Come precedentemente anticipato parlando delle opere d’arte che in origine ornavano la chiesa di S. Croce, l’analisi delle carte d’archivio e delle fonti a stampa non ha dato alcun esito per quel che concerne la committenza del ciclo cristologico. A differenza di quanto appurato per le pale d’altare, non è purtroppo stato ravvisato riferimento alcuno a esborsi di denaro, contratti o provvedimenti inerenti ai teleri veneziani tra la documentazione prodotta dalla confraternita titolare tra Cinque e Settecento, né, tantomeno, indizi sono emersi dallo studio degli atti vescovili e curiali o dalle memorie degli storici locali.
In vista di una più precisa definizione dei protagonisti e delle circostanze che portarono alla nascita delle Storie della Passione, è innanzitutto necessario analizzare nel dettaglio composizione sociale, livello culturale e patrimonio economico della congrega laica per comprendere se essa fosse o meno nella posizione per poter ideare e commissionare un progetto decorativo di tal portata.
Il primo problema che si pone per chiunque intenda avviare un approfondimento sui disciplinati bellunesi nella seconda metà del XVI secolo, è la lacunosità delle fonti manoscritte. Nel caso specifico di S. Croce, particolarmente limitante è l’assenza di matricola e statuti. Tali documenti, annotanti rispettivamente i nominativi degli associati e le regole che essi erano chiamati a rispettare, avrebbero infatti consentito una rapida identificazione della componente umana del sodalizio ed una precisa definizione del suo funzionamento interno; la loro dispersione impone, per contro, di stralciare questo tipo di informazioni dai soli registri delle sedute e deliberazioni, in un percorso certamente più lungo e laborioso. La completezza ed esaustività degli esiti di siffatta ricerca è nondimeno minata da un secondo fattore, ovvero dal fatto che i volumi contenenti le parti del periodo 1583-1685 risultano irreperibili. Per avere una panoramica almeno generale di ciò che doveva essere la confraternita nel periodo di nostro interesse (fine anni Ottanta-inizio anni Novanta) sarà pertanto necessario affidarsi alle carte immediatamente antecedenti, postulando l’assenza di drastici mutamenti in seno all’ente in un torno d’anni così ristretto. Al pari delle più note scuole veneziane, grandi e piccole, i disciplinati di S. Croce si presentavano come una società laica autogestita, retta da una gerarchia democraticamente eletta dagli associati stessi. Il modello di riferimento in fase di istituzione era stato indubbiamente quello delle più antiche congreghe lagunari, ma da queste la scuola bellunese si era differenziata adottando una struttura di governo più semplificata, composta da un numero minore di cariche. La gestione amministrativa e organizzativa era affidata
alla cosiddetta “Bancha”, ovvero un gruppo di quattordici laici (ai religiosi era preclusa la possibilità di accedere ai ruoli direttivi e di votare), dotati di pieni poteri decisionali in tutti i campi del vivere confraternale. Al vertice di questa assemblea vi erano due Gastaldi, cui spettava in prima istanza il compito di sovraintendere al corretto funzionamento dell’associazione, espletando compiti che andavano dal controllo del comportamento degli associati, alla pacificazione delle liti, all’accettazione dei nuovi confratelli, alla gestione di affittanze ed elemosine. Il loro non era tuttavia un potere assoluto, in quanto premessa necessaria all’entrata in vigore dei provvedimenti era l’approvazione da parte della maggioranza dei dodici consiglieri che li affiancavano nella cura degli interessi scolastici. Compartecipata era anche l’annuale elezione dei membri stessi della banca, che avveniva dietro presentazione e votazione dei confratelli ritenuti dai vertici più idonei e meritevoli di svolgere gli incarichi di responsabilità. Nel caso specifico dei Gastaldi, la nomina dei singoli avveniva a scadenze sfalsate di sei mesi (uno il 24 giugno e uno il 27 dicembre), in modo tale da garantire al nuovo arrivato l’affiancamento e la guida di un esponente già pratico nell'ufficio. Ad un gradino più basso della scala si trovava invece il Massaro, amministratore fisico delle finanze e dei beni della scuola. Egli non faceva propriamente parte della Banca, ma operava comunque a stretto contatto con i vertici, essendo, di fatto, l’esecutore materiale delle decisioni che da qui scaturivano. Questa figura non era dunque autorizzata a deliberare, ma ad essa erano affidati compiti di prim’ordine, come la custodia del denaro e degli oggetti della confraternita, la riscossione di affitti e debiti, la revisione dei conti e la gestione delle uscite, un ruolo, questo, a tal punto delicato da rendere imprescindibile l’investitura per mezzo della sola Banca e la presentazione di un’adeguata “segurta” a titolo di garanzia. A presiedere le sedute degli organi direttivi vi era poi in molte occasioni anche un confratello notaio, con la mansione precipua di registrare tra gli atti le disposizioni del consiglio, di vidimare eventuali contratti di acquisto, cessione o affitto, nonché di gestire il passaggio dei lasciti testamentari. A differenza delle succitate cariche, per le quali era previsto un compenso più o meno cospicuo, il notaio non riceveva alcuna retribuzione per le sue prestazioni; in cambio, tuttavia, poteva però godere di un esonero dalle tasse che i restanti confratelli erano chiamati a versare regolarmente nelle casse comuni. Al livello più basso vi era, infine, una serie di persone che svolgevano incarichi prettamente pratici, come i Priori della chiesa e dell’ospedale, cui era delegata la cura giornaliera degli ambienti, in vista di un adeguato livello di decoro.1
1 Nel caso di S. Croce non figurano ruoli come quelli dei degani, del vicario, ecc., riscontrabili invece nelle
L’autorità effettiva era dunque appannaggio esclusivo di queste poche figure e nelle loro mani era concentrato il potere decisionale in merito alla vita confraternale e a ciò che le era attinente, incluse le commesse artistiche. Nel periodo considerato, estremamente rari furono i casi in cui la partecipazione alle adunanze venne estesa anche ai restanti confratelli, a coloro cioè che erano privi di qualsivoglia titolo specifico (circa quattrocento persone), facendo così di quest’ampia fascia una presenza più simbolica che complice. In una sorta di procedimento sineddotico, la parte si sostituisce al tutto ed è pertanto su tale minoranza rappresentativa che è innanzitutto auspicabile focalizzare l’attenzione per comprendere la vera natura della scuola.
Scorrendo il registro di sedute e deliberazioni degli anni 1550-1582 e indagando le parti inerenti all’elezione dei vertici, due elementi balzano immediatamente agli occhi: la frequente ricorrenza di determinati nominativi e la presenza di persone accomunate da un medesimo cognome. Ciò legittima a supporre che, sul lungo periodo, si fosse formata in seno al sodalizio una vera e propria classe di governo, fondata in gran parte su legami di tipo familiare, in una logica di potere già sistematicamente adottata nