È ancora una volta il Regozza, nel catastico da lui stilato, a fornirci le coordinate di base da cui partire per ricostruire l’aspetto dell’aula cinquecentesca. Dopo aver elencato le principali parti costituenti il complesso e relative adiacenze, il notaio ricorda che nel 1575 Santa Croce era dotata di ben cinque altari, ovvero “Altar grande, Altar de S. Lorenzo, S.
Antonio de Viena, et Santa Lucia […] et laltar de S. Hieronimo”63. Si tratta di un numero indubbiamente consistente per l’epoca, che colpisce ancor di più se comparato con la situazione delle altre chiese confraternali bellunesi, sia intra che extra moenia. Queste, infatti, con la sola eccezione di Santa Maria Nova e Santa Maria dei Battuti, non poterono permettersi, in media, più di due o tre mense ciascuna, per ovvie ragioni economiche e di spazio. La disponibilità finanziaria di sodalizi raggruppanti una specifica categoria di artigiani era senza dubbio inferiore rispetto a quella delle tre scuole di devozione, più popolose poiché alimentate esclusivamente da fini spirituali (e non professionali) tangenti tutta la popolazione e non solamente una sua ristretta cerchia.64
Agli inizi del Settecento il vescovo Rota, negli atti di visita, riprese il rapido elenco del Regozza e lo integrò, specificando per ognuno degli altari collocazione e decorazione. Entrando in chiesa attraverso l’ingresso principale, un ipotetico fedele avrebbe trovato di fronte a sé, sulla parete di fondo, tre altari: al centro, sopraelevato all’interno del vano presbiteriale, era situato il maggiore, dedicato chiaramente alla Santa Croce; ai suoi lati, appena al di fuori dell’area sacrale, si trovavano invece quelli di Santa Lucia e San Lorenzo, rispettivamente “dalla parte laterale verso settentrion” e “dalla parte laterale
verso mezodì”.65 Era questa un’impostazione assai diffusa nella Belluno medioevale, il cui impiego divenne a tal punto sistematico dal XIV secolo in poi, da risultare quasi una scelta obbligata per ogni luogo di culto che avesse più di due altari. Essa assunse dunque i connotati di una disposizione-tipo, riproposta di chiesa in chiesa e declinata secondo le esigenze particolari delle singole comunità, che talvolta furono in grado di svilupparla,
63 ASB, Confraternite e corporazioni soppresse, b. 28, c. 1r, Catastico Regozza.
64 Si consideri inoltre che le scuole di arti e mestieri bellunesi contavano tra le loro fila un numero esiguo di
persone, spesso inferiore rispetto ai più popolosi centri del veneziano. Pochi erano infatti gli artigiani che si specializzavano nel medesimo settore, essendo la maggior parte dei mercati circoscritti all’ambito locale.
incrementando il numero di mense presenti sulle pareti perimetrali della navata. Non pare un caso che i tre arredi sopra menzionati costituissero il nucleo più antico di S. Croce. Innalzati alla metà del Trecento in concomitanza con il complesso originario e assieme a questo consacrati nel 1386, essi rappresentarono fin da subito una sorta di fulcro attorno cui si assestarono, di conseguenza, il resto dell’edificio e le sue adiacenze.66
Sorprendentemente, il redattore omette qualsiasi dettaglio in merito all’aspetto del maggiore, andando in netta controtendenza agli allora vigenti dettami post-conciliari, che tacitamente prescrivevano di ispezionarli con accuratezza, dato il ruolo fondamentale assegnatogli nella rinnovata ottica cristiana. Viene quindi spontaneo chiedersi quali siano state le motivazioni alla base di un’esclusione così rilevante, trattandosi certamente del frutto di precise scelte dello scrivente e non di una banale dimenticanza. Due sembrano essere gli scenari più logici a riguardo. Da un lato, è ipotizzabile che il vescovo si sia concentrato maggiormente su altri dettagli dell’edificio poiché l’altare in sé non presentava alcun tratto distintivo rispetto alle tipologie più comuni e diffuse nel Bellunese, né particolari qualità artistiche che lo rendessero degno di essere messo in risalto in un simile contesto. Dall’altro, è invece supponibile che la descrizione della mensa principale non sia stata inclusa nella relazione