca e primonovecentesca –, che assume nel pittore vinciano un carattere quasi esclusivamente riflessivo e votato alla causa pittorico-scientifica, ho conseguentemente limitato il campo d’indagine al Cinquecento manierista e al clima cortigiano del tempo, spesso fautore di iconografie complesse e criptiche, indirizzate per l’appunto al dominio circoscritto di un ambiente di corte. La mia ricognizione si è quindi prestata a selezionare una coppia di realtà cortigiane del XVI secolo che potessero rivelarsi di particolare interesse

3 Per un’esegesi contestualizzata della produzione pittorica dell’Arcimboldo alla corte asburgica, rimando a

SYLVIA FERINO-PAGDEN, “… e massime con le invenzioni e i capricci, ne’ quale egli è unico al mondo”. Il rebus Arcimboldo, in Arcimboldo. Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio, cat. della mostra, a cura di S. Ferino-Pagden, Milano, Palazzo Reale, 10 febbraio – 22 maggio 2011, Skira, Milano 2011, pp. 152-219; FRANCESCO PORZIO, Arcimboldo: le Stagioni “milanesi” e l’origine dell’invenzione, in ivi, pp. 221-253; GIACOMO BERRA, “c’huom forma d’ogni cosa”: capricci pittorici, elogi letterari e scherzi poetici nella Milano di fine Cinquecento, in ivi, pp. 282-313; GIACOMO BERRA, Frutti e fiori dell’Arcimboldo “cavati dal naturale”. L’influsso sulla nascente natura morta lombarda e sul giovane Caravaggio, in ivi, pp. 314-347. I miei riferimenti principali s’arrestano al 2011, ma il continuo interesse che viene accordato ad Arcimboldo dalla storiografia artistica – col conseguente allestimento di frequenti mostre monografiche – mi consente di segnalare almeno un’altra pubblicazione rilevante. Cfr. gli interventi aggiornati sull’argomento riscontrabili in Arcimboldo, cat. della mostra, a cura di S. Ferino-Pagden, Roma, Palazzo Barberini, 20 ottobre 2017 – 11 febbraio 2018, Skira, Milano 2017.

4 Ho attinto queste informazioni da EDGAR WIND, Misteri pagani nel Rinascimento. Nuova edizione riveduta,

Adelphi, Milano 2012 (ed. or. 1958), pp. 289-292, in cui la definizione della locuzione è intercalata entro la questione della ripresa di soggetti derivati dalla mitologia classica nelle opere rinascimentali. Si veda anche ivi, pp. 217-234, 267-288.

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per il mio progetto, nel loro evidenziare il passaggio da un grottesco ‘intimistico’ qual era quello leonardesco, al grottesco asservito alla celebrazione politico-dinastica del regnante. Ho ripercorso quindi gli aspetti iconografico-logici del Nano Morgante di Agnolo Bronzino, dedicando particolare attenzione alla vicenda peculiare della corte fiorentina – questa, rispetto ad altri esempi dalla storia plurisecolare, ebbe una genesi tardiva – e contestualizzando il dipinto bifronte entro il consolidato costume cortigiano di ospitare nani-buffoni presso le proprie dimore. Il mio interesse si è poi rivolto alla corte mantovana di Federico II Gonzaga, in particolare e soprattutto all’apparato decorativo di Palazzo Te a Mantova, elaborato da Giulio Romano e ricco di elementi grotteschi; nonché ad altri brani pittorici dell’artista che si siano distinti per qualità concettose e bizzarre, caratterizzanti per certo la sua impronta stilistica: le indicazioni reperite dalla lettura della Vita di Giulio Romano redatta dal Vasari confermano un’interpretazione ‘seria’ di tali elementi della residenza gonzaghesca, dal significato fortemente ideologico, naturalmente inscindibili dalla persona del committente. Nell’interpretare i lavori d’intonazione grottesca presi in esame, ho arricchito il mio discorso e diversificato il mio approccio facendo costante riferimento a questioni di derivazione critica e natura socio-culturale, quale la mutata condizione dell’artista nel pieno Cinquecento, che son risultati essere concetti trainanti del mio lavoro: nel ragionare lungo il solco degli ‘scarti generazionali’ oramai sopraggiunti tra taluni artisti rinascimentali e manieristi, ho continuato a dibattere quel percorso intrapreso col mio primo tentativo scritturale, costituito dal mio elaborato triennale, il quale, sulla base dell’interpretazione vasariana della condotta professionale di Leonardo, di Andrea del Sarto e del Pontormo, si poneva di offrire un succinto resoconto critico della questione.

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CAPITOLO I. UNA PRATICA SOLIPSISTICA MA «DIVINA»: QUALITÀ GROTTESCHE NELL’OPERA DI LEONARDO DA VINCI

I.1. Leonardo, ‘genio rinascimentale’: croce e delizia di un’espressione tanto elogiativa quanto fuorviante

I.1.1. «Mirabile» ma «ghiribizzoso»: il Leonardo di Vasari e la persistenza della sua immagine contraddittoria

L’estro vulcanico di Leonardo da Vinci, vero e proprio homo universalis del Rinascimento, al contempo artista, scrittore e ingegnere – per citare solo una parte degli ambiti in cui si cimentò –, ha suo malgrado scoraggiato un approccio oggettivo e distaccato al suo lascito artistico da parte della critica d’arte. In concomitanza con la pubblicazione dei manoscritti del pittore, precedentemente inediti, la storiografia – non solo artistica – dell’Ottocento e dell’inizio del secolo scorso ha convogliato un rinnovato ed estensivo interesse nei confronti di Leonardo: in virtù della disponibilità dei suoi intricati appunti, nacque e crebbe la curiosità verso la personalità e la mente del pittore, unitamente a una nuova disamina della sua eredità artistica5. Per anni ammaliata dall’idea – suggestiva ma in definitiva fuorviante – di una personalità ombrosa ai limiti della misantropia, bizzarra nell’esercizio della professione artistica, se non addirittura turbata nel profondo della psiche, quella critica ha collaudato un ritratto del Leonardo-artista in buona misura condizionato da un giudizio personale ed empatico nei confronti del Leonardo-uomo. Così, Matvej Gukosvkij giudicò l’opera di Leonardo «straordinariamente geniale» ma «scarmigliata» e «apparentemente priva di risultati»: il modus operandi leonardesco comportava l’insorgere di una notevole discrepanza fra gli sforzi compiuti e i risultati effettivamente ottenuti dall’artista, in parte riconducibile a quel «grande interesse, fors’anche un po’ morboso» sviluppato nei confronti degli aspetti più inusitati del mondo naturale6. Ed ancora, Emmanuel Berl evidenzia che

5 Il primo a interessarsi a questi aspetti della figura di Leonardo fu Sigmund Freud, che interpretò gli scritti

leonardeschi alla luce del suo metodo psicoanalitico: le considerazioni risultatene sono ad oggi ritenute invalide. Si veda a tal proposito LEONID M.BATKIN, Leonardo da Vinci, Editori Laterza, Roma 1988, pp. 15-16, 135-141.

