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LE PALE D’ALTARE E IL MARTIRIO DI SANTA LUCIA DEL VERONESE

2. LA DECORAZIONE DELLA CHIESA

2.1 LE PALE D’ALTARE E IL MARTIRIO DI SANTA LUCIA DEL VERONESE

Incrociando i dati desunti dalle più volte citate visite pastorali, con i documenti di origine confraternale, emerge che gli altari minori presentavano nell’apparato decorativo una medesima impostazione, non dissimile da quella in uso in altri edifici di culto bellunesi. Come ricorda il provvedimento concernente la risistemazione della mensa di S. Antonio, nel XVI secolo comune a tutti era l’esistenza, alla sommità della “capella”, di una o più sculture lignee raffiguranti dei santi.4 L’unica eccezione era rappresentata dall’altare di S. Girolamo, la cui particolare strutturazione impediva di aggiungere nella parte superiore un eccessivo carico di peso, che avrebbe inevitabilmente portato ad un suo cedimento. Pare tuttavia plausibile il fatto che esse vennero gradualmente eliminate a partire dalla metà del Cinquecento, e le figure dei santi inglobate all’interno delle pale che da allora in poi sempre più frequentemente si andarono commissionando agli artisti locali. Nella relazione di visita del vescovo Rota (1723) si registra infatti la presenza solo di alcune di queste sculture, in particolare di quelle ritraenti S. Pietro e S. Paolo soprastanti gli arredi all’imbocco del presbiterio; le altre dovettero forse essere accantonate o, peggio ancora, distrutte nel periodo tridentino. Non ne rimane dunque oggi la minima traccia e tentare di ritrovare i pezzi superstiti appare un’operazione pressoché impossibile, dal momento che, in occasione delle soppressioni napoleoniche, non venne mai redatto dai funzionari del Demanio locale un elenco completo ed esaustivo di tutte le suppellettili artistiche (pittoriche e scultoree) presenti all’interno di Santa Croce. Nella documentazione ottocentesca superstite maggior peso viene infatti dato ai dipinti, probabilmente ritenuti più pregevoli e funzionali a realizzare gli obiettivi dello Stato rispetto a tradizionali figure di martiri uscite da anonime botteghe autoctone, che ne sono quasi sempre omesse.5

Altrettanto povere, se non nulle, sono le notizie riguardanti l’originaria decorazione dell’area delimitata da mensa e dossali. Risalire alla tipologia e all’aspetto dei manufatti tre e quattrocenteschi che qui trovarono posto fino all’avvento dell’epoca moderna, apporterebbe di certo un contributo decisivo nel comprendere come si evolse, nel passaggio da un periodo storico all’altro, il rapporto tra confraternite e arte e, più

                                                                                                               

4 ASB, Confraternite e corporazioni soppresse, b. 24, f. 1, c. 31v. Recita la parte: “[…]Reducendo le figure

de legno che son sopra della capella nel muro in forma di pala […] et parendo mutar le figure che sono sopra le altre capelle”.