poiché ritenuta non necessaria dal prelato, essendo essa già perfettamente adeguata ai ferrei canoni diocesani in materia di culto. Tuttavia, in assenza di ulteriore documentazione, non è possibile propendere né per la prima, né per la seconda ipotesi; pertanto, il nostro compito si limita esclusivamente a sollevare la questione e a vagliare eventuali soluzioni. In anni recenti, le ricerche di alcuni studiosi sembrarono imprimere una svolta decisiva nella ricostruzione dell’aspetto dello spazio destinato alla celebrazione. Il testo del 1977 di Dal Mas e Giacobbi mise in evidenza come parte degli altari cittadini (probabilmente i pezzi migliori) non furono abbattuti assieme ai rispettivi edifici ai primi dell’Ottocento, ma, al pari delle opere pittoriche e scultoree, vennero venduti, dietro pagamento di somme più o meno ingenti, ai migliori offerenti, che si identificarono in genere con i superstiti ordini religiosi.67 Forti di tale notizia, in tempi non molto lontani, alcuni esperti credettero di aver rintracciato il disperso arredo sacro e lo identificarono con quello presente nella cappella laterale sinistra della chiesa di Santa Maria Assunta di Castion, oggi conosciuto come Altare del Crocefisso o delle Anime del
66 ASB, Confraternite e corporazioni soppresse, b. 28, c. 1r, Catastico Regozza: “Qual Giesia con quatro
cinque Altari cioè Altar grande, Altar de S. Lorenzo, S. Antonio de Viena, et Santa Lucia fu consacrata l’anno MCCCLXVIII adì XVI Aprile Indition VI, come nel privilegio che è in la Scuola”. Non vengono sfortunatamente fornite notizie in merito alla data precisa di innalzamento di questi tre altari.
Purgatorio. Si trattava tuttavia di un errore, generato da una sbrigativa interpretazione di un passaggio, peraltro chiaro, delle Memorie di don Flaminio Sergnano, in cui l’autore recitava:
“Nel estate del 1809 si fece dal Demanio serrare le Chiesa di Santa Croce e
poi li primi dell’anno 1810 fu portata all’incanto la Chiesa di San Giorgio venduta a Bazole, e l’altare a Castion”68
Ad una analisi più attenta, si comprende, infatti, che, a seguito delle soppressioni napoleoniche, fu la mensa di San Giorgio e non quella di Santa Croce ad essere traslata nella parrocchia castionese, in sostituzione di una struttura lignea secentesca che non più si addiceva al solenne gusto neoclassico del ristrutturato edificio. Tale lettura trova ulteriore conferma nei recenti studi condotti da F. Vizzutti, all’interno dei quali egli è stato in grado di illustrare, attraverso valide prove documentarie, l’origine dell’altare in questione e di dimostrare come la sua genesi fosse completamente estranea all’ambiente dei disciplinati.69 La questione delle fattezze dell’arredo resta quindi aperta, in attesa di più sistematiche ricerche che colmino questa lacuna ostacolante la piena comprensione dell’assetto del presbiterio, inclusa la sistemazione delle opere d’arte ivi collocate.
La relazione di visita pastorale non si dilunga eccessivamente nemmeno nel descrivere gli altari di Santa Lucia e San Lorenzo, ma, nonostante la sua sinteticità, essa offre comunque qualche utile spunto di riflessione. Al di là di presumibili variazioni di dettaglio, essi dovevano apparire simili, se non identici, nell’impostazione, essendo entrambi rialzati tramite gradini dal piano di calpestio e “coperti da due capellette sostenute con due
colonne, sopra quali sono due statue di S. Pietro e S. Paolo”.70 Una simmetria la loro, determinata quasi certamente dalla volontà di rendere l’imbocco del presbiterio il più armonioso e bilanciato possibile, al fine di incorniciare al meglio l’elemento che dal Concilio di Trento in poi rappresentò il centro visivo del fedele: l’altar maggiore. Non pare un caso, infatti, che le due cappelle subiscano dei forti rimaneggiamenti proprio a partire dalla seconda metà del XVI secolo, nel pieno cioè della Controriforma. Le carte della
68 Le memorie di don Flaminio Sergnano, a cura di L. Alpago Novello, in ASBFC, XI, 65 (1939), p. 1126. 69 F. VIZZUTTI, Le chiese della parrocchia di Castion: documenti di storia e d’arte, Belluno 2005, pp. 66-68.
