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La nascita della corte fiorentina e la maturazione del gusto principesco per le bizzarrie della natura: collezionare l’anomalia

C APITOLO II I L GROTTESCO ‘ INTRINSECO ’: IMPLICAZIONI DELLA RITRATTISTICA NANESCA ALLA CORTE DEL CINQUECENTO

II.1. La nascita della corte fiorentina e la maturazione del gusto principesco per le bizzarrie della natura: collezionare l’anomalia

Benché la nascita e il consolidamento della corte fiorentina avvengano con un notevole ritardo rispetto ad altri esempi italiani ed europei dalla storia ormai plurisecolare, il giovane Granducato dimostrò di sapersi adattare con grande velocità al nuovo clima principesco, maturando dei gusti, delle convenzioni e delle attitudini conformi al nuovo ambiente cortigiano83. La germinazione dei primissimi elementi riconducibili alla presenza di una corte a Firenze risale al breve regno alessandrino degli anni Trenta, nel contesto del quale la creazione di una struttura cortigiana ufficializzata venne sancita da una serie di documenti amministrativi ratificati nel 1535. Ciò si pone come la manifestazione più evidente del mutamento di rotta e di regime avvenuto nel ‘32, e lo sviluppo di quest’aggregazione cortigiana, allora in nuce, procede di pari passo col progressivo consolidamento del potere dei nuovi principes medicei della Toscana. Essa si organizza con maggiore specificità sotto il regno di Cosimo (1537-1564), che ne inquadra in modo più puntuale le diverse ramificazioni e aree di competenza, adunando un entourage cortigiano, tuttavia, di dimensioni relativamente modeste: sarà Ferdinando I, terzo granduca di Toscana (1587- 1609) a trasformare finalmente la giovane e ancora modica corte fiorentina in una vera e propria corte rinascimentale, sontuosa e opulenta. Da ex cardinale di Roma qual era, aveva una conoscenza vissuta, e quindi vivida e precisa dei fasti della sfarzosa corte pontificia – dove aveva trascorso ben ventiquattro anni della sua vita –, ed è logico dedurne che quest’importante esperienza pregressa lo abbia indotto quasi naturalmente ad apportare quei cambiamenti decisivi nell’ambiente cortigiano toscano, fornendo a questi un assetto più consono alla sua mutata natura di corte principesca. Liberatosi della veste cardinalizia per

83 A partire dagli ultimi anni del Quattrocento sino al primo trentennio del secolo successivo, la città di Firenze

– e con essa la famiglia medicea – vive un momento politico particolarmente travagliato e incerto. Per una disamina delle vicissitudini politiche fiorentine – dalla cacciata di Piero de’ Medici nel 1494 sino all’ascesa al trono ducale e granducale di Cosimo e i suoi sviluppi immediatamente successivi – rimando a OLIVIER

ROUCHON, L’invenzione del principato mediceo (1512-1609), in Firenze e la Toscana. Genesi e trasformazioni di uno stato (XIV-XIX secolo), a cura di J. Boutier, S. Landi e O. Rouchon, Mandragora, Firenze 2010, pp. 55- 75.

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salire al trono granducale, momentaneamente vacante per la morte improvvisa del fratello maggiore Francesco – deceduto assieme alla seconda moglie senza lasciare alcun erede maschio –, il granduca Ferdinando procedette solerte ad espandere il suo ambiente cortigiano, com’è sancito in primis dall’assunzione di Palazzo Pitti come sua dimora ufficiale, in sostituzione di Palazzo Vecchio. I dati storici registrano un notevole incremento del numero di cortigiani a partire proprio dal regno del terzo granduca: laddove nell’anno dell’abdicazione di Cosimo (1564) la corte si componeva di 168 membri e in quello della morte del figlio Francesco (1587) si erano raggiunte 233 presenze, nel 1602 si registrano 359 cortigiani al servizio dei granduchi. Le cifre evidenziate sono comunque destinate a crescere negli anni a venire: nel 1695 – sotto Cosimo III (1670-1723) – la corte fiorentina risulta essere composta da 792 membri84.