5 BCB, ms. 411, Elenco delle pubbliche pitture della città di Belluno, p. 455; BCB, ms. 873, Elenco delle

specificatamente, come mutarono le richieste di questo particolare tipo di committenza in relazione alle esigenze spirituali e liturgiche che venivano a mano a mano emergendo dal basso, o imponendosi dall’alto. Un tale proposito implicherebbe però l’avvio di un’indagine di tipo contrastivo che, di fatto, esula i limiti della presente ricerca, e che sarebbe resa ancor più difficoltosa dallo stadio primitivo a cui si trovano attualmente gli studi sull’altaristica bellunese. L’adeguamento alle prescrizioni della Chiesa riformata fu un percorso lungo e faticoso, che richiese, soprattutto nel campo della suppellettile, grande perseveranza da parte dei vescovi che si succedettero al governo della diocesi di Belluno. L’estirpazione di tradizioni artistiche secolari ritenute dalle gerarchie poco appropriate alla nuova morale venne infatti portata a completo compimento solo nel Seicento avanzato, quando si assistette, con notevole ritardo rispetto ai centri propulsori, alla definitiva affermazione della pala dipinta su tela. Com’è noto, isolamento geografico e culturale giocarono un ruolo di prim’ordine nel rallentare i processi innovativi, tanto che alla metà del XVI secolo sporadici furono i casi di pronta attuazione dei locali decreti sinodali in materia di opere. Le visite pastorali post-conciliari registrano, infatti, una realtà molto più poliedrica e articolata rispetto al quadro uniforme delineato dalla saggistica, fatto sì di dipinti votati al pietismo, ma anche (e soprattutto) di opere conservatrici, ancora legate alle consuetudini gotiche e rinascimentali.6 I raffinati ed intellettualistici sperimentalismi importati dall’aggiornata Venezia non trovarono immediatamente terreno fertile, anzi, assunsero i connotati di eventi straordinari nel panorama provinciale del secondo Cinquecento. I nuovi stimoli richiesero infatti molti anni per essere assimilati e rielaborati dagli artisti autoctoni, che rimasero quindi tenacemente radicati sulle forme arcaiche meccanicamente tramandate dalle modeste botteghe familiari presso cui essi svolgevano il proprio apprendistato. Talvolta, si approdò invece a soluzioni di “compromesso” tra vecchie e moderne istanze, che dietro la facciata di manufatti aggiornati nascondevano tuttavia una incomprensione di fondo dello spirito e dei valori profondi che animavano invece i modelli. L’assimilazione del linguaggio lagunare passò infatti attraverso una tacita e subconscia selezione degli elementi che caratterizzavano le manifestazioni alloctone, di cui vennero adottati esclusivamente i tratti che meglio potevano conciliarsi con il gusto locale. Gli aspetti più innovativi furono spesso eliminati o ignorati, giacché, se applicati, avrebbero portato ad un totale rivolgimento in campo artistico che l’attardata città, di fatto,

                                                                                                               

6 Si rimanda a: ACVB, Visite pastorali (1575-1596), b. II, fasc. 1;  ACVB, Atti vescovili e curiali (1575-

non era ancora pronta ad accettare.7 La preparazione culturale e, quindi l’apertura mentale, di coloro che disponevano di mezzi economici sufficienti per poter investire in commesse artistiche (vale a dire clero, nobili e borghesi) era ben distante da quella delle corrispettive classi veneziane. L’istruzione era appannaggio di membri scelti di tali gruppi, i più danarosi, ed essa avveniva di norma in loco, nella sola scuola pubblica che la Serenissima era stata in grado di provvedere alla comunità montana. Fino all’istituzione ufficiale del Seminario (1568), la scelta per chi intendesse intraprendere la carriera ecclesiastica ricadeva, invece, sul convento francescano di S. Pietro o sulle varie parrocchie, dove singoli individui, spesso inadeguati all’incarico, insegnavano una religione più pratica che teorica. In entrambi i casi, la formazione non si spingeva molto oltre l’apprendimento dei primi rudimenti in fatto di lettere e calcolo, materie ritenute indispensabili allo svolgimento di una qualsiasi attività redditizia o alla sola gestione dei patrimoni familiari o ecclesiastici. I più dotati tra i ricchi avevano talora la possibilità di proseguire gli studi di diritto e teologia recandosi all’università di Padova e pare verosimile che molto di loro venissero profondamente influenzati e plasmati da questo ambiente stimolante, dinamico e progressista.8 Sia chiaro: non mancarono a Belluno personaggi illuminati, dotati di fornite biblioteche e di un ampio bagaglio culturale (si pensi a personaggi quali Florio e Bonaventura Maresio, Pierio e il figlio Urbano Dalle Fosse, Nicolò Barzetto, Giovanni Battista Castrodardo), ma essi rappresentarono comunque una minoranza nel mare

magnum degli analfabeti o semi-analfabeti, che solo occasionalmente seppe farsi

promotrice di radicali cambiamenti. Questi gruppi sociali ebbero quindi una parte importante nel contenere la diffusione dell’arte riformata nel Bellunese. L’apprezzamento                                                                                                                