Il Vizzutti reperisce un istrumento redatto dalla confraternita del Suffragio in cui si registra che nel 1709 i Castaldi della scuola, in ossequio alle disposizioni testamentarie di mons. Francesco Fulcis, fanno eseguire questo altare nella chiesa cittadina di San Giorgio delle Anime Purganti. La sua decorazione viene poi ultimata solamente nell’aprile 1712, con la collocazione di un crocefisso opera dello scultore Antonio Tarri, il tutto a spese de Pietro Coraulo quondam Iseppo.
confraternita registrano infatti come l’ente gestore decise di attuare, non si sa se per propria volontà o per imposizione vescovile, una serie di interventi di carattere architettonico, oltre che artistico, volti a uniformare tra di loro entrambe le strutture e a conformarle alle nuove esigenze devozionali. Per quel che riguarda l’altare di San Lorenzo, il primo dei due ad essere rimaneggiato, purtroppo rimangono solamente le parti relative alle battute finali dei lavori, quelle cioè concernenti la fornitura della pala e la doratura dei differenti componenti.71 Sembra molto probabile che le precedenti delibere del consiglio in materia fossero contenute nel libro degli anni 1490-1550, oggi disperso; nonostante ciò, è tuttavia possibile dedurre da vari passaggi sparsi nel testo a noi giunto che la mensa esaminata dal Rota nel Settecento coincideva con il restauro cinquecentesco. Situazione diametralmente opposta si prospetta invece per l’altare di Santa Lucia, per il quale si conserva una documentazione più ampia e completa, che annota ad una ad una le varie fasi di adeguamento, dalla creazione ex novo del “Nichio” 72 alla realizzazione degli “ornamenti”73, passando per l’analisi delle proposte progettuali dei diversi artigiani
locali.74 Non molti sono purtroppo i dettagli aggiuntivi che si riescono a ricavare dai manoscritti cinquecenteschi, dando il testo delle deliberazioni per scontati numerosi particolari, o facendo esso riferimento a vicende altrove menzionate. Rispetto alla visita del Rota, difatti, si inferisce tra le righe che si trattava di altari in gran parte lignei, non marmorei, realizzati secondo le tecniche tradizionali da carpentieri autoctoni spesso di poco conto, di cui oggi non resta traccia alcuna (è il caso di Prosepero Artuino e il figlio Zuanne, artefici dell’altare di Santa Lucia, e di Paulo e Francesco Mareso, candidatisi per il medesimo incarico ma poi scartati75). Per conferire allo spazio della celebrazione il giusto decoro, gli elementi architettonici erano poi infine rifiniti con articolati intagli a racemi e foglie e ulteriormente impreziositi tramite doratura, assecondando un gusto all’epoca già pienamente diffuso e consolidato in area bellunese. Un riscontro/conferma della piena aderenza dei due altari a questo stile si ha nel fatto che il progetto di ristrutturazione venne approvato e, in un certo senso, supervisionato dal confratello Battista Auregne, membro di una delle più note famiglie di intagliatori della zona, che dal Seicento darà piena dignità a tale maniera.76
71 ASB, Confraternite e corporazioni soppresse, b. 24, f. 1, cc. 39r, 55r, 56r, 58v-59r. 72 Ivi, cc. 181v-182r.
73 Ivi, cc. 181v-182r, 195v-196r. 74 Ivi, cc. 185v-186r.
75 Ibid.
L’aula di Santa Croce era poi dotata di altri due altari, intitolati a S. Girolamo e S. Antonio Abate, santi il cui culto era particolarmente sentito in ambito montano, essendo loro dedicati svariati luoghi devozionali, autonomi e non.77 Addossati alle pareti laterali rispettivamente di nord e sud, essi si fronteggiavano l’un l’altro nel mezzo della chiesa, a livello quindi dell’ingresso laterale.78 Come già anticipato in precedenza, questa loro particolare posizione all’interno della navata è indicativa del fatto che essi non erano previsti nel primissimo progetto, ma furono piuttosto delle aggiunte successive rispetto al nucleo più antico, orbitante intorno al presbiterio. Il primo ad essere innalzato fu quello di S. Antonio Abate. È il Piloni a fornire i dettagli della vicenda, annotando tra le pagine della sua Historia che nel 1365 il “Capitano alla custodia del Castello”, Centoni de Calcarrosi, “fece per sua devotione edificare la Cupola et Altare di S. Antonio nel tempio della Croce
nella contrada di Rudo, dotandolo di buona somma de danari per il Sacerdote, che doveva celebrar sopra questo Altare”.79 Dal rapido accenno dello storico si apprende che l’arredo fu annesso al complesso originario ancor prima della consacrazione vescovile (1386), quando, probabilmente, il fabbricato era ancora distante dall’essere completato in tutte le sue parti. Si trattò presumibilmente di una modifica che venne attuata in itinere, in conseguenza alla proposta di un cittadino influente che la neonata confraternita, al tempo impegnata ad ampliare il consenso accordatole ai vari livelli sociali, non disdegnò senz’altro di accettare. In ogni caso, il lasso di tempo che intercorse tra la sua edificazione e quella delle tre mense al lato est dovette essere quindi probabilmente molto ridotto, considerando che il periodo immediatamente successivo alla posa della prima pietra (1356 circa) fu dedicato alla realizzazione della struttura esterna e non all’arricchimento dei suoi interni. Purtroppo, la completa decontestualizzazione del sopracitato episodio all’interno del testo del Piloni impedisce di trarre ulteriori informazioni oltre alle già analizzate coordinate di base, in primis di definire la figura del committente, del quale, allo stato attuale delle ricerche, si conoscono solo nome e professione.