L’ambiente cortigiano assecondava naturalmente quell’inclinazione e curiosità verso gli aspetti più inconsueti della realtà naturale maturate dai loro principes, che potevano difatti incoraggiare tali disposizioni tramite il consulto immediato con personalità eminenti in materia, ormai presenti stabilmente nel loro ambiente. Questo vezzo enciclopedico si coniugò con una crescente attenzione nei confronti della pratica del collezionismo, che divenne uno degli elementi costitutivi della dimensione cortigiana tardo-cinquecentesca, esemplificato dalla costruzione delle wunderkammer: vere e proprie ‘stanze delle meraviglie’, queste erano piccoli ambienti ‘proto-museali’ funzionali ad accogliere e a ostentare le rarità – mirabilia – accumulate dal signore, sia provenienti dal mondo naturale – naturalia – che preziosi oggetti frutto dell’ingegnosità umana – artificialia. Presso la corte di Cosimo, le immagini a soggetto naturalistico – utilizzate per scopo scientifico o ideate per il diletto del sovrano – conobbero una fortuna notevole e duratura. Il primo granduca fu un importante promotore della nascente botanica moderna: sotto il suo regno – nel ’44 – nacque uno dei primi orti botanici, quello di Pisa, realizzato in stretta collaborazione con l’università locale e dotato di una ricca biblioteca naturalistica, presso cui artisti interessati avevano modo di riprodurre gli esemplari vegetali e animali ivi conservati, sotto l’oculata supervisione degli scienziati. Il Medici possedeva, tra l’altro, un libro di animali «bellissimi e bizzarri» disegnati a penna da Piero di Cosimo – ora non più rintracciabile –, al quale pareva tenesse molto: questo passò al figlio Francesco, che ereditò altresì quel grande

84 HÉLÈNE CHAUVINEAU, La corte medicea (1530-1737), in ivi, pp. 229-231; MARCELLO FANTONI, La corte

del granduca. Forma e simboli del potere mediceo fra Cinque e Seicento, Bulzoni, Roma 1994, pp. 27, 30-31. La dimora di Luca Pitti era stata acquistata nel 1549 dalla duchessa Eleonora per farne una villa suburbana, ma venne abitata solo saltuariamente dai primi due granduchi: fu durante il regno di Ferdinando I che questa andò acquisendo definitivamente quei connotati da reggia principesca (ivi, pp. 27-28).

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interesse e quella predisposizione verso il mondo naturale propri del padre. Amico del medico e naturalista bolognese Ulisse Aldovrandi, discorreva spesso con quest’ultimo, apprezzandone i commenti specializzati: come in una giornata del ’77, in cui i due s’incontrarono per ammirare le pitture naturalistiche del veronese Jacopo Ligozzi, a cui è affidata la decorazione del casino di San Marco e della galleria granducale. Francesco, inoltre, era profondamente affascinato dall’alchimia e dalla magia: al fine di perseguire con maggiore intimità questa sua inclinazione, ordinò la costruzione di uno Studiolo in Palazzo Vecchio. Il piccolo ambiente – la cui angustia ben si confaceva al carattere schivo del secondo Granduca –, abbellito da un apparato decorativo teorizzato da Vincenzo Borghini e attuato dall’équipe vasariana, fungeva anche da wunderkammer, costituendosi come l’esempio fiorentino di quel costume imperante nelle corti italiane ed europee del tardo Cinquecento85. Il bramoso interesse e l’attitudine voracemente collezionistica dei regnanti

nei confronti delle bizzarrie del mondo naturale si estendeva alle anomalie e menomazioni talvolta ravvisabili nel corpo umano, coinvolgendo delle pratiche ad oggi inevitabilmente ritenute amorali e crudeli. Per soddisfare questa morbosa curiosità mascherata da interesse scientifico, le corti fecero una vera e propria incetta di soggetti simili, tra cui persone affette da acondroplasia o colpite da forme acute da ipertricosi (fig. 48)86. Sappiamo che, in occasione del Natale, Eleonora di Toledo soleva far acquistare per i suoi figli frutta di qualità e leccornie varie, fra cui delle bizzarre statuette di zucchero: ma una lista di acquisti natalizi risalente al ’46 includeva anche una voce di spesa ben più curiosa, relativa all’acquisto di «due uomini selvatichi», con la cui espressione si intendevano forse indigeni del Nuovo Mondo – bambini abbandonati nella foresta e cresciuti allo stato ferino –, o malati mentali venduti dalle famiglie che volevano disfarsene87. Nonostante la novità rappresentata da questi ‘uomini selvatichi’ provenienti dall’America – che venivano regalati ai bambini della