7 T. C

ONTE, La pittura del Cinquecento in provincia di Belluno, Milano 1998, pp. 14-22; M. LUCCO, La pittura nelle province di Treviso e di Belluno nel Cinquecento, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, a cura di G. Briganti, vol. I, Milano 1988, pp. 211-214; S. CLAUT, Feltre e Belluno, 1500-1540, in La pittura nel Veneto. Il Cinquecento, a cura di M. Lucco, vol. I, Milano 1996, pp. 291-299; S. CLAUT, Feltre e Belluno, 1540-1600, in La pittura nel Veneto. Il Cinquecento, a cura di M. Lucco, vol. II, Milano 1998, pp. 722-736. Sul tema specifico del tramonto delle opere antiche si veda: F. VIZZUTTI, Dalla “tabula picta” alla pala moderna: indagini di archivio e considerazioni, in A Nord di Venezia: scultura e pittura nelle vallate dolomitiche tra Gotico e Rinascimento, a cura di A. M. Spiazzi, Cinisello Balsamo 2005, pp. 157-165. Per approfondimenti in merito allo sviluppo della pala d’altare a Belluno nel periodo che precedette la Controriforma, si veda: R. MICHELOTTO, La pala d’altare rinascimentale in provincia di Belluno, tesi di laurea, Università degli Studi di Udine, Facoltà di Lettere e Filosofia, A.A. 1993-1994, rel. S. Mason, pp. 14- 54

8 G. D

E BORTOLI, Protestanti a Belluno nel Cinquecento, in Dolomiti: rivista di cultura ed attualità della provincia di Belluno, I, 1 (novembre 1978), pp. 28-29. Per approfondimenti sulle scuole pubbliche di Belluno nel Cinquecento si veda: P. MUGNA, Delle scuole e degli uomini celebri di Belluno: cenni, Venezia 1858, pp. 7-9; F. PELLEGRINI, Delle pubbliche scuole in Belluno, dall’anno 1300 fino al presente, Belluno 1881, pp. 10-11. Rapidi accenni in merito alla specifica formazione del locale clero sono invece contenuti in: F. TAMIS, Il seminario di Belluno, Belluno 1969, pp. 30-32; AA. VV. Quattrocento anni di vita del seminario di Belluno: 1568-1968, Belluno 1970, pp. 57-58 ; G. MAZZORANA, Arte, estetica e teologia nella Belluno dei secoli XIV, XV e XVI, in A Nord di Venezia… cit., pp. 21-23.

che essi tributarono fino alle soglie del XVII secolo nei confronti del gusto tradizionale è indice lampante del fatto che intere fasce di popolazione non percepivano affatto come inadeguate al culto le opere antiche o antiquate delle locali botteghe (inclusi numerosi chierici e frati). Pressante e viva era invece l’esigenza del loro tramonto presso i gradini più alti della gerarchia ecclesiastica. Di fronte al dilagante lassismo della comunità cristiana (laica e non) e alla rapida avanzata delle eresie, la Chiesa affidò all’arte il fondamentale compito di istruire il credente sulle verità di fede che a Trento erano state ufficialmente sancite e di sollecitarne la devozione. Rigidità delle pose, schemi compositivi perfettamente simmetrici e stesure cromatiche piatte erano caratteri che poco si addicevano a colpire emotivamente l’osservatore e a suscitare in lui sentimenti di compassione e desiderio di imitazione. I requisiti di chiarezza, verità e aderenza alle sacre scritture che i decreti tridentini presentavano come imprescindibili non implicavano necessariamente una rinuncia a qualsivoglia ricerca artistica, ma imponevano di certo il conseguimento di un compromesso tra le sterili opere rinascimentali e gli eccessi del Manierismo. Il secondo Cinquecento bellunese si configura dunque come un periodo molto controverso e di difficile definizione, dominato com’era da tendenze contrastanti: una sorta di fase di assestamento si potrebbe dire, un momento di passaggio prima di approdare al Seicento, vero secolo del rigore.