6 MATVEJ A.GUKOVSKIJ, Mechanika Leonardo da Vinći [La meccanica di Leonardo da Vinci], Akademi Nauk

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Leonardo, benché considerato uomo-simbolo del Rinascimento, sia curiosamente in conflitto con la sua epoca, i cui artefici erano votati alla realizzazione e al successo: è meravigliato nel constatare che nei suoi appunti non vi sia testimoniata l’angoscia per l’esito infelice della Battaglia di Anghiari o del monumento equestre per Francesco Sforza, limitandosi a rilevare la natura impenetrabile della personalità di Leonardo, del quale «possiamo continuare a cercare il […] ‘segreto’»7.

A contribuire largamente e in modo duraturo alla fama di un Leonardo tanto benedetto da un talento artistico sovrumano quanto segnato da un’attitudine eccentrica e incostante è stato principalmente il resoconto biografico dell’artista vinciano tramandatoci ne Le Vite di Giorgio Vasari8. Lo storiografo e artista aretino difatti, sia nella versione torrentiniana del

1550 che maggiormente in quella giuntina del 1568, ha promosso un’immagine ambivalente del Leonardo uomo e artista, non esente da contraddizioni. Nell’incipit della Vita a lui dedicata, Vasari si spende in parole decisamente prodighe nei confronti dell’esimio collega, la cui figura straordinariamente versatile di eccelso pittore, scultore, architetto e musicista – nonché dotata, aggiunge, di una particolare avvenenza fisica e di un impeccabile charme – è per l’autore frutto di una rara congiunzione astrale e della volontà divina, che hanno riversato in Leonardo i loro incommensurabili influssi benefici9. Ma la Vita è interamente percorsa da simili formule elogiative: nel riportare la notizia riguardante l’esecuzione di un cartone con una Sant’Anna per una pala d’altare destinata ai frati Serviti della Santissima Annunziata, incarico originariamente assegnato a Filippino Lippi e da questi cortesemente cedutogli nei primi anni del Cinquecento, Vasari non può esimersi dall’annotare anche la reazione estasiata di tutto il popolo fiorentino, che attuò una sorta di pellegrinaggio per poter godere della visione di quell’opera di altissima fattura, un’eccellente dimostrazione della teoria leonardesca dei ‘moti dell’animo’:

7 EMMANUEL BERL, Le secret du philosophe, in Léonard de Vinci, a cura di M. Brion, Hachette, Parigi 1959,

p. 141.

8 L.M.BATKIN, Leonardo da Vinci, cit., pp. 27-35. Vasari non fu l’unico né il primo a richiamare l’attenzione

sulle «pazzie» di Leonardo: già la prima biografia anonima di Leonardo – redatta subito dopo la scomparsa del pittore – rendeva conto tanto dell’«universalismo» del pittore quanto delle sue «bizzarrie», testimoniate da numerosi aneddoti; anche Paolo Giovio (1483-1552), nel tentativo di spiegarsi la quantità esigua di opere portate a termine dal genio, si appellava alla levitas ingenii propria del pittore, ossia alla mancanza di un «centro definitivo» che comportava «imponderabilità» e «instabilità».

9 GIORGIO VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori: nelle redazioni del 1550 e 1568, a

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Finalmente fece un cartone, dentrovi una Nostra Donna et una S. Anna con un Cristo, la quale non pure fece maravigliare tutti gl’artefici, ma finita ch’ella fu, nella stanza durarono due giorni d’andare a vederla gl’uomini e le donne, i giovani et i vecchi, come si va a le feste solenni, per veder le maraviglie di Lionardo, che fecero stupire tutto quel popolo; perché si vedeva nel viso di quella Nostra Donna tutto quello che di semplice e di bello può con semplicità e bellezza dare grazia a una madre di Cristo; volendo mostrare quella modestia e quella umiltà ch’è in una vergine, contentissima d’allegrezza del vedere la bellezza del suo figliuolo che con tenerezza sosteneva in grembo, e mentre che ella, con onestissima guardatura, abasso scorgeva un S. Giovanni piccol fanciullo che si andava trastullando con un pecorino, non senza un ghigno d’una S. Anna che, colma di letizia, vedeva la sua progenie terrena esser divenuta celeste: considerazioni veramente dallo intelletto et ingegno di Lionardo10.

Tuttavia, la sincera e sconfinata ammirazione che lo storiografo nutriva nei confronti di Leonardo, testimoniata tra l’altro dai numerosi, inequivocabili epiteti come «divino» e «maraviglioso» e dall’assegnazione allo stesso del prestigioso titolo di iniziatore della «maniera moderna», non è mai disgiunta da un certo grado di perplessità che emerge chiaramente tra le righe del testo, soprattutto quando Vasari deve rendere conto del carattere «vario et instabile» dell’artista, a causa del quale «egli si mise a imparare molte cose, e cominciate poi l'abbandonava»11. L’eccezionalità di Leonardo è stata fortemente minata da

quest’attitudine volubile e capricciosa, che incoraggiava delle scelte a suo dire inconcepibili: evidenziata, ad esempio, dal trattamento riservato al quadro della Monna Lisa, che «quattro anni penatovi, […] lasciò imperfetto», in inesplicabile contrasto con la cura meticolosa che spesso riservava all’esecuzione di semplici disegni a matita – che esulavano dalla loro funzione principale di studio per la traduzione pittorica –, con la sperimentazione di pigmenti dall’esito incerto, o con la rifinitura quasi maniacale dei dettagli di un’opera12. Un brano

della Vita relativo alla realizzazione di un altro cartone preparatorio testimonia della reazione

10 Ivi, vol. IV, pp. 29-30. Si ritiene che il cartone fiorentino descritto da Vasari non sia da identificare con

quello conservato alla National Gallery inglese, bensì con un’opera non rintracciabile preparata per il celebre dipinto dal medesimo soggetto che si trova al Louvre. È possibile che il cartone inglese sia stato completato poco prima dell’altro a Milano, forse appena dopo l’invasione della città da parte delle milizie francesi (The National Gallery, < https://www.nationalgallery.org.uk/paintings/leonardo-da-vinci-the-burlington-house-cartoon>, ultimo accesso: febbraio 2019).

11 G.VASARI, Le vite…, cit., vol. IV, p. 16.

12 Ivi, vol. IV, pp. 30-31. Ad esempio, Vasari racconta che, verosimilmente, fu per colpa di «quelle sue tante e

capricciose misture delle mestiche de’ colori» che una Madonna col bambino eseguita per il «datario di Leone [X]» si «guastò» precocemente (ivi, vol. IV, p. 35). Un altro esempio più altisonante è costituito dal fallimento dell’esecuzione della Battaglia di Anghiari, per la quale Leonardo sperimentò una nuova tecnica, che tuttavia non dette i risultati sperati (ivi, vol. IV, pp. 31-33).

