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C APITOLO II I L GROTTESCO ‘ INTRINSECO ’: IMPLICAZIONI DELLA RITRATTISTICA NANESCA ALLA CORTE DEL CINQUECENTO

II.2. Un curioso dipinto recto-verso: il Nano Morgante del Bronzino

Il nano Morgante costituì il soggetto privilegiato di un singolarissimo dipinto eseguito ante 1553 da Agnolo Bronzino, membro eminente della corte fiorentina, nonché ritrattista ufficiale della famiglia medicea99. Tale opera rappresenta un caso veramente peculiare, non solo nella produzione del pittore cortigiano, ma nel novero della pittura stessa: Bronzino optò per una curiosa soluzione figurativa che, raffigurando l’’uccellatore’ Morgante sia sul

verso che sul recto della tela, coadiuvò lo sviluppo della parabola narrativa ivi sottesa,

rendendo conto dell’azione in due momenti temporali diversi, prima e dopo la battuta di caccia (figg. 49-50). Che la portata grottesca del soggetto non solo fosse manifesta, ma destasse financo degli scrupoli a causa della presunta natura sconveniente del dipinto – trattavasi di un nano nudo, ormai estraneo ai canoni più recenti di decorum –, è comprovato dalla varie manipolazioni che la tela del Bronzino fu costretta a subire nel corso dell’Ottocento: mediante l’inserimento nel recto di attributi iconografici specifici quali il calice di vino, le foglie di vite e i grappoli d’uva, gli scrupolosi ‘restauratori’ trasformarono l’ignaro Braccio di Bartolo in un Bacco, compiendo un’azione correttiva volta a normalizzare quell’impatto visivo al tempo percepito come minacciosamente sconvenevole (fig. 51). L’incuria e il conseguente, progressivo deterioramento cui andò incontro il dipinto nel corso dei secoli successivi fu principalmente imputabile alla revocazione della sua paternità al Bronzino, un ripensamento dovuto presumibilmente alla grande perplessità che la raffigurazione di quel particolare soggetto destava, soprattutto se raffrontata col resto della produzione del pittore cortigiano. Contraddistinta da sontuosi preziosismi e lucenti colori smaltati, l’opera ritrattistica del Bronzino dava vita a raffinatissime effigi d’algida bellezza – come quelle della duchessa Eleonora, ritratta da sola o in compagnia dei figli (fig. 52) – o a immagini politico-encomiastiche del duca Cosimo, tramite le quali il princeps rimarcava il suo status sociale e il suo dominio incontrastato sul territorio toscano (fig. 53). La rintracciabilità nel suo illustre catalogo di ritratti della presenza esclusiva di un nano completamente nudo appariva quindi incoerente con la ‘bellezza’ incorruttibile evocata dalla schiera esemplare di personaggi già ritratti, dai membri della famiglia regnante ai

99 S.HENDLER, Un mostro grazioso…, cit., p. 19. L’opera viene per la prima volta menzionata nell’inventario

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componenti più insigni di quell’entourage, tra cui, ad esempio, i coniugi Panciatichi100. Il processo, come s’è visto, sfociò in quelle successive rimaneggiature che provvidero a rendere la tela più consona al gusto morigerato del tempo, e tuttavia celandone l’iniziale significato e corrompendone le originarie qualità pittoriche. Ripulita l’opera dagli interventi moralistici – e di levatura alquanto rozza e superficiale –, il dipinto del Bronzino, ora filologicamente disvelato, poté finalmente mostrarsi nella sua verità naturalistica e nella corretta veste iconografica e iconologica, nonché essere studiato alla luce del suo contesto culturale di provenienza, quello dell’Accademia Fiorentina – ex ‘Umidi’ – e del Disegno, e delle querelle intellettuali da esse promosse, che animarono il dibattito circa i meriti delle varie arti liberali – definizione in cui, finalmente, erano da poco rientrate anche le attività propriamente artistiche101. Com’è intuibile, il Morgante non costituisce semplicemente il

ritratto di uno dei membri più umili della corte cosimiana impegnato in una sessione venatoria: in quanto effigie del nanus ducalis, il dipinto del Bronzino costituisce in primis un’ostentazione di uno degli attributi del dominio di Cosimo, secondo quanto già detto a proposito del costume delle corti italiane e transalpine di accogliere simili personaggi nelle loro dimore principesche, adottato al fine di procacciarsi intrattenimento e svago, accrescere il proprio prestigio e soddisfare quella crudele curiosità verso l’anomalia fisica e mentale.