85 GIUSEPPE OLMI,LUCIA TONGIORGI TOMASI, Raffigurazione della natura e collezionismo enciclopedico nel

secondo Cinquecento tra Milano e l’Europa, in Arcimboldo. Artista milanese…, cit., pp. 118-151. Cfr. VALENTINA CONTICELLI, “Guardaroba di cose rare et preziose”. Lo Studiolo di Francesco I de’ Medici: arte, storia e significati, Agorà Publishing, Lugano 2007, per una lettura estesa dello Studiolo di Francesco Medici.

86 Pedro Gonzalez ‘Selvaggio’ e la sua famiglia si guadagnarono una considerevole notorietà nel tardo

Rinascimento. Originario delle Canarie, l’uomo era affetto da hypertrichosis universalis, malattia congenita ed ereditaria che comportava una crescita anormale del bulbo pilifero, causando l’estensione di una fitta coltre di peli su vaste zone del suo viso e del corpo. Ebbe numerosi figli, la maggior parte dei quali ereditarono la sua condizione: all’inizio degli anni Novanta del Cinquecento, Pedro e i suoi familiari ipertricotici divennero proprietà del duca Alessandro Farnese, che provvide a regalarne la quasi totalità al figlio Ranuccio, spedendoli in Italia dai Paesi Bassi. Enrico, uno dei figli, entrò successivamente nelle collezioni del fratello, il cardinale Odoardo: ‘Arrigo peloso’ venne ritratto, assieme a ‘Pietro Matto’, ‘Amon Nano’ – egualmente posseduti dal Farnese –, e a cani, scimmie e un pappagallo, nel 1598 circa da Agostino Carracci (fig. 48) (ivi, p. 141).

87 CAROLINE P. MURPHY, Isabella de’ Medici. La gloriosa vita e la fine tragica di una principessa del

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famiglia come fossero giocattoli –, erano piuttosto i nani a stuzzicare l’interesse dei Medici: molti di questi vennero accasati presso la corte fiorentina, dove ne assunsero il ruolo di buffoni prediletti.

Il termine ‘buffone’ non inquadra semplicemente una professionalità all’interno dell’entourage cortigiano, bensì si costituisce anzitutto come una risorsa preziosa per gli annoiati regnanti, alla perenne ricerca di svago e intrattenimento grazie al quale poter animare il tempo da trascorrere negli spazi immensi delle loro dimore. L’era propriamente ‘moderna’, che vide la nascita dei nuovi ‘signori’ e di ambienti cortigiani riccamente strutturati, costituì l’«età aurea» per i buffoni, destinati a diventarvi una presenza assidua e ampiamente richiesta. Difatti, colui che è a capo di una corte si preoccupa anzitutto di costruire un ambiente che possa rispondere in modo esaustivo e impeccabile alle sue esigenze, tra cui non manca quella di procacciarsi divertimento, per allietare se stesso e il suo milieu, ma anche per intrattenere ospiti illustri. ‘Buffone’ è una nozione inclusiva, che accoglie nel suo novero sia i buffoni regolarmente stipendiati dal signore di turno, presso la cui corte risiedevano stabilmente, che quelli ‘girovaghi’, i quali, spesso d’estrazione toscana – se non propriamente fiorentina –, si affidavano in toto alla fortuna, vagando alla ricerca di un princeps che potesse desiderarne e apprezzarne i servigi, senza mai prendere impegni prolungati presso un singolo. Sedentari o nomadi che fossero, i buffoni divennero una realtà imprescindibile nella corte italiana ed europea: con ‘facezie’, scherzi e comportamenti deliberatamente sguaiati e irriverenti, suscitavano le risa dei loro signori, ingraziandosene al contempo le simpatie e procurandosi di che vivere88. Tuttavia, illustrare la schiera professionale dei buffoni – e, in generale, dell’intrattenimento a corte – alla luce della dicotomia ‘istituzionalizzato-freelance’ non risulta sufficiente a rendere conto delle varie specificità della stessa. Difatti, nella categoria rientravano i dispensatori d’intrattenimento