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meravigliata del Vasari dinnanzi alle scelte esasperate di Leonardo. Al cartone, raffigurante una Cacciata dei Progenitori, avrebbe dovuto seguire la realizzazione di un arazzo destinato al re del Portogallo, che di fatto non fu realizzato:

[…] col pennello fece Lionardo di chiaro e scuro lumeggiato di biacca un prato di erbe infinite con alcuni animali, che invero può dirsi che in diligenza e naturalità al mondo divino ingegno far non la possa sì simile. Quivi è il fico, oltra lo scortar de le foglie e le vedute de’ rami, condotto con tanto amore, che l’ingegno si smarisce solo a pensare come un uomo possa avere tanta pacienza. Èvvi ancora un palmizio che ha la rotondità de le ruote de la palma lavorate con sì grande arte e maravigliosa, che altro che la pazienzia e l’ingegno di Lionardo non lo poteva fare13.

Leonardo è perseguitato dall’assillo della perfezione formale, giudicato controproducente e assurdo nella sua pretenziosità ed effettiva inattuabilità:

Vedesi bene che Lionardo per l’intelligenza de l’arte cominciò molte cose, e nessuna mai ne finì, parendoli che la mano aggiugnere non potesse alla perfezzione dell’arte ne le cose che egli si imaginava, con ciò sia che si formava nell’idea alcune dificultà sottili e tanto maravigliose, che con le mani, ancora ch’elle fussero eccellentissime, non si sarebbono espresse mai14.

Il Leonardo vasariano è stato dunque ereditato dalla critica ottocentesca e primonovecentesca, che ha proposto una versione banalizzata del concetto di ‘genio rinascimentale’, interpretandolo sostanzialmente nell’accezione più recente di ‘genio e sregolatezza’: le ricerche extrapittoriche di Leonardo, sulla scia dell’interpretazione di Vasari, sono state giudicate di proporzione inferiore nei confronti dell’esercizio della pittura, ed asservite a una personalità troppo ingombrante nella manifestazione dei suoi innumerevoli interessi. La mancanza più evidente di questo indirizzo critico è stata quella di aver eluso la personale concezione leonardesca dell’arte e dell’artista, del tutto originale rispetto agli artisti suoi contemporanei, elemento imprescindibile per comprendere l’importanza assegnata dal pittore alla fase processuale del ‘fare arte’. Vasari stesso ha

13 Ivi, vol. IV, p. 20. 14 Ivi, vol. IV, p. 19.

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mancato di cogliere quest’aspetto della personalità artistica di Leonardo, ma, data l’incidenza dello scarto generazionale che separava i due artisti toscani, oggi apprezzabile con obiettivo distacco, ci è consentito assolverlo da questa sua ‘colpa’. Quale accademico, maestro di ‘sprezzatura’ e ineccepibile ‘cortegiano’ al servizio delle corti fiorentina e romana, nell’ottica vasariana e della cultura del manierismo disattendere l’onere – e l’onore – di una commissione ufficiale per riservare un’attenzione quasi esclusiva a studi personali fini a se stessi, come i «capricci» disegnativi o il «filosofare» su questioni astronomiche ed erboristiche, era impensabile e disdicevole per un uomo di corte del pieno Cinquecento, che comportandosi in tal modo tradiva gli ideali della figura teorizzata da Baldassarre Castiglione15.

Nel recepire le reali motivazioni leonardesche, slegate finalmente da quel suo carattere problematico – che pur fu un carattere difficile da decifrare16 –, la critica successiva ha di

conseguenza analizzato l’intero corpus di opere del maestro senza effettuare distinzioni gerarchiche fra opere primarie e lavori di secondaria importanza. Alcune testimonianze grafiche di Leonardo, come i disegni di bizzarri animali fantastici e delle cosiddette ‘teste grottesche’, che Vasari potrebbe aver classificato con sufficienza sotto la categoria ‘ghiribizzi’, ossia divagazioni – benché di altissimo pregio! – che lo distoglievano dagli impegni principali implicati dalla professione di artista, sono state finalmente valorizzate e correttamente contestualizzate all’interno della teoria dell’arte e della visione dell’artista, pronunciate più volte da Leonardo nei suoi lasciti scritti17. Il sigillo encomiastico di ‘genio rinascimentale’ si è rivelato in realtà un binomio ostico, sibillino: se, da un lato, ha contribuito ad alimentare il mito di Leonardo, consacrandolo a ragione come uno degli artisti più eccellenti, poliedrici e innovatori di tutti i tempi, dall’altro ha portato a una paradossale svalutazione dello stesso, ossia a sottovalutare una parte non meno meritevole ed importante della sua eredità artistica, come alcuni dei suoi particolari e ingegnosi ‘ghiribizzi’.

15 Per un’analisi esauriente della questione, rimando ad ANTONIO PINELLI, La bella Maniera. Artisti del

Cinquecento tra regola e licenza, Einaudi, Torino 2003 (ed. or. 1993), nella cui pubblicazione è stata proposta una cruciale differenziazione tra gli artisti dello «sperimentalismo anticlassico» e quelli propri della ‘Maniera’. Si veda anche ANTONIO NATALI, Andrea del Sarto. Maestro della “maniera moderna”, Leonardo Arte, Milano 1998, per averne un riscontro specifico nella disamina della figura del Sarto.

16 Cfr. L.M.BATKIN, Leonardo da Vinci, cit., pp. 131-141 per un tentativo di sondare l’indole leonardesca

sulla base di alcuni suoi scritti e del rapporto con le persone a lui più vicine.

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I.1.2. Leonardo e il ‘suo’ Rinascimento: l’anelito alla varietas e peculiarità lessicali del suo vocabolario 18

Lo scioglimento delle difficoltà interpretative insite nell’espressione ‘genio rinascimentale’ è risieduto nella corretta interpretazione dell’aggettivo della coppia, ed offrire una contestualizzazione ragionata della locuzione è stato il principale movente e leitmotiv della monografia dedicata da Leonid Batkin all’artista vinciano. L’obiettivo dello studioso ucraino è stato, nelle sue parole, d’impostazione teorica e «cultorologica», ed espletato fornendo una risposta studiata alla seguente domanda: «in che cosa la personalità rinascimentale si differenzia da quella di un’altra epoca qualsiasi?». Rispondere a questo interrogativo ha comportato l’audace ed arduo compito di decodificare un vocabolario e modello di cultura ‘altri’, quelli elaborati dalla civiltà rinascimentale, sforzandosi di reinterpretare il cliché del Rinascimento antropocentrico e individualistico che, a ben vedere, secondo Batkin non avrebbe sviluppato il concetto odierno di personalità individuale, né coniato un vocabolo per esprimerlo. Il che può sembrare pesantemente bizzarro, data l’enfasi che è stata sempre – e giustamente – posta sulla nuova concezione dell’homo faber caratteristica della cultura umanistico-rinascimentale, che trova proprio nel celeberrimo disegno dell’Uomo vitruviano di Leonardo una calzante traduzione iconica: si è trattato per lo studioso di indagare più attentamente questo concetto all’interno del suo contesto di provenienza. Nel tentativo di far emergere il corretto modello rinascimentale di personalità, Batkin, attraverso la confutazione di alcune teorie precedentemente elaborate sul pittore, analizza le molteplici espressioni dell’attività artistica di Leonardo, cercando di fornire una spiegazione alternativa – e maggiormente rispettosa del contesto storico-culturale di riferimento – alla tensione multidirezionale e all’apparente inconcludenza proprie del pittore19.