100 Per un resoconto del sodalizio tra i Panciatichi e Cosimo de’ Medici – che, in realtà, non fu sempre disteso

–, e per gli esiti dell’assunzione da parte dei coniugi del ruolo di mecenati nei confronti del pittore cortigiano, rimando a CARLO FALCIANI, Il Bronzino e i Panciatichi, in Bronzino. Pittore e poeta alla corte dei Medici, cat. della mostra, a cura di C. Falciani e A. Natali, Firenze, Palazzo Strozzi, 24 settembre 2010 – 23 gennaio 2011, Mandragora, Firenze 2010, pp. 153-165.

101 A.NATALI, Storia di lingue e di trame, in Un mostro grazioso…, cit., pp. 9-10. Per quanto concerne il

passaggio da arte meccanica ad arte liberale: tanto nell’antichità classica quanto nel Medioevo, ‘τέχνη’‘téchne’, in greco – e ‘ars’ – in latino – indicavano, con l’ausilio di susseguenti sostantivi o aggettivi che inquadrassero nello specifico l’attività, un ‘saper fare’ tecnico-professionale, acquisito grazie all’assimilazione di determinate regole e la maturazione di molta esperienza pratica. Poiché evidentemente legate all’esercizio della manualità, e quindi a uno sforzo di natura fisica, le arti figurative non furono, al momento, destinate a fare parte del gruppo delle arti liberali – che comportavano, invece, uno sforzo ben più nobile, quello dell’intelletto –, come grammatica, retorica e logica – a cui si aggregò nel tempo la poesia –, facenti parti del Trivio, e aritmetica, geometria, astronomia e musica, che costituivano le arti del Quadrivio. Sebbene fossero state spesso paragonate alla poesia da un nucleo consistente di scrittori antichi, le arti figurative non esistevano come categoria a parte e disciplina indipendente: l’artista era considerato un artigiano, l’esecutore di un’arte ‘meccanica’. A partire dall’era rinascimentale, gli artefici rivendicano, con insistenza crescente, anche tramite importanti scritti e trattati teorici, la valenza ‘liberale’ della loro arte, ponendo l’accento sulla componente intellettuale della stessa ed equiparandola alla poesia, che, nata da una costola della grammatica, aveva acquisito una preminenza sempre più evidente nel novero delle arti del Trivio (ringrazio, per avermi introdotto a questo argomento preparatorio, la prof.ssa Chiara Savettieri, di cui ho seguito le lezioni di ‘Storia della Critica d’Arte’ nell’a.a. 2016/2017). Nella Firenze granducale, la manifestazione più eloquente della consacrazione delle arti come discipline liberali è sancita dall’istituzione dell’Accademia del Disegno, la quale venne ufficialmente fondata da Cosimo nel ‘63, su sollecitazione di Giorgio Vasari, che, assieme a Vincenzo Borghini, vi assunse un ruolo preminente (se ne legga in NIKOLAUS PEVSNER, Academies of Art. Past and Present, Cambridge University Press, Cambridge 2014, ed. or. 1940, pp. 42-51). Per un’approfondita disamina dell’iter di restauro del Morgante rimando invece a DIANE KUNZELMAN, Le indagini, la scelta operativa e la sua realizzazione: rimozione delle ridipinture e assetto estetico, in Il Nano Morgante di Agnolo Bronzino. Un dipinto «a due dritti» restaurato, a cura di M. Ciatti e D. Kunzelman, Edifir, Firenze 2012, pp. 33-49.