88 FERDINANDO GABOTTO, L’epopea del Buffone. In appendice Le Buffonerie del Gonnella, La Vita Felice,

Milano 2016 (ed. or. 1893), pp. 11-28. Una delle testimonianze più precoci del costume di ospitare permanentemente tali personaggi a corte è costituito dall’esempio del buffone vestito di «vergato» che intratteneva l’entourage del conte Amedeo V di Savoia (1285-1323) (ivi, p. 15). Gli esempi attingibili dall’era moderna sono numerosi: ricordo, a questo proposito, la presenza dei buffoni ‘Tapone’ e ‘Pernigone’ – probabili soprannomi, o storpiature dei loro veri nomi – presso la corte sforzesca, dove dilettavano i regnanti esibendo senza remore la loro insaziabile voracità a tavola (ivi, p. 27). Una figura ben nota appartenente alla schiera dei girovaghi era invece il banditore fiorentino Domenico Barlacchi, detto ‘Il Barlacchia’, conosciuto per i suoi motti arguti. La sua sagacia sedusse anche il duca Alessandro de’ Medici, il quale, in un’occasione, volle premiarlo colla concessione di un podere. Sopravvissuto a una malattia mortale ed interrogato sul fatto dal duca, il buffone rispose di «esser andato alle porte dell’altro mondo, ma respintone come dappoco per non aver mai chiesto nulla» e pregò «l’Illustrissimo Signore» di concedergli qualcosa, affinché la sgradevole situazione non si ripetesse (ivi, pp. 17-18).

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in senso lato, sia promotori di un umorismo d’impostazione ‘triviale’ che fautori di forme di divertimento decisamente più raffinate, come gli attori e autori di farse, sketch comici e tragedie89. Il buffone non era necessariamente un nano: ma il nano era inevitabilmente un buffone. In quanto ‘finto sciocco’, il buffone era un artefice della comicità, e il riconoscimento della sua inventiva comica lo qualificava come un professionista rispettabile e persona dignitosa. Inoltre, non era necessariamente caratterizzato da menomazioni fisiche o mentali, sebbene questi sventurati requisiti destassero per certo ilarità nei principes: il fiorentino Dolcibene, celebre buffone ramingo, ospitato, tra gli altri, dall’imperatore Carlo IV di Boemia (1355-1378), oltre che «convenevole musico ed ottimo sonatore di organetti, di leuto e d’altri strumenti», era «bello di corpo, robusto, gagliardo»90. Il nano, di contro, non ha nemmeno bisogno di imparare un mestiere per garantirsi una posizione lavorativa nell’ambiente cortigiano: la sua presenza presso le corti rinascimentali era giustificata da quel suo stesso corpo tristemente deforme, che suscitava curiosità, risa e sdegno. Generalmente interpretato presso la civiltà egizia e greca come attributo di divinità e campione di prestanza fisica – massimamente espressa nella qualità priapea del suo fallo enorme e sproporzionato –, le corti moderne declassano il nano a mero ‘trastullo’ principesco: l’individuo subisce una fatale degradazione a curioso ‘gingillo’ da esibire, testimonianza tangibile del lusso e del prestigio del suo padrone, venendo condannato a una vita cortigiana di ridicolizzazione costante91. Volendo stilare una gerarchia dei membri