Nessuna testimonianza analoga si è invece conservata per l’altare di S. Girolamo. L’unico dato certo oggi a nostra disposizione riguarda la sua consacrazione, evento che, a detta del Regozza, risalirebbe al “ultimo setembrio MCCCCXXXVIII”. Le circostanze del rinvenimento della notizia, esplicitate dallo stesso notaio nelle successive righe, inducono a
77 F. TAMIS, Il culto dei santi nella Diocesi di Belluno, Belluno 1986, pp. 7-8.
78 ACVB, Visite pastorali, b. 18, f. 2, c. 52r: “Altar di S. Antonio Abate posto à mezo la chiesa, dalla parte
lateral verso mezodì […]. Dentro la porta laterale verso settentrione, a man destra, dirimpetto a quel di S. Antonio Abate, vi è l’altare di S. Girolamo”.
ritenere attendibile la data in questione; il fatto, infatti, che essa sia stata desunta da una fonte di prima mano (un’antica nota manoscritta, conservata presso l’archivio confraternale) costituisce una condizione sufficiente, seppur minima, per accogliere l’indicazione.80 Al di là di ciò, una ricostruzione maggiormente dettagliata del contesto e della cronologia degli interventi è al momento inattuabile, pregiudicando così una piena comprensione della storia degli interni chiesastici nei primi secoli di vita.
Dalla relazione di visita emerge che il più ricco e pregevole dei due altari laterali era proprio quello di S. Girolamo, esibendo esso non solo opere di maggior qualità (una pala di Francesco Vecellio rappresentante La Vergine con il Bambino e i Santi Girolamo e Pietro), ma anche una struttura per certi versi innovativa. Infatti, pur condividendo con gli altri altari della navata l’impostazione di fondo, esso si distingueva nettamente per il trattamento della parte superiore. La copertura della mensa venne realizzata con una tradizionale “capella”, associata però ad un innovativo sistema di supporto ad arpesi, pressoché invisibile e molto meno invasivo rispetto ai più comuni apparati compositi di colonne e trabeazioni. 81 L’impressione, come puntualmente fissa il vescovo, doveva essere quella di un elemento sospeso nell’aria, a metà altezza, inserito con l’effetto di alleggerire l’intera struttura ed evitarle quel senso di oppressione che talvolta caratterizzava gli altari più articolati.
L’antistante altare di S. Antonio Abate era, per contro, quello che tra tutti presentava il tono più dimesso. Realizzato in origine su modello dei preesistenti arredi della zona presbiteriale, esso venne fortemente penalizzato dalle risistemazioni del periodo controriformistico, che lo intaccarono nelle dimensioni e nella decorazione. In occasione della seduta del 31 marzo 1555, i gastaldi della confraternita stabilirono infatti di “redurre
l’altar, et capella […] in nova forma removendo quella capella qual occupa troppo la chiesa, et redducendo le fegure de legno che son sopra della capella nel muro in forma de pala segondo uno dessegno ivi mostrado per li Castaldi”.82 Erano questi gli anni del vescovado di Giulio Contarini (1542-1575), che, succeduto al celebre e intransigente zio Gasparo, stava profondendo il massimo delle proprie energie nell’applicare i dettami tridentini all’intera diocesi, ingerendosi addirittura nella vita e attività delle scuole, ambiti storicamente indipendenti dal potere ecclesiastico. In tale clima, è presumibile che il rimpicciolimento della struttura sacra in Santa Croce sia stato dettato, ancora una volta,
80 ASB, Confraternite e corporazioni soppresse, b. 28, c. 1r, Catastico Regozza. 81 ACVB, Visite pastorali, b. 18, f. 2, c. 52r.