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L’immagine grottesca e ridicola del nano si piega quindi a necessità cortigiane di natura autoreferenziale e celebrativa, varcando quella dimensione intimistica che caratterizzava invece l’espressione del grottesco nei disegni di Leonardo. Il Nano Morgante è invero un lavoro colto e culturalmente sfaccettato, che presenta in filigrana tutta una serie di elementi riconducibili a un universo letterario intriso di «fiorentinità». Infine, ci parrà implausibile non esaminare il lavoro del Bronzino all’insegna di quel sentimento ambiguo che aleggiava da secoli intorno alle persone affette da acondroplasia, permeante per certo anche l’opera in questione, di cui renderemo conto nel corso del paragrafo finale del capitolo. E, nello specifico, vedremo come l’insieme di problematiche culturali implicate dal Morgante ben si presti ad essere ridotto in ‘coppie oppositive’, evidenziando il delinearsi di un ‘dualismo’ che si manifesta innanzitutto nella scelta del duplice formato della tela.

II.2.1. ‘Pittura’ versus ‘Scultura’: Benedetto Varchi e il «Paragone»

Sebbene ammirato per questa sua curiosa peculiarità, il Morgante non costituisce l’unico né il primo esempio di opera lavorata sia sul recto che sul verso del supporto. La prima testimonianza di un lavoro recto-verso del genere è difatti rintracciabile nell’opus grafica di Leonardo, che impiegò la soluzione figurativa in uno Studio per Ercole risalente al primo decennio del XVI secolo. Sul recto, esso rappresenta una visione frontale dell’eroe con la clava in mano, accompagnato sulla sinistra del foglio da un ghirigoro acquatico, e sul margine destro da un nudo maschile che sfodera una spada; Leonardo, intelligentemente, si assicura una traduzione esatta del profilo del semidio mediante il ripasso del disegno in controluce, mostrandone un’inquadratura posteriore sul verso (figg. 54-55). Nel Trattato

della pittura, il pittore vinciano fornisce prove chiare del suo accalorato coinvolgimento

nelle dispute circa l’individuazione della migliore delle pratiche artistiche, al tempo ancora impegnate ad accaparrarsi uno scranno tra le arti liberali. La pittura – e con essa il disegno – è superiore alla scultura: laddove la pratica di quest’ultima sfocia nella creazione di un numero indefinito di punti di vista, alla pittura ne bastano solamente due per sviluppare un’immagine a tutto tondo, appagando lo spettatore con un effetto illusorio di tridimensionalità. Difatti:

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Dice lo scultore che non pò fare una figura, che non ne faccia infinite per gl’infiniti termini ch’hanno le quantità continue; rispondesi, che gl’infiniti termini di tal figura si riducono in due mezze figure, cioè una mezza dal mezzo indietro, e l’altra mezza dal mezzo inanzi; le quali, sendo ben proporzionate, compongono una figura tonda, e queste tali mezze avendo li loro debiti rilevi in tutte le loro parti, risponderanno per sé sanz’altro magistero tutte l’infinite figure che tale scultore dice aver fatte; che ‘l medesimo si pò dire a uno che faccia un vaso al torno, perché ancora lui pò mostrare il suo vaso per infiniti aspetti102.

E il disegno con l’Ercole, inquadrato di fronte sul recto e ritratto posteriormente sul verso, sembra proprio addurre una prova tangibile di quanto teorizzato nel Trattato, quasi invogliandoci a girare più e più volte il foglio per ricostruire mentalmente l’immagine a 360°103. Oltre al Morgante, l’unico altro dipinto ad ora noto che presenta la soluzione recto-

verso è il Davide che uccide Golia di Daniele da Volterra (figg. 56-57), databile anch’esso