L’ideale dibattito tra vecchie e nuove istanze fin qui delineato trova una concreta esemplificazione proprio nel progetto decorativo che dagli anni Cinquanta in poi si sviluppò in Santa Croce. Come precedentemente anticipato, nel marzo 1555 la confraternita titolare decise di apportare dei significativi cambiamenti all’ornamento degli altari presenti nell’aula ed espresse apertamente il desiderio di innovarne la forma. Gli interventi si concentrarono in particolar modo sulle figure dei santi protettori, che sin dai primi secoli vita dell’edificio abbondavano lungo le sue pareti. Forte del mutante clima religioso, la scuola si risolse a prendere (almeno sulla carta) drastici provvedimenti sul loro conto, primo tra tutti quello di eliminare le sculture poste alla sommità degli arredi sacri e di “redurle in forma di pala”.9 L’obiettivo che i disciplinati si proponevano tacitamente di raggiungere era molto probabilmente quello di aumentare la comunicatività delle figure dei santi, che sempre maggior peso andavano assumendo nell’orizzonte cristiano. In un momento storico in cui il tema della giustificazione diveniva fonte di dibattito tra le confessioni del mondo occidentale e la preoccupazione per la salvezza dell’anima

                                                                                                               

assumeva una centralità inedita nella vita dei fedeli, i beati divennero un vero e proprio punto di riferimento per la comunità, nel loro duplice ruolo di intercessori con il divino e di esempi edificanti. Sarà lo stesso Concilio, nella sessione XXV del 3 dicembre 1563, a sancire ufficialmente e definitivamente l’imprescindibilità del culto di immagini sacre e reliquie, e a condannare apertamente gli “empi” che negano il valore profondo di questa pratica.10 Partendo dai suddetti presupposti, i vertici di Santa Croce intuirono che delle piccole sculture lignee, avvolte dalla penombra, a distanza dal fedele, non erano di certo il mezzo più adeguato a tributare “il dovuto onore e venerazione” ai santi che tanta importanza rivestivano nella vita spirituale e morale dei propri associati. Tale compito poteva invece essere appieno assolto da una pala adagiata appena al di sopra della mensa, che, per le proprie caratteristiche intrinseche, meglio si prestava ad instaurare un legame più diretto, immediato ed intimo (una vera e propria empatia si potrebbe dire) tra adorante e adorato. Sfortunatamente, la traduzione materiale dei menzionati propositi fu molto meno “avanguardista” rispetto agli ideali da cui era stata ispirata la commessa. Nel caso dell’altare di S. Antonio Abbate, la scelta della confraternita ricadde su una pala scolpita, ovvero su un tipo di manufatto ancora una volta legato alla tradizione locale quattrocentesca. Essa non aveva infatti niente a che vedere con le ancone che verranno realizzate in epoca barocca, dotate di raffinate figure aggettanti per accentuare la profondità prospettica della scena raffigurata; si presentava, piuttosto, come un insieme di personaggi indipendenti (S. Antonio Abbate, S. Andrea e S. Gottardo), accostati su di un fondo comune. In un momento storico non determinabile con precisione annua, ma sicuramente antecedente l’avvio del Seicento, medesima soluzione venne adottata per l’altare dedicato a S. Lucia. In quest’ultimo caso, in realtà, la confraternita non commissionò la realizzazione di una nuova pala che la ritraesse, ma sfruttò addirittura l’immagine preesistente, che venne presa ed affiancata ad altre due sculture raffiguranti, come ricorda il Rota nel diario di visita, S. Apollonia e S. Agata. In occasione del restauro dell’arredo sacro (1577), infatti, i Gastaldi raccomandarono caldamente agli artigiani di “non inovar cosa alcuna” intorno all’antica figura della martire, con cui avevano probabilmente un legame devozionale-affettivo molto forte.11

                                                                                                               