dalla volontà di rendere esplicita la sottintesa gerarchia esistente tra i differenti altari, marcando quindi l’auspicato divario tra il maggiore e i minori, per i già citati motivi. Tuttavia, anche in questo caso, non rimane traccia né del progetto menzionato nella deliberazione, né, tantomeno, del nome del suo esecutore, elementi da cui si sarebbe di certo potuto ricavare dati utili non solo allo studio della chiesa, ma anche del contesto artistico dell’epoca, ad oggi in gran parte ancora sconosciuto.
Ognuno di questi altari verrà regolarmente impiegato dalla Scuola di Disciplina per le proprie funzioni religiose fino alle soglie del XIX secolo, quando la bufera napoleonica annullerà completamente il loro motivo di essere. Con il decreto del 23 marzo 1806 il governo italico soppresse definitivamente le confraternite e le corporazioni delle province venete, ritenendole ambiti eccessivamente privilegiati nella nuova compagine statale caldeggiante la piena uguaglianza. Fu questa la prima di una serie di provvedimenti che portò al definitivo sradicamento di istituzioni che avevano per secoli guidato le coscienze dei fedeli e dominato la vita economica, sociale ed artistica della città. Una vera e propria
escalation quella del nuovo Stato, che culminò nella decisione del successivo 25 aprile di
avocare a sé tutti i beni appartenenti ai sodalizi laici (immobili, capitali, opere), intaccandone, in un certo senso, anche la memoria. A risentirne fu soprattutto l’inestimabile patrimonio artistico contenuto in chiese e scuole, che venne letteralmente strappato dal contesto di origine e trapiantato in ambiti ad esso completamente estranei per tipologia ed intento. I pezzi dai funzionari statali ritenuti più pregiati furono destinati alla creazione di prestigiose raccolte museali sul territorio italiano e non; in particolare, i dipinti di Santa Croce trovarono posto all’interno delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, convertendosi essenzialmente in strumenti didattici e perdendo la loro tradizionale destinazione devozionale. Tuttavia, tale sorte spettò solo ad un gruppo molto ristretto di dipinti; si pensi infatti che dall’intero Dipartimento della Piave vennero inviate alle varie pinacoteche appena 22 opere (di cui tre riferibili a Santa Croce), apportando quindi un contributo marginale rispetto a centri nevralgici come Padova e Venezia stessa. La maggior parte venne infatti spartita tra collezionisti privati, che le acquistarono direttamente dal Demanio stesso, tramite aste indette con lo scopo precipuo di costituire un capitale di partenza per la neonata compagine governativa. Per alcune di loro iniziò così una vita molto travagliata, fatta di continui passaggi di proprietà e sede, mentre di altre si persero sfortunatamente del tutto le tracce.83 Le chiese confraternali, ormai percepite come
83 S. CLAUT, Il furto delle opere d’arte nel 1797 e la dispersione del patrimonio artistico, in ASBFC, LXIX,
involucri vuoti ed obsoleti, vennero in molti casi trasformate e adibite alle più disparate destinazioni d’uso, o, peggio ancora, completamente abbattute per lasciare spazio a nuove strutture rispondenti alle emergenti esigenze di una società in forte mutamento. Quest’ultimo fu purtroppo il destino di Santa Croce, rasa al suolo intorno al 1830 al fine di agevolare la viabilità cittadina. Già nel 1820 la Commissione dell’Ornato Pubblico aveva infatti avvertito la necessità di costruire una nuova strada per favorire l’accesso al capoluogo dal porto del fiume, ancora punto di forza per l’economia bellunese. Il tracciato fu studiato in modo tale che la via “non fosse per superficie priva in gran parte della
benigna influenza del sole”, ma “esposta ai raggi di questo pianeta” per “salvarla così dalle conseguenze del freddo e dai ghiacci”. La demolizione della chiesa e di costruzioni
limitrofe (casa Tibolla e le antiche mura) sembrò quindi alla suddetta Commissione un atto indispensabile a disegnare un tracciato rispondente ai citati requisiti minimi (fig. 11).84 Uniche strutture superstiti dell’intero complesso furono il palazzetto medioevale e la casa