Muovendosi all’interno della stessa linea di pensiero dei sovracitati Gukovskij e Berl, Leonardo Olschki, a cui pur si deve il merito di aver esaminato per primo la componente logico-culturale del marasma dei manoscritti leonardeschi, ricondusse la natura ridondante e dispersiva degli stessi non a circostanze esterne, bensì a quella stessa personalità fantasiosa ma caotica di Leonardo, che emergeva come caratteristica di fondo in ogni attività del pittore. La considerazione di Olschki, ovviamente, maturava all’interno della linea di pensiero

18 D’ora in avanti, la resa in corsivo dei termini ‘pittura’ e ‘pittore’ ne indicherà l’accezione leonardesca. 19 L.M.BATKIN, Leonardo da Vinci, cit., pp. V-XIII.

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positivista, risultando inevitabilmente compromessa da quell’ambiente, che appiattiva suo malgrado la profonda diversità del momento culturale preso in esame: la frammentarietà e asistematicità dei manoscritti leonardeschi – la variante letteraria del ‘non finito’ in pittura – veniva giudicata in modo negativo, poiché rappresentava, anche in termini metodologici, un fallimento da parte dell’uomo di scienza20. Prendendo le distanze da simili giudizi riduttivi citati lungo tutto il lavoro, Batkin contestualizza l’operato leonardesco all’interno di una concezione fondante della cultura rinascimentale, inquadrando in tal modo un aspetto basilare della ‘personalità’ dei suoi fautori: la varietas. La ‘varietà’ è quella, immensa, del mondo naturale: l’uomo del Rinascimento, che aspirava all’’universalismo’, è una ‘personalità’ polisemica e in fieri, del tutto proiettata verso la conquista dello scibile. La ‘personalità’ dell’uomo rinascimentale – Leonardo incluso – si spiegherebbe quindi attraverso la «possibilità della personalità» stessa: l’esistenza di una personalità individuale così come la intendiamo oggi viene negata dall’originaria tensione ad annullare la propria nell’obiettivo di autodefinizione nel ‘Tutto’ esteriore21. Quella di Leonardo è una ricerca

artistica tenace e incessante, e nei suoi manoscritti troviamo testimonianza di alcuni moniti e raccomandazioni – rivolti a se stesso e ai colleghi artisti che li leggessero – a non sottovalutare né banalizzare il rapporto col ‘variegato’ mondo naturale, che presenta molteplici conformazioni:

[…] varia sempre, perché la natura è variabile in infinito; non che nelle spezie, ma nelle medesime piante trovara’ vari colori […]. Et è tanto dilettevole natura e copiosa nel variare, che infra li alberi della medesima natura non si trovarebbe una pianta ch’apresso somigliassi all’altra, e non che le piante, ma li rami, o foglie, o frutti di quelle, non si troverà uno che precisamente somigli a un altro; sì che abbi tu avertenzia, e varia quanto più puoi22.

Accantonate finalmente considerazioni anacronistiche che si limitavano ad appellarsi al suo carattere schivo e atipicamente rinascimentale, le numerose attività extrapittoriche di Leonardo risultano decisamente più coerenti all’interno di questa matrice di pensiero, che lo

20 LEONARDO OLSCHKI, Istorija naučnoj literatury na novych jazykach [Storia della letteratura scientifica nelle

nuove lingue], Gosudarstevnnoe techniko-teoreticeskoe izd-vo, Mosca-Leningrado 1933-1934 (ed. or. 1919-1927), vol. I, pp. 162-262.

21 L.M.BATKIN, Leonardo da Vinci, cit., pp. 12-13, 53-57, 59-68.

22 LEONARDO DA VINCI, Libro di pittura: codice urbinate lat. 1270 nella Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura

di C. Pedretti e C. Vecce, Giunti, Firenze 1995, vol. II, p. 342. Il frammento integrale vuole fornire indicazioni esaustive su «come dipingere l’autunno».

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vede instancabilmente impegnato ad automodellarsi come ‘personalità’ ed artista, nella volontà di carpire la varietas universale nei suoi innumerevoli aspetti. Tuttavia, ricondurre l’operato leonardesco alla concezione rinascimentale di varietà non è sufficiente a risolvere l’enigma di Leonardo, l’obiettivo delle cui ricerche, come s’è visto, venne travisato dai suoi contemporanei, Vasari in primis. In quanto ‘genio’ del Rinascimento, l’artista esemplifica gli elementi di quella cultura tesi all’estremo, torcendoli verso aspetti paradossali e incoraggiando nuovi sviluppi storici: Leonardo costituisce un caso unico di uomo rinascimentale, tanto rappresentante ideale quanto figura solitaria e fraintesa23. La pulsione verso la varietà del Tutto universale assume nel pittore caratteristiche titaniche e sfumature ossessive, attuandosi in un paradossale inoltrarsi senza fine nella disamina di singoli casi e innumerevoli dettagli, com’è documentato dalle fitte e caotiche enumerazioni descrittive presenti nei suoi manoscritti24.

Al fine di sbrogliarsi con quest’impasse, occorre fare chiarezza circa il significato rivestito dalle nozioni di ‘pittura’ e ‘scienza’ per l’artista. Per la sua attitudine a verificare dal vivo i meccanismi della natura e a trarne ricostruzioni artificiali nella forma di esperimenti, è sorto un altro equivoco sulla figura di Leonardo, che lo ha inquadrato come precursore del metodo scientifico inaugurato da Galilei nel Seicento, individuando al contempo una cesura netta tra la sua attività di artista e quella di scienziato. Benché corretta nell’accordare all’artista l’adesione al ragionamento ipotetico-deduttivo e alle dimostrazioni matematiche, la sostanziale fallacia di questa teoria è dimostrata innanzitutto da un’importante, profonda differenza che segna in modo evidente l’attività ‘scientifica’ dei due: laddove gli scritti di Leonardo mostrano un’inusuale vicinanza concettuale tra l’’esempio’ e la ‘regola’ generale, individuando – ad esempio – infiniti principi nella caduta di un grave, l’applicazione del metodo galileiano comporta l’individuazione di un’unica formula universalmente valida, mediante la postulazione ad hoc di una situazione del tutto teorica – nel nostro caso, il concetto di vuoto assoluto –, superando definitivamente la concezione rinascimentale di

varietas. Per Batkin, l’equivoco testimonia nuovamente della natura coercitiva

dell’applicazione di un vocabolario e matrice di pensiero ‘altri’ a una realtà culturalmente diversa: ai secoli XV e XVI non erano noti i significati moderni di estetismo e scientificità, né tantomeno le loro delimitazioni semantiche o funzionali25. Ancora una volta, s’impone la

23 L.M.BATKIN, Leonardo da Vinci, cit., pp. XIII, 187-189.

24 Basterà addurre come esempio le sessantaquattro – ! – definizioni febbrilmente elencate di getto da Leonardo

negli Appunti di idrodinamica, nell’obiettivo di inquadrare la totalità dei ‘moti’ e delle ‘figure’ dell’acqua. (LEONARDO DA VINCI, Scritti scelti, a cura di A. M. Brizio, UTET, Torino 1952, pp. 304-305).