agli anni centrali del secolo. La genesi dell’opera in questione è particolare, giacché la duplicità del formato dipese dal committente stesso, il letterato fiorentino Giovanni della Casa, alla ricerca di una soluzione espressiva che potesse aiutarlo ad addentrarsi nel processo tecnico-creativo dell’arte. Il Della Casa, difatti, mirava a comporre un suo, personale ‘trattato della pittura’, e l’opera del pittore doveva costituirsi innanzitutto come un esercizio pittorico ‘didattico’, com’è confermatoci da un passo della Vita dell’artista nell’opera vasariana. Ma nella sua restituzione bifronte del culmine della battaglia fra i due personaggi biblici – che ne amplifica, peraltro, in modo evidente il pathos –, il Davide e Golia del Ricciarelli si affianca per comunità d’intenti all’Ercole di Leonardo, mostrando con la pratica come la pittura potesse scalzare la ‘nemica’ scultura appropriandosi della resa tridimensionale propria di quest’ultima: e forse, è direttamente collegato alla disputa del Varchi sui meriti e sul primato tra le due arti, dal momento che il mecenate aveva incontrato e conosciuto personalmente l’intellettuale conterraneo. L’ipotesi, inoltre, parrebbe essere avvalorata dal fatto che lo stesso Della Casa avesse fatto fare a Daniele un «modello d’un Davit di terra», da tradurre successivamente nella pittura double-face, a sua volta impressa non su tavola né legno, ma su ardesia, verosimilmente per conferirle quella maggior resistenza alle intemperie propria della statuaria104. Benché riconducibile allo stesso clima accademico, il Morgante

102 L. DA VINCI, Libro di pittura…, cit., vol. I, pp. 166-167. 103 S.HENDLER, Un mostro grazioso…, cit., pp. 26-29. 104 G.VASARI, Le vite…, cit., vol. V, p. 545.

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del Bronzino adduce motivazioni ulteriori, configurandosi come un lavoro culturalmente più stratificato: e tuttavia il suo legame col dibattito sul Paragone, rispetto al quale si pone come una risposta in forma iconica, è centrale e ineludibile105.

Nello specifico, col ‘Paragone’ si fa riferimento a quell’inchiesta promossa dall’intellettuale Benedetto Varchi, emersa per la prima volta durante un discorso pubblico tenuto in Santa Maria Novella nel 1547, nel contesto del quale il colto umanista pose il seguente interrogativo ai presenti: «che cos’è più nobile, la scultura o la pittura?». Se la domanda s’inseriva nel percorso già ampiamente solcato delle discussioni artistico-culturali di fine XV secolo e del successivo, la versione del Varchi ebbe una risonanza fin ad allora inaudita, e questo perché il suo promotore chiese esplicitamente ai più eminenti rappresentanti fiorentini della due fazioni avversarie – tra cui lo stesso Bronzino, Michelangelo, Cellini, Pontormo, Vasari… – di fornirgli delle motivazioni scritte delle loro opinioni, alimentando così un dibattito vivace e infervorato e incentivando il dialogo tra critica letteraria e artistica. Ragionevolmente, Bronzino – sodale dell’intellettuale toscano nell’Accademia Fiorentina, ma momentaneamente espulsovi nello stesso anno del Paragone per venirne poi reintegrato nel ’66106 – rispose al quesito del Varchi sostenendo la pittura: e tuttavia, la sua

argomentazione presentava un aspetto tronco, poiché eludeva la risposta a una questione basilare riguardante il primato tra le due arti, ossia l’eventuale possibilità da parte della pittura di sopperire alla tridimensionalità naturalmente presente nell’opera scultorea. Il pittore riserva all’incipit della sua lettera le ordinarie argomentazioni ‘filoscultoree’ addotte dai praticanti di quell’arte, seguite in un secondo momento dalle contro-argomentazioni dei suoi colleghi pittori. A un certo punto, Bronzino allude proprio alla specificità dell’’a tutto tondo’ scultoreo, riportando, secondo la medesima consuetudine argomentativa, le parole di coloro che favoreggiavano quella pratica figurativa:

105 S.HENDLER, Un mostro grazioso…, cit., pp. 29-30.

106 CARLA CHIUMMO, Bronzino e l’Accademia Fiorentina, in The Italian Academies 1525-1700. Networks of

Culture, Innovation and Dissent, a cura di Jane E. Everson, Denis V. Reidy e L. Sampson, Legenda, Cambridge 2016, pp. 258-276. Bronzino entra a far parte dell’Accademia Fiorentina nel ’41, istituzione impegnata nello studio e nella valorizzazione dell’idioma fiorentino, specialmente del lascito linguistico di Dante e Petrarca. Al tempo, l’apporto del pittore-poeta Bronzino, così come quello di altri artisti, fu deputato di minore entità ai fini del raggiungimento degli obiettivi dell’ente, nonché ‘viziato’ dall’interesse e dall’esercizio della poesia burlesca, da non dover sovrapporre all’indirizzo bembiano principale. Ciò gli costò un temporaneo allontanamento dall’Accademia: vi sarà riammesso nel ’66, preceduto dalla buona ricezione delle sue ‘tre canzoni sorelle’ composte in onore di Cosimo.

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[…] dicono che è molto più bello e dilettevole trovare in una sola figura tutte le parti che sono in uno uomo o donna o altro animale, come il viso, il petto e l’altre parte dinanzi e volgendosi trovare il fianco e la braccia e quello che l’accompagna, e così di dietro le schiene, e vedere corrispondere le parti dinansi a quelle dallato e di dietro, e vedere come i muscoli cominciano e come finiscano, e godersi molte belle concordenzie, et insomma girandosi intorno ad una figura aver intero contento di vederla per tutto; e per questo essere di più diletto che la pittura107.

Ed è più o meno qua che il suo discorso s’interrompe, senza essere seguito dalla contro-tesi prevista: ragion per la quale il Varchi considerò la sua risposta «non fornita», quando gli esiti scritti del dibattito furono per la prima volta pubblicati nel libretto dedicato a Firenze nel ’49. Ma il Morgante, dipinto negli anni immediatamente successivi, nella sua curiosa proposta bifronte sembra fornire una risposta visiva all’annosa domanda, come se le parole non fossero state bastanti a illustrare le motivazioni della superiorità della pittura, e Bronzino si fosse riservato di rispondere a fondo col medium ritenuto più idoneo: e, si suppone, non per incapacità argomentative, dal momento che questi, egli stesso poeta nonché esperto conoscitore della letteratura toscana, ‘con le parole ci sapeva fare’108; o forse giocò la carta pittorica per ‘ripicca’, in seguito alla negazione del suo status di letterato, sancita dalla sua estromissione dall’Accademia109.

Abbiamo precedentemente accennato alla tipologia dell’episodio narrato del dipinto: Morgante è ritratto nella veste di ‘uccellatore’, una delle sue attività abituali al servizio della famiglia Medici. Tale era colui che andava a caccia di uccelli, spesso coadiuvato da un gufo che fungeva da ‘zimbello’, e l’esercizio di questa pratica venatoria, considerata meno nobile di altre forme più cruenti, sembra ben prestarsi alla presunta natura inferiore del nano e alla necessità cortigiana d’inscenare spettacoli con cui intrattenersi110. I documenti dell’epoca

107 VINCENZO BORGHINI, BENEDETTO VARCHI, Pittura e scultura nel Cinquecento, a cura di P. Barocchi,

Sillabe, Livorno 1998, p. 67.

108 S.HENDLER, Un mostro grazioso…, cit., pp. 23-26. Cfr. nota 127, p. 62, per indicazioni bibliografiche sulla

produzione letteraria del Bronzino.

109 CARLO FALCIANI, Della pittura sacra, ma anche di «fianchi, stomachi, ec.», in Bronzino. Pittore e poeta…,

cit., p. 281.