10 Conciliorum Oecumenicorum Decreta… cit., p. 775.

11 Le pale scolpite risultano attualmente disperse. Resta una telegrafica menzione del loro aspetto nel diario

della visita condotta dal vescovo Rota nel 1723. Cfr. ACVB, Visite pastorali, b. 18, f. 2, c. 52r. Manufatti simili sono ravvisabili anche in altre chiese confraternali, come, ad esempio, S. Maria Nova. Sull’impiego di tale tecnica nell’arte bellunese si veda: R. MICHELOTTO, La pala d’altare rinascimentale in provincia di Belluno... cit., p. 24.

Più aderente al progetto teorico, ma comunque distante dai vertici della moderna arte, fu, invece, l’esito degli interventi sull’altare di S. Lorenzo: un olio su tavola raffigurante La

Beata Vergine, S. Lorenzo e S. Caterina di mano del bellunese Nicolò de Stefani (1520-

1599).12 Encomiabile è di certo la preferenza per una tipologia, quella del dipinto a campo unificato con sviluppo verticale, relativamente recente. L’uso della pala d’altare propriamente intesa era infatti invalso tra le botteghe locali solamente a partire dagli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento, con un deciso ritardo rispetto all’area lagunare. Di fronte alla consolidata tradizione del polittico e al persistente ascendente nordico, l’influsso della vivariniana ancona in Santa Maria dei Battuti (1486), esempio primo ed eminente della pittura rinascimentale nella regione montana, stentò a prendere il sopravvento, tanto che fenomeni estremi di trittici si registrarono fino ai primi decenni del XVI secolo.13 Negli anni Cinquanta, dunque, quando il de Stefani si apprestava ad eseguire il quadro per Santa Croce, pochi erano stati gli artisti conterranei che avevano fatto proprio questo formato e si erano dimostrati in grado di innovarlo rispetto ai canonici schemi tardoquattrocenteschi, attraverso la creazione di impianti narrativi più complessi ed impegnativi. Episodi emblematici e opere di pregio certo non mancavano sul territorio (si pensi alle pale di Paris Bordon, Pomponio Amalteo, Andrea Schiavone e, non ultima, della bottega vecelliana), ma non furono comunque sufficienti a mettere in crisi gli equilibri classici e ad innescare un radicale cambiamento. Va tuttavia rilevato che, oltre al substrato culturale, anche gli eventi storici giocarono un ruolo non marginale nel rallentare il processo di rinnovamento nella prima metà del secolo. Tra 1530 e 1545 le chiese cittadine vennero infatti colpite da interdetto papale e, di conseguenza, si registrò una vera e propria stagnazione di commesse, che di fatto inibì la circolazione di idee.14 Alcuni temi avevano risentito in particolar modo della persistenza delle tipologie tradizionali, primo tra tutti                                                                                                                

12 Si tratta di un artista minore, che, grazie alle sue opere sacre, raggiunse un discreto successo nella Belluno

della seconda metà del Cinquecento. La sua figura, data la scarsità di dipinti oggi conservatisi, è stata solo saltuariamente oggetto di studio da parte della critica locale, che non è dunque ancora riuscita a ricostruire un profilo completo e coerente del pittore. Dalle poche opere oggi presenti nel suo catalogo, tuttavia, gli studiosi sono propensi a considerarlo una figura essenzialmente legata alla tradizione artistica locale, benché le sue tavole non manchino di riferimenti alla lezione vecelliana e bordoniana. Questo suo attaccamento alle manifestazioni del primo Cinquecento non mutò nemmeno di fronte alla prepotente avanzata del Manierismo; negli anni Ottanta e Novanta egli sperimentò delle soluzioni di compromesso con le istanze tipiche di questa nuova corrente, ma i risultati furono a dir poco disastrosi. Il profilo più esaustivo e dettagliato è fornito da M. LUCCO, Avvio per Nicolò de Stefani, in Eidos, I (1983), pp. 28-39; altri contributi, spesso focalizzati su particolari aspetti della sua produzione, sono contenuti in: F. GOVER, Per un probabile Nicolò de Stefani, in ASBFC, LIV, 244 (luglio-settembre 1983), pp. 104-105; S. CLAUT, Il pittore bellunese Nicolò de Stefani, in ASBFC, LV, 248 (luglio-settembre 1984), pp. 96-98; F. VIZZUTTI, voce “De Stefani, Nicolò”, in Dizionario Biografico degli Italiani, 39, Roma 1991, pp. 443-444; G. REOLON, Fonti incisorie per Nicolò de Stefani e Cesare Vecellio, in ASBFC, LXXXIII, 349 (maggio-agosto 2012), pp. 123-134.