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necessità di scandagliare il vocabolario rinascimentale, e nella fattispecie leonardesco, per interpretare correttamente i concetti di pittura e scienza.

Il significato di pittura per Leonardo non coincide con quello odierno. Nel lessico attuale il termine inquadra una pratica figurativa specifica, quando per Leonardo la ‘pittura’ è un’attività artistica in senso lato, configurandosi come nozione decisamente più inclusiva. La lettura delle riflessioni autografe contenute nel Trattato di pittura c’indirizzano a comprendere come nella definizione leonardesca di pittura confluisca tutto ciò che si manifesta per immagine – che «rapresenta l’opere de natura» –, tutte le attività artistiche che si fanno linguaggio visivo: il dipinto su tavola, l’affresco su muro, ma anche la pratica disegnativa. Inoltre, laddove il lessico odierno individua una dicotomia netta fra l’attività artistica e quella scientifica, nel vocabolario leonardesco i concetti di scienza e pittura convergono nel significato. L’azione pittorica – nell’accezione estesa di Leonardo – è elogiata come pratica «divina», superiore alla musica, alla scultura e alla poesia, e costituisce il mezzo privilegiato per condurre un’indagine conoscitiva nei confronti della realtà naturale, soddisfacendo così quel desiderio innato di compartecipare alla bellezza del mondo:

La pittura immediate ti si rapresenta con quella dimostrazione per la quale il suo fattore l’ha generata, e dà quel piacere al senso massimo, qual dare possa alcuna cosa creata dalla natura. […] Or vedi che differenzia è da l’udire raccontare una cosa che dia piacere a l’occhio con lunghezza di tempo, o vederla con quella prestezza che si vedeno le cose naturali. […]

Perché gli scrittori non hanno auta notizia della scienzia della pittura, non hanno possuto descriverne li gradi e parti di quella. E lei medesima non si dimostra col suo fine nelle parole; essa è restata, mediante l’ignoranzia, indietro alle predette scienzie, non mancando per questo di sua divinità. E veramente non senza cagione non l’hanno nobilitata, perché per sé medesima si nobilita senza l’aiuto de l’altrui lingue, non altrimente che si facciano l’eccellenti opere di natura26.

La pittura è prima di tutto il risultato di un processo dinamico e connaturato, quello inesauribile della visione – il cui funzionamento viene indagato con le leggi razionali dell’ottica – ed essa stessa, in virtù della natura incessante dell’atto visivo, si configura innanzitutto come una pratica in divenire. Se ne deduce che per Leonardo ‘pittura’ non

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equivalga necessariamente a un prodotto artistico completato, ma che l’azione artistico-scientifica si esplichi nella processualità stessa della pratica pittorica:

[…] chi perde il vedere, perde la veduta e bellezza de l’universo, e resta a similitudine d’un che sia chiuso in vita in una sepoltura, nella quale abbia moto e vita. Or non vedi tu che l’occhio abbraccia la bellezza de tutt’il mondo? […] O eccellentissimo sopra tutte l’altre cose create da dio! […] Questo è finestra de l’uman corpo, per la quale la sua via specula, e fruisce la bellezza del mondo; per questo l’anima si contenta della umana carcere, e sanza questo essa umana carcere è suo tormento […]. Ma che bisogna ch’io m’astenda in sì alto e longo discorso? […] l’opere che l’occhio comanda alle mani sono infinite, come dimostra ‘l pittore nelle finzioni d’infinite forme d’animali et erbe e piante e siti27.

Decade quindi il senso di una distinzione gerarchica tra opere pittoriche di maggior pregio e disegni di presunta levatura inferiore, implicita nei giudizi filovasariani precedentemente citati: dal più umile scarabocchio di un fiore alla magniloquenza espressiva del Cenacolo, tutta la dimensione processuale dell’opera leonardesca – sia nei suoi esemplari rifiniti che in quelli incompiuti o solo accennati – concorre allo stesso livello a catalogare la varietas della natura, all’insegna di una scrupolosa indagine scientifica non esente da una componente sentimentale. Le considerazioni fin qua riportate vogliono orientarci verso un approccio ponderato ai disegni grotteschi che ci accingiamo a prendere in esame, predisponendoci a una lettura ‘seria’ di quel settore della produzione del genio, che voglia indagare oltre – ma non elidere – quella componente comica e divertita naturalmente implicata.

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I.2. Il Leonardo ‘grottesco’: alcuni casi esemplari tratti dal corpus dei suoi disegni

I.2.1. Draghi et similia. Gli animali fantastici di Leonardo, tra suggestioni quattrocentesche e pastiche pseudo-scientifico

Nonostante Vasari lo ritragga e glorifichi come un prodigio e un self-made artist, parrebbe ingenuo non considerare la grande influenza che il maestro Andrea del Verrocchio – e più in generale, la cultura artistica del primo Quattrocento fiorentino – ebbe su Leonardo durante i preziosi anni di formazione alla sua bottega, al tempo stabilitasi come un’importante fucina di talenti28. In primis, nell’opera leonardesca si rintracciano delle chiare tangenze con alcune