89 All’interno della corte papalina di Leone X (1513-1521) era possibile distinguere tre livelli di buffoni, per

ognuno dei quali si è in grado di citare a campione un rappresentante significativo. Potevamo individuarvi il buffone volgare, identificabile nella figura di Fra’ Mariano Fetti, frequentatore dell’ambiente papale dai tempi di Giulio II. Animatore di conviti, cacce e feste, la sua comicità era prevalentemente di tipo gastronomico: tra le sue ‘specialità’ si ricordano, ad esempio, l’inghiottire in un sol boccone un piccione, o il saltare repentinamente sulla tavola imbandita, inscenando un’improvvisata battaglia combattuta con le portate servite. Ma nello stesso ambiente si delineano figure dalle diverse inclinazioni, promotrici di una forma d’intrattenimento decisamente meno scurrile, pur similmente ascrivibili alla categoria del buffone. Tra questi, possiamo ricordare Niccolò Campani detto ‘lo Strascino’, attore e autore comico: le qualità specifiche della sua recitazione erano il canto e l’azione mimica, uniti a una notevole abilità nel contraffare voci e gesti. Infine, Francesco de’ Nobili, conosciuto anche come ‘il Cherea’ per averne interpretata la parte nell’Eunuco di Terenzio, era un attore – ed autore – di altro livello. Nel suo caso, si aveva a che fare con attore veramente professionista, che dispone di un vasto repertorio – di commedie ma anche di tragedie – ed è il titolare di una propria compagnia itinerante, che dispensa intrattenimento con spettacoli a pagamento (FABRIZIO CRUCIANI, Teatro nel Rinascimento: Roma 1450-1550, Bulzoni, Roma 1983, pp. 474- 485).

90 F.GABOTTO, L’epopea del Buffone…, cit., p. 13.

91 CRISTIANO SPILA, Mostri da salotto. I nani fra Medioevo e Rinascimento, Liguori Editore, Napoli 2009, pp.

93-112. Nella cultura egizia, il nano – impiegato nelle celebrazioni cortigiane e nei riti funebri – reca una simbologia preminentemente positiva, trovando una frequente raffigurazione nella pittura e nei rilievi, dove figura come un piccolo uomo calvo e macrocefalo, ma dalle proporzioni in definitiva armoniose: l’anomalia fisica era percepita come marchio sacro del divino, associata al potere solare rigenerante o assimilata al corpo del sacro scarabeo Khepri. L’arte greca antica accorda una notevole attenzione all’anatomia nanesca: un buon numero di esempi di pittura vascolare restituisce immagini di nani muscolosi, con debita enfasi posta sulle loro qualità itifalliche (il primo riscontro di nani itifallici si ha comunque nell’arte egizia). Spesso raffigurato in

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dell’ambiente cortigianesco, ci troveremmo a collocare il nano al penultimo posto della classifica, appena prima degli animali, a cui talvolta è tenuto a badare: e proprio agli animali, come si vedrà, il nano è sovente associato nelle arti visive. I documenti relativi ai componenti della vita cortigiana conservano il ricordo di numerosi nani ospitati permanentemente presso ambienti italiani ed europei. Fra i tanti che popolavano la corte di Filippo il Buono (1419- 1467), si può ricordare ad esempio Madame d’Or, la nana bionda precedentemente appartenuta ad Isabella del Portogallo; ed ancora, è risaputo che anche la corte pontificia accogliesse nani nei suoi ambienti: al tempo di papa Paolo II (1464-1471), durante il carnevale, erano in gran voga le corse di nani nudi per divertire il popolo. Per gli esempi italiani, possiamo ricordare infine – fra gli altri – Isabella d’Este (1490-1519), che si dilettava particolarmente del collezionare nani: era proprietaria di una coppia di questi, Nanino e Nanina, che si sposarono ed ebbero dei figli, nani anch’essi, offerti come dono dalla Marchesa ai dignitari delle altre corti92.