13 R. M

ICHELOTTO, La pala d’altare rinascimentale in provincia di Belluno... cit., p. 16.

14 M. L

quello della sacra conversazione. L’abuso di moduli compositivi superati, altamente geometrici e perfettamente equilibrati, fece sì che le pale dei pittori bellunesi, pur presentando tutti gli elementi specifici di questa iconografia (un gruppo sacro inserito all’interno di uno spazio architettonico), mancassero spesso e volentieri di quel carattere profondo che le rendeva strumenti edificanti nella cultura veneziana: l’intima comunione spirituale tra i personaggi.15

Della tavola di Nicolò de Stefani in S. Croce non resta oggi traccia alcuna16, ma indubbio è il fatto che essa rientrasse appieno nel profilo appena delineato. La supplica inoltrata dal pittore stesso ai membri della Banca per la definitiva approvazione della sua proposta decorativa, contiene una sommaria descrizione dell’opera, che ci fornisce degli indizi in merito al suo contenuto. Recita la parte:

“[…] in ditta palla, li colori […] non serano di pocha importantia,

imperochè il campo di sopra serà finto aere, cioè azuro, il pano tenutto dalli anzoli serà verde fin sotto li piedi della Madonna, il pano di sopra della Madona serà azuro, quello di sotto cremesino. Il Santo Laurentio vestito di rosso fento seda, over damascho, o veludo. Il pano della Santa di zallo et di vello. Il pavimento compartito in quadri segondo mi parerà, la sedia, et li gradi di marmoro intaiata”17

I protagonisti erano dunque quelli canonici (la Madonna con il Bambino, i santi titolari dell’altare e degli angeli) e altrettanto ortodossa doveva essere l’ambientazione della scena, divisa tra una parte prettamente architettonica, dominata dal trono rialzato della Vergine,                                                                                                                

15 C. S

CHMIDT, “La sacra conversazione” nella pittura veneta, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, a cura di M. Lucco, vol. II, Milano 1990, p. 703; P. HUMFREY, La pala d’altare veneta nell’età delle riforme…cit., pp. 1121-1124.

16

Il dipinto figura nell’”Elenco delle pubbliche pitture della città di Belluno” redatto da Lucio Doglioni nel 1790, indizio questo che l’opera si trovava in situ al momento delle soppressioni napoleoniche (Cfr. BCB, ms. 411, p. 455). La rettifica del citato documento, stesa dal pittore Antonio Tessari nel 1851, non annota quale sia stata la sorte dell’opera all’indomani dell’abbattimento dell’edificio chiesastico, ponendo dunque il dubbio se essa sia stata indemaniata o semplicemente traslata in altro luogo (La trascrizione del ms. 873 è contenuta in: S. CLAUT, Un manoscritto di fine Settecento per la storia dell’arte a Belluno, in ASBFC, LX, 266 (gennaio-marzo 1989), p. 4). Una fonte differente fornisce però un’attendibile risposta al quesito. Stefano Ticozzi, nella sua “Storia dei letterati e degli artisti del Dipartimento della Piave” riferisce infatti di aver visto in casa del conte Marino Pagani, celebre collezionista bellunese responsabile del salvataggio di molti manufatti indemaniati, una pala con la “Madonna, S. Lorenzo e S. Caterina” di Nicolò de Stefani.

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