28 Nella Vita di Leonardo, Vasari riporta un aneddoto secondo il quale il Verrocchio, ‘sdegnatosi’ nell’aver

appurato la superiorità tecnico-formale dell’angelo leonardesco del suo Battesimo di Cristo (1468-1478 ca), depose per sempre gli attrezzi del mestiere di pittore (G.VASARI, Le vite…, cit., vol. IV, p. 19). L’aneddoto di «gelosa rivalità», probabilmente, servì al Vasari a contrapporre alla tecnica acquisita del Verrocchio il talento innato e «divino» dell’allievo Leonardo, ma è certamente falso (DAVID ALAN BROWN, Il giovane Leonardo nella bottega del Verrocchio, in Il bronzo e l’oro. Il David del Verrocchio restaurato, cat. della mostra, a cura di B. Paolozzi Strozzi e M. G. Vaccari, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 7 ottobre – 9 novembre 2003, Giunti Editore, Firenze 2003, p. 55). Nel contesto delle influenze culturali del Quattrocento fiorentino, vorrei ricordare come già anche nel De pictura di Leon Battista Alberti fossero presenti esortazioni a condurre indagini approfondite nei confronti del mondo naturale, con parole che prefigurano quelle stesse di Leonardo. Ad esempio, l’umanista scriveva, nella sub-sezione relativa alla compositio pittorica: «Quello che prima dà voluttà nella istoria viene dalla copia e varietà delle cose. Come ne’ cibi e nella musica sempre la novità e abondanzia tanto piace quanto sia differente dalle cose antique e consuete, così l’animo si diletta d’ogni copia e varietà: per questo in pittura la copia e varietà piace. […] Ma in ogni storia la varietà fu sempre ioconda, e in prima sempre fu grata quella pittura in quale sieno corpi con i suoi posari molto dissimili. Ivi adunque stieno alcuni ritti e mostrino tutta la faccia, con le mani in alto e con le dita liete, fermi in su in piè; a li altri sia il viso contrario e le braccia remisse, co i piedi aggiunti; e così a ciascuno sia suo atto e flessione di membra: altri segga, altri si posi su un ginochio, altri giacciano. […] Poi moverà l’istoria l’animo quando li uomini ivi dipinti molto porgeranno suo proprio movimento d’animo. […] Ma questi movimenti d’animo si conoscono dai movimenti del corpo: e veggiamo quanto uno atristito, perché la cura estrigne e il pensiero l’assedia, stanno con sue forze e sentimenti quasi balordi, tenendo se stessi lenti e pigri in sue membra palide e malsostenute; vedrai a chi sia malinconico il fronte premuto, la cervice languida, al tutto ogni suo membro quasi stracco e negletto cade; vero, a chi sia irato, perché l’ira incita l’animo, però gonfia di stizza negli occhi e nel viso, e incendesi di colore, e ogni suo membro, quanto il furore, ardito sì getta; a li uomini lieti e gioiosi sono i movimenti liberi e con certe inflessioni grati. […] Così adunque conviene sieno a i pittori notissimi tutti i movimenti del corpo, quali bene impareranno dalla natura, bene che sia cosa difficile imitare i molti movimenti dello animo» (LEON BATTISTA ALBERTI, De pictura (redazione volgare), a cura di L. Bertolini, Edizioni Polistampa, Firenze 2011, pp. 275-276, 277, 278-280). Ed ancora, in chiusura del terzo libro e dell’opera nel suo complesso: «Niuno dubiti capo e principio di questa arte, e così ogni suo grado a diventare maestro, doversi prendere dalla natura; il perficere l’arte si troverà con diligenza, assiduitate e studio […]. E sono le differenzie de’ membri non poche e molto chiare: vedrai a chi sarà il naso rilevati e gobbo, altri aranno le narici scimmie o arovesciate aperte, altri porgerà i labbri pendenti, alcuni altri aranno ornamento di labrolini magruzzi. […] Ma, per non perdere studio e fatica, si vuole fuggire quella consuetudine d’alcuni sciocchi, i quali, presuntuosi di suo ingegno, senza avere essemplo alcuno dalla natura, quale con ochi o mente seguano, studiano da sé a sé acquistare lode di dipignere: questi non imparano dipignere bene, ma assuefanno sé a’ suoi errori» (ivi, pp. 305, 306, 308).

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formule visive messe a punto dal Verrocchio nell’elaborazione di prototipi facciali. Ad esempio, si noterà che le palpebre inspessite del Putto con delfino del maestro (figg. 3-4) vengono prese in prestito, tra l’altro, per la definizione del volto della Madonna e dell’angelo sia nella prima che nella seconda versione della Vergine delle rocce dell’allievo (figg. 5-6); la fontana del Putto inoltre, nel dettaglio della ciocca di capelli scomposta e bagnata dal getto d’acqua pensato per fuoriuscire dalla bocca e dalle narici del delfino, testimonia dell’interesse del Verrocchio per gli effetti naturalistici, problematiche che saranno saldamente al centro della ricerca artistica di Leonardo. Anche l’inclinazione verso l’indagine fisiognomica più cruda scaturisce e viene maturata da Leonardo nel contesto del suo apprendistato presso il Verrocchio. Uno studio di un San Girolamo del maestro (fig. 7), eseguito nel 1465 circa, nella sua riflessione acuta e veritiera sull’anatomia, sull’ossatura e sulla muscolatura del volto anziano, appare come precursore nei confronti di quel San

Girolamo penitente (fig. 8), un olio eseguito – ma non completato – da Leonardo circa

quindici anni dopo, col quale conferma la volontà artistica del maestro di prestare fedeltà a una restituzione il più aderente possibile al vero naturale. Nel contesto di un’indagine volta ad esaminare le collaborazioni artistiche fra Andrea del Verrocchio e l’allievo Leonardo, David Alan Brown ha ipotizzato un intervento leonardesco nella realizzazione di un lavabo marmoreo della Sacrestia Vecchia in San Lorenzo (figg. 9-13), opera del maestro e databile intorno al 147029. L’imponente lavamani, dall’altezza complessiva di quasi due metri, si compone di una vasca ovoidale sormontata da una struttura accessoria e decorativa superiore; l’impianto è nella sua totalità inquadrato da una lastra decorata a bassorilievo addossata al muro, nella forma di un arco a tutto sesto. L’opera presenta un’iconografia animalesca particolarmente ricca ed interessante, che incornicia l’imprescindibile stemma araldico mediceo. Come i mitologici Leviatano e Raab delle scritture veterotestamentarie, i mostri ittici dalle ali di pipistrello e dai volti femminei, le cui code squamose abbracciano l’intera vasca definendo un motivo ornamentale, sono attributi diabolici e di empietà, al pari dell’altra coppia di mostri marini, delle teste di lupo dal naso camuso e delle creature draconiche ritratti nella sezione superiore dell’opera scultorea; invece, la testa di leone al centro della vasca e il falcone che, immortalato nell’atto di porgere l’anello di diamanti

29 DAVID ALAN BROWN, Leonardo da Vinci. Origins of a genius, Yale University Press, New Haven 1998, pp.

56-63. Nel novero degli interventi leonardeschi nell’opera del Verrocchio, Brown inserisce cronologicamente in testa il dipinto con Tobia e l’angelo (1470-1480): nell’opera si manifesta quella sensibilità naturalistica spiccata e già attenta di Leonardo, che secondo lo studioso ha provveduto a realizzare il pesce e il cagnolino, di grande «espressività e verosimiglianza» (D.A.BROWN, Il giovane Leonardo…, cit., pp. 56-57).

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mediceo, governa l’intera scultura dalla sua sommità, si configurano come elementi redentori e metafore di Dio stesso, sulla scia delle medesime interpretazioni sacre30. È proprio la realizzazione della protome leonina, in virtù del suo modellato morbido e della resa naturalistica più convincente rispetto ai modelli disponibili, ad essere ricondotta con maggior sicurezza dallo studioso americano alla mano di Leonardo31. Brown suggerisce che il presunto intervento dell’apprendista nell’opera del Verrocchio sia una precoce testimonianza della naturale predisposizione ‘onnivora’ dell’artista vinciano verso la realtà naturale e, specificatamente, animale, verso la quale dimostrò da subito una consapevolezza artistica sorprendentemente matura32. Che abbia partecipato o meno alla realizzazione del lavabo della Sacrestia Vecchia, possiamo comunque supporre con relativa certezza che il giovane Leonardo abbia potuto osservare l’opera scultorea del maestro, subendo certamente il fascino della commistione di elementi naturalistici e fantastici in essa operata, che troviamo riproposta nel suo disegno del Profilo di guerriero conservato al British Museum,

30 LORENZO LORENZI, I mostri del lavabo marmoreo di Andrea Verrocchio, «Antichità viva», a. XXXIII, n. 4,

novembre 1994, pp. 43-47. Cfr. lo stesso (ivi, pp. 47-52) per una lettura più approfondita dell’opera scultorea circa le ragioni politiche dell’iconologia adottata, le questioni stilistiche e di derivazioni degli elementi iconografici. È Brown a sottolineare che l’uccello scolpito sia un falco e non un’aquila, come precedentemente affermato anche da Lorenzi (D.A.BROWN, Leonardo da Vinci…, cit., p. 60).

