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Giudicava il caso della vedova, giudicava il caso dell’orfano.

Si tratta di una formula avente una specifica funzione narrativa, di introdur- re cioè l’arrivo di un personaggio (prima Koṯar in KTU 1.17 V 7-8, poi Puġat in KTU 1.19 I 23-25), portando allo sviluppo successivo della narrazione. L’e- spressione, parte del repertorio dello scriba e quindi riflesso delle convenzioni valide al suo tempo, può aiutarci a capire se è possibile che Danil sia in effetti un re.

22Margalit è fortemente contrario all’identificazione di Danil come re. Egli crede che mlk

non sia un unico termine, ma sia invece composto ml (dalla radice araba M(Y)L) e dall’enclitica -k; afferma inoltre la scarsa probabilità di trovare in ugaritico un epiteto tanto distante dal nome del personaggio, ma possiamo smentire tale affermazione dall’uso di mlk nel poema di Kirta, come afferma Wright (Wright 2001, p. 185).

L’importanza della protezione di categorie più deboli quali appunto le ve- dove e gli orfani, ma anche i poveri in generale, è evidente in tutto il Vicino Oriente antico23. Essa dipende dalla volontà del sovrano, che ha il dovere di

proteggere il suo popolo e di intervenire all’interno della sfera sociale. Le testi- monianze sono antiche, a partire dalle riforme di Urukagina di Lagash intorno al 2400 a.C., che condanna l’ingiustizia nei confronti di vedove e orfani. Nel co- dice di Hammurabi il forte non deve opprimere il debole affinché possa regnare Šamaš, divinità del sole e arbitro della giustizia.

In Egitto, sebbene manchino testi prettamente legali, notiamo la stessa cosa. Nelle istruzioni di Merikare troviamo indicazioni sul comportamento che il re deve tenere: tra le altre cose, non deve opprimere le vedove. Un simile riguardo nei confronti degli strati più bassi della società si riscontra anche nelle istruzioni di Amenemhet e nel papiro Harris I, dove Ramses III si rivolge al dio Ptaḥ esaltandosi per aver protetto vedove e orfani. E ancora una volta la giustizia è amministrata da un dio solare, Ra, da cui il faraone discende.

Sembra quindi naturale affermare che nella formula usata da Ilimilku si racchiuda una funzione che è tipica del sovrano vicino-orientale, tanto più che nello stesso nome di Danil vi è un riferimento alla giustizia24.

Tuttavia Dressler sostiene che questo non basti a fare di Danil un re e che i verbi potrebbero invece essere dei plurali, riferiti ai nobili raccolti di fronte alla porta urbica. L’intermezzo ha però la funzione di introdurre un nuovo episodio in cui è Danil il protagonista, insieme al dio artigiano che gli fa visita per donargli l’arco che egli stesso ha costruito. All’arrivo di Koṯar il soggetto è sicuramente Danil, che vede attraverso mille acri il sopraggiungere della divinità, interrotto nel bel mezzo della sua attività di giudice.

23cfr. Fensham 1962

24I nomi di Danil e Danatay derivano infatti dalla radice D-N = “giudicare”; cfr.

Dressler afferma anche che “The function of judging the cases of the un- derpriviledged per se is not a demonstration of righteousness but a neutral function in this text since it gives no indication whatever as to the outcome of these trials”25 e porta questo come una prova del fatto che “Dnil is a village

elder or chief”26, come crede anche Parker27. Ma ṯpṭ è in effetti molto spesso

utilizzato sottintendendo la positività dell’azione, nel senso cioè di “giudica- re bene, giustamente”. Tra l’altro, indipendentemente dalla giustezza o meno delle decisioni di Danil, egli è qui dipinto in una delle funzioni spettanti al sovrano28. Che il re poi possa sbagliare o non attendere alle sue mansioni,

questo, come vedremo dalle parole rivolte a Kirta da parte del figlio Yaṣṣib, è certamente possibile, ma non è il caso di Danil.

I termini utilizzati hanno una particolare valenza, come mostra Fensham nella sua analisi dell’ugaritico ṯpṭ29. Secondo lui una sfumatura semantica del

termine sarebbe proprio relativa al governare. Ritroviamo il vocabolo anche in un testo più volte menzionato, KTU 1.108, in cui El è detto appunto ṯpṭ.

Ma soprattutto una formula analoga a quella utilizzata per Danil è presente nel poema di Kirta, dove appare in un contesto completamente differente. Nel reclamare per sé il trono Yaṣṣib rimprovera al padre proprio di non aver giudicato il caso della vedova e di non aver amministrato la giustizia per il povero, compiti che evidentemente gli spettano in virtù del suo ruolo:

25Dressler 1979, p. 154. 26Ivi, p. 153.

27Parker 1989

28Sul concetto di regalità a Ugarit cfr. Wyatt 1996a e Wyatt 1999.

29Il termine ṯpṭ viene usato alternativamente come “giudicare bene” e “governare”. In ebraico

il verbo ט ַפ ָשׁ e il sostantivo ט ָפּ ְשׁ ִמ si sono specializzati in ambito giuridico, mentre in ugaritico il sostantivo mṯpṭ, come ha fatto notare Stamm, ha molto spesso il significato di “governo”. Cfr. Fensham 1984.

ltdn dn almnt l tṯpṭ ṯpṭ qṣr npš30.

Non hai giudicato il caso della vedova, non hai giudicato il caso del povero.

Danil è quindi un re, che del sovrano svolge le funzioni. Oltre ad avere un ruolo nel rito e a porgere offerte agli dèi, si mostra giudice giusto nell’occuparsi della condizione di orfani e vedove. Egli si preoccupa anche della fertilità della terra, compito che non è estraneo, ad esempio, al sovrano egizio, che deve eseguire riti connessi all’agricoltura e al buon esito del raccolto. Abbiamo già visto come il collegamento con la fertilità sia fortemente presente nel concetto vicino-orientale di regalità. E anche se Danil fallisce nel contrastare la siccità nel paese, causata dalla morte del figlio, di cui è ancora inconsapevole, è chiaro che quello di propiziare il rigoglio dei campi è un suo compito. Non a caso, appena si accorge del problema, cerca subito di porvi rimedio. Ma ci riuscirà soltanto dopo aver sepolto e compianto Aqhat.