110 Poiché praticata con l’ausilio di insidie dalle categorie più infime della popolazione per fini di sussistenza,

l’aucupio – la caccia agli uccelli – è sin dall’antichità considerata una declinazione ‘di serie B’ del nobile diletto della venatio. Ciò trova una conferma nella sostanziale assenza della raffigurazione della stessa nella copiosa pittura vascolare ellenica, mentre vi si trovano sovente rappresentati episodi della caccia mitologica, come quella di gruppo al cinghiale calidonio; anche l’epica omerica dimostra scarsi interesse e apprezzamento nei confronti dell’aucupio, la quale, invero, viene etichettata come pratica meschina (BIANCA MARIA

SACCHETTI, Venatio e deformitas nel Bronzino. Radici classiche dell’iconologia del nano Morgante, in Il Nano Morgante…, cit., pp. 17-18).

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recano testimonianze degli impieghi venatori dei nani medicei nella pratica dell’’uccellagione’, come una nota del ’44, in cui si fa riferimento a quest’attività praticata da un anonimo nano, probabilmente riconducibile a Morgante111.

Sul recto del dipinto, Morgante è ritratto frontalmente, nudo, nell’attimo che precede l’inizio della battuta di caccia, e accoglie sul suo braccio destro il compagno gufo, la cui presenza servirà ad attirare le prede. Una farfalla dal pronto tempismo gli svolazza intorno a coprirne il sesso, preceduta poco più avanti da un altro esemplare, mentre un altro uccello – forse una ghiandaia –, apparentemente allertato dal pericolo imminente, occupa il margine in alto a destra dell’opera, planando verso la coppia. Il verso illustra l’esito della sessione venatoria: Morgante, inquadrato ora tergalmente, impugna uno dei ‘panioni’ – i ramoscelli cosparsi di pania appiccicosa ricavata dalle bacche del vischio, che intrappolano le prede incuriosite dalla presenza del gufo, legato a una corda nelle loro vicinanze – ed esibisce il bottino strinto nella mano destra, un gruppo eterogeneo di uccellini composto da fringuelli, ortalani e pettirossi; il suo piccolo aiutante si è tramutato in una civetta, appollaiata sulla sua spalla sinistra, i cui vividi occhietti c’invitano a prendere parte alla dinamica illustrata, quasi a favorire una riflessione da parte nostra sulla dichiarazione nascosta di cui il dipinto si fa portavoce. Difatti, dato il diretto coinvolgimento del Bronzino nell’inchiesta del Varchi e la sua stessa frequentazione insieme a questi dell’Accademia Fiorentina, possiamo escludere che il Morgante dovesse esclusivamente illustrare un episodio della pratica dell’uccellagione, per quanto quest’attività fosse particolarmente gradita da Cosimo e i suoi figli. Contrariamente ai due esempi citati in precedenza, in cui il doppio formato recto-verso concorreva ‘solo’ a sviluppare un’immagine bidimensionale ‘a tutto tondo’, Bronzino sfrutta appieno le potenzialità della duplicazione della superficie dipinta, impadronendosi non solo della dimensione spaziale, ma anche di quella temporale, riuscendo nell’obiettivo di dispiegare un’azione narrativa. La scultura viene sconfitta: la pittura non solo riesce a modellare immagini tridimensionali in modo parimenti efficace – tramite, tra l’altro, l’impiego di due soli punti di vista, come sosteneva Leonardo –, ma è in grado persino di raccontare lo svolgimento di una vicenda, mostrandone l’inizio e la conclusione: sintomatica, a questo proposito, l’assenza sul verso delle due fugaci farfalle, che ribadisce l’effetto illusorio dello scorrere del tempo112. Vorrei infine suggerire come la stessa scelta

111 Cfr S.HENDLER, Un mostro grazioso…, cit., p. 20 per l’estratto del documento risalente al 2 novembre

1544 in cui si fa riferimento al nano cacciatore.

112 Ivi, pp. 20-23, 30. In una tacita convalida della sua corrispondenza col Paragone, nella mostra monografica

ordinata a Palazzo Strozzi nell’autunno del 2010, il Morgante del Bronzino venne studiatamente collocato al centro d’una sala, circondato da marmi coevi (A.NATALI, Storia di lingue…, cit., p. 9).