31 Ibidem.Nel ‘Serraglio’ di Firenze, Leonardo ebbe modo di vedere e studiare dal vivo diversi esemplari di

leoni ivi tenuti in cattività: il dato potrebbe avvalorare l’ipotesi circa la paternità leonardesca del leone scolpito, dal momento che «its expression seems oddly winsome, like that of an animal peering out from behind the bars of its cage». Lo studioso non esclude che Leonardo sia intervenuto anche sui draghi, che dimostrano delle evidenti affinità con alcuni disegni sugli stessi dell’artista (si veda fig. 17, p. 23), ma sembra ‘puntare’ con maggior convincimento sulla testa leonina, dal momento che i due draghi marmorei potrebbero essere il risultato di un intervento successivo al tardo Quattrocento (ivi, pp. 60-62).

32 Oltre al mancato monumento equestre di Francesco Sforza, Vasari ricorda che Leonardo realizzò «nella sua

giovanezza, di terra alcune teste di femine che ridono, che vanno, formate per l’arte di gesso, e parimente teste di putti, che parevano usciti di mano d’un maestro […]»: la storiografia artistica ha intrapreso un arduo ma stoico percorso critico volto a rintracciare testimonianze tangibili di queste ‘teste’ (G.VASARI, Le vite…, cit., vol. IV, p. 17). Brown ipotizza che anche le corone vegetali bronzee della Tomba di Piero e Giovanni de’ Medici del Verrocchio (1472), in virtù della loro freschezza e vivacità naturalistica, prefiguranti le ghirlande delle lunette del Cenacolo, siano ascrivibili alla mano di un Leonardo già esperto botanico, così come le quattro tartarughe in bronzo che sorreggono la base marmorea (D.A.BROWN, Leonardo da Vinci…, cit., pp. 64-68). Gli interventi sulle opere citate, quindi, se la supposizione di Brown si rivelasse veritiera, rappresenterebbero ad ora le uniche testimonianze scultoree di Leonardo, assieme a una recente attribuzione che ha interessato una Madonna col bambino di terracotta conservata al Victoria and Albert Museum (1472 ca), dov’è tuttora esposta come manufatto di Antonio Rossellino. A proposito della restituzione leonardesca di questa piccola scultura, Caglioti, che ne sostiene la paternità dell’artista vinciano dal 2004, ostenta una certa sicurezza, credendo che questa «si possa serenamente riconsegnare in toto alla sua autografia», nel suo convincente proporsi come esempio concreto delle sfuggenti ‘teste’ rammentate da Vasari. La mostra corrente, all’interno del cui catalogo sono stati messi per iscritto questi nuovi sviluppi e considerazioni circa le implicazioni del rapporto maestro-allievo – di cui ho discusso nelle mie ultime due sezioni dedicate a Leonardo –, è la prima monografica in assoluto dedicata ad Andrea del Verrocchio. Cfr. FRANCESCO CAGLIOTI, Leonardo da Vinci, Madonna col Bambino (1472 ca), in Verrocchio. Il maestro di Leonardo, cat. della mostra, a cura di F. Caglioti e A. De Marchi, Firenze, Palazzo Strozzi (con una sezione speciale al Museo Nazionale del Bargello), 9 marzo – 19 luglio 2019, Marsilio, Venezia 2019, pp. 280-283; cfr. FRANCESCO CAGLIOTI, Verrocchio scultore: la formazione, i generi figurativi, gli allievi, i seguaci, in ivi, p. 45.

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risalente al decennio successivo, che reca sul petto un muso leonino decisamente simile all’esemplare scultoreo (fig. 14)33.

L’affinità di Leonardo col mondo animale è ricordata più volte nella Vita di Vasari, dove si legge che l’artista amava circondarsi di cavalli e numerosi altri animali che «con grandissimo amore e pacienza governava», e che soleva acquistare volatili tenuti in gabbia per liberarli in seguito dalla loro cattività34. Vengono anche riportati alcuni aneddoti più dettagliati e stravaganti sull’argomento, come quello relativo all’’assemblaggio’ di un particolarissimo ‘ramarro’, durante la sua permanenza a Roma presso papa Leone X:

Fermò in un ramarro, trovato dal vignaruolo di Belvedere, il quale era bizzarrissimo, di scaglie di altri ramarri scorticate, ali adosso con mistura d’argenti vivi, che nel moversi quando caminava tremavano; e fattogli gl’occhi, corna e barba, domesticatolo e tenendolo in una scatola, tutti gli amici ai quali lo mostrava per paura faceva fuggire35.

Nell’intento vasariano, il bizzarro aneddoto concorre ad aggiungere un ulteriore tassello nel tratteggio di quel Leonardo «mirabile» ma «ghiribizzoso», nondimeno si rivela al contempo una curiosa e involontaria testimonianza delle caratteristiche della ricerca leonardesca sul mondo animale, precedentemente suggerite con la questione del lavabo del Verrocchio: l’inchiesta dell’artista non è rivolta esclusivamente alle sue conformazioni reali, ma il suo interesse si estende oltre la dimensione naturale, sconfinando in quella artificiale e fantastica, forgiata dal pittore stesso.

La registrazione delle componenti della realtà animale è estensivamente presente nella febbrile attività artistica di Leonardo, impegnato a catalogare dal vivo gli elementi costitutivi

33 SARA TAGLIALAGAMBA,MARCO VERSIERO, Leonardo faceto e grottesco: uno sguardo tragico e comico

sulla vita del Rinascimento, negli scritti e disegni del genio, in Comico e tragico nella vita del Rinascimento, atti del XXVI Convegno Internazionale, a cura di L. Secchi Tarugi, Chianciano Terme-Pienza 17-19 luglio 2014, Franco Cesati Editore, Firenze 2016, p. 441; D.A.BROWN, Leonardo da Vinci…, cit., p. 60.

34 G.VASARI, Le vite…, cit., vol. IV, p. 18. Oltre ai già citati leoni, nel ‘Serraglio’ Leonardo poté osservare

una giraffa, regalata dal Sultano d’Egitto a Lorenzo il Magnifico nel 1486 per incoraggiare un’alleanza politica coi Medici; quello che l’artista conosceva dell’elefante – del quale individuiamo un impacciato esemplare nello sfondo dell’Adorazione dei Magi – è invece dovuto alle scarse rappresentazioni rinascimentali, a loro volta mutuate da quelle medievali contenute nei bestiari o evocate dai racconti di viaggio sui paesi orientali (SARA

TAGLIALAGAMBA, Leonardo da Vinci and Fantastic Animals: Free Assembly of Shapes, in Transition and Dissolving Boundaries in the Fantastic, a cura di C. Löetscher et alii, LIT Verlag, Münster2014, vol. II, pp. 14-15).