Possiamo presumere che nessun nano, o più genericamente, nessun buffone risiedesse in pianta stabile presso l’ambiente mediceo prima degli anni ‘30: il gusto per le meraviglie e le stranezze della natura persuade intimamente la corte fiorentina solo quando quest’ultima compie la maturazione in reggia principesca, ponendo le basi per coltivare con metodo quell’interesse enciclopedico, anche nelle sue declinazioni più crudeli e disumane. La corte cosimiana fu animata da un numero considerevole di nani, e tuttavia, in molti casi le informazioni pervenuteci si esauriscono nella concisa annotazione inventaria dei loro nomi e delle spese sostenute per dotarli dello sgargiante vestiario buffonesco: in virtù di questa ragione catalogativa, ci sono stati tramandati i nomi dei nani Gradasso, Atalante, Fantappié, e altri93. Sappiamo che alla corte di Cosimo de’ Medici i nani erano addetti alla camera del duca, mentre le nane si occupavano di quelle della duchessa e delle figlie, presso le cui stanze nessun cameriere né paggio aveva modo di accedere: il nano della corte fiorentina condivide quindi l’intimità coi signori, avendo accesso alle stanze private e agli alloggi segreti dei suoi padroni. Ad esempio, Lucrezia, una delle figlie di Cosimo, disponeva di una nana personale

azioni servili, il nano era altresì identificabile nella figura mitica del Pigmeo, ossia del nano guerriero: il topos letterario della contesa bellicosa tra Pigmei e Gru assume la funzione di parodizzazione del nobile conflitto omerico, sulla scia della Batracomiomachia.

92 Ivi, pp. 41-43.

93 DETLEF HEIKAMP, Nani alla corte dei Medici, in Buffoni, villani e giocatori alla corte dei Medici, cat. della

mostra, a cura di A. Bisceglia, M. Ceriana e S. Mammana, Firenze, Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti (Andito degli Angiolini) e Museo del Giardino di Boboli, 19 maggio – 11 settembre 2016, Sillabe, Livorno 2016, p. 41.

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che le faceva da servitrice, tale Maria, inclusa tra gli stipendiati della corte nel 1553, e anche un certo nano Bartolomeo è incluso nei registri di conti del 1556; e ancora, sotto il regno del figlio Francesco, Narciso Nano che «sta in camera del Principe Don Antonio Medici» è registrato in una nota di lista della famiglia Medici del 158694. Ma, tra i nani ospitati dalla corte fiorentina, il più celebre è stato sicuramente Morgante, il buffone-nano prediletto del primo granduca, parimenti benvoluto dal resto della famiglia e dalla corte. Ceduto dai genitori che si auspicavano per il figlio una vita più decorosa e agiata, venne quindi ospitato dalla corte fiorentina a partire dal ’40 circa, sperimentandovi una permanenza prolungata e gradita. ‘Morgante’ era in realtà uno pseudonimo, che gli venne affibbiato con evidente intento parodico, secondo un’usanza ampiamente diffusa coi nani cortigiani. Il soprannome era difatti un ironico riferimento e omaggio al gigante buono dell’eponimo poema comico di Luigi Pulci, edito a Firenze nel 1478: nato nel bolognese, il vero nome di Morgante era Braccio di Bartolo95. Morgante assurse allo status di celebrità cortigiana, divenendo beneficiario di alcuni privilegi personalmente concessigli dal granduca: un documento del ‘55, ad esempio, c’informa che Cosimo lo rese titolare di una fattoria nell’aretino, in virtù della lealtà dimostratagli dall’«amatissimo servitore»; in aggiunta, quattro anni dopo gli verrà dato in dotazione un cavallo96. Ed infine, quando Braccio morì nel 1580, fu omaggiato dall’assunzione conseguente e immediata di un altro nano cortigiano, chiamato a sua volta Morgante97. Nonostante le simpatie bonarie di cui indiscutibilmente godeva presso la famiglia medicea, lo sventurato Morgante non poteva eludere la sua natura grottesca e risibile di ‘mezz’uomo’, che costituiva di fatto il motivo principale della sua presenza a corte: l’impiego più naturale e ovvio che vi trovava era quello del buffone di bassa lega, un ‘fenomeno da baraccone’ sbeffeggiato e fisicamente vessato dai suoi superiori. Intratteneva la corte facendo sfoggio impudico del suo appetito pantagruelico, o ingaggiando grotteschi ed efferati combattimenti con gli animali: come quello che lo vide azzuffarsi brutalmente