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della realtà circostante e a studiarne le caratteristiche intrinseche e le dinamiche relazionali36. Ad ogni modo, nel corpus dei disegni leonardeschi sugli animali si individuano delle opere che esulano dall’aderenza al vero naturale, un gruppo variamente riconducibile sotto l’egida del ‘mostruoso’ e del ‘grottesco’, in virtù dell’ibridazione in essi di aspetti naturali e fantastici. Ad esempio, il disegno con lo schizzo di Due teste di animali grotteschi (fig. 15) testimonia di questa fusione spesso operata da Leonardo nella sua opera grafica sugli animali. Le Teste difatti, probabilmente uno studio per delle maschere festive, manifestano chiaramente un’intenzione grottesca: il muso canino da ‘levriero’ della testa a destra è sormontato da una lunga criniera egualmente ferina – e vagamente memore di una chioma arborea – ma presenta una dentatura sporgente più umana che animale, nonché un labbro mostruosamente pendente, un evidente attributo di idiozia; la bestia a sinistra risulta invece essere la risultante di un insieme più variegato, come si evince dalla messa in mostra delle orecchie da orso e di una criniera leonina che incorniciano un muso nuovamente canino, ma da piccolo molossoide37. Sembra plausibile supporre che l’assodata presenza di determinati

volumi nella biblioteca leonardiana, come le Favole di Esopo, la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio e i bestiari medievali Fior di virtù e L’Acerba di Cecco d’Ascoli, abbia contribuito ad incanalare la già fervida fantasia del pittore, persuadendolo a voler ricreare quelle fantastiche immagini animalesche. Leonardo stesso fu autore di un Bestiario e di una raccolta di Favole esemplificata sull’opera di Esopo, ma desiderò evocare quell’immaginario in maniera più vivida e convincente, per mezzo della più valente e nobile delle arti: la

pittura38. L’artista dimostrò in particolare un’affezionata consuetudine con la rappresentazione di draghi, che vediamo prendere vita in numerosi altri disegni del genio. Come il sovracitato disegno delle Due teste, anche lo schizzo dello Studio di un drago (fig.

36 Fornire una selezione esaustiva di opere appare velleitario, tant’è ingente il materiale – soprattutto grafico –

a cui poter fare riferimento. Mi limiterò pertanto a ricordare en passant la Dama con l’ermellino, che comunque, nella restituzione veritiera del piccolo mammifero e nell’evidente preoccupazione di stampo naturalistico di cogliere l’interazione fra questi e Cecilia Gallerani, mi pare un ottimo esempio. Il dipinto è ovviamente arricchito da significati squisitamente ‘cortigiani’, per i quali l’ermellino, simbolo di purezza, non solo si pone come un doppio ferino della giovane – in greco, ‘ermellino’ (γαλή)si pronuncia galḗ –, ma rimanda al Moro stesso, che era stato da poco insignito del titolo onorifico di cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino.

37 S.TAGLIALAGAMBA,M.VERSIERO, Leonardo faceto e grottesco…, cit., p. 443; CARLO PEDRETTI, Two

studies of grotesque animals, in Leonardo da Vinci. Drawings of Horses and Other Animals from the Royal Library at Windsor Castle, cat. della mostra, a cura di C. Pedretti, Washington, National Gallery of Art, 24 febbraio – 9 giugno 1985, Johnson Reprint Corporation, New York 1984, p. 72. La ‘briglia’ e il ‘morso’ sul muso della creatura a sinistra avvallano l’ipotesi della funzione di maschere per qualche festività alla corte milanese, forse lo stesso matrimonio tra Ludovico il Moro e la consorte Beatrice d’Este nel gennaio del 1491 (Royal Collection Trust, <https://www.rct.uk/collection/912367/two-heads-of-grotesque-animals>, ultimo accesso: febbraio 2019).

38 S.TAGLIALAGAMBA, Leonardo da Vinci…, cit., p. 6; S.TAGLIALAGAMBA,M.VERSIERO, Leonardo faceto e

grottesco…, cit., pp. 433, 435; SARA TAGLIALAGAMBA, Creature (im)possibili: gli animali fantastici di Leonardo, «Art e Dossier», a. XXIV, n. 253, marzo 2009, p. 52.

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16) – ugualmente conservato alla Royal Library inglese e datato al 1517 circa – adempie a un non dissimile compito da cortigiano, essendo stato verosimilmente abbozzato per progettare un costume da essere indossato da due persone, in un’occasione festiva da tenersi alla corte francese di Francesco I. Il drago presenta delle visibili affinità con le due maschere, nel muso similmente pseudo-canino e nel pelo irto e folto che concorrono stavolta a definire uno sguardo decisamente più truce, accentuato dal paio di corna svettanti; la struttura corporea ugualmente irsuta e longilinea, priva di ali ma dotata di lunghi e ricurvi artigli, richiama alla mente l’immagine del drago della mitologia cino-giapponese, sebbene non si possa dare per scontato che Leonardo conoscesse tale interpretazione della bestia mitologica. Quel che ci interessa certamente notare è che il bizzarro e grottesco animale protagonista di quest’opera, come la coppia del disegno precedente, dimostri quella stessa profusione sinergica di caratteristiche eterogenee, estrapolate da riferimenti reali o create ad hoc39. Il

prototipo ‘ideale’ di drago leonardesco è quello ravvisabile in diversi studi dell’artista, fra cui un disegno databile tra il 1478 e il 1480 (fig. 17), nel quale la creatura mitologica, nei quattro esemplari più o meno abbozzati, è provvista del paio di ali ‘da pipistrello’ della variante ‘classica’ occidentale, avvicinandosi così all’immagine delle due creature alate della sezione superiore del lavabo in San Lorenzo. Il tipo leonardesco di drago confluisce anche in un motivo figurativo ricorrente nella produzione grafica dell’artista, quello del cavaliere che combatte il mitico animale, a cui Leonardo iniziò ad interessarsi sin da quando ricercava scene da ambientare sullo sfondo dell’Adorazione dei Magi, saggiate in un disegno dove l’accoppiata è tratteggiata al centro della composizione (figg. 18-19). Benché assodato che tali studi non fossero funzionali alla prefigurazione di un lavoro con l’iconografia di San Giorgio, è stato altresì rilevato che ne abbiano tratto quello stesso simbolismo da «battle of

contraries», nella sintesi allegorica dell’eterna lotta tra il bene e il male, tra la vita e la morte,

e persino tra la luce – della ragione – e le tenebre – dell’ignoranza –, com’è esemplificato dal disegno citato. Affascinato in egual modo dalle problematiche naturalistiche delle dinamiche di «azione e reazione» fra i due contendenti, il «rider-battling-a dragon motif» si presenta in un’ulteriore variante che vede darsi battaglia il drago e il leone, nota – tra gli altri

39 C. PEDRETTI, Study for a dragon, in Leonardo da Vinci…, cit., pp. 72-73; Royal Collection Trust,

<https://www.rct.uk/collection/search#/27/collection/912369/a-design-for-a-dragon-costume> (ultimo accesso: febbraio 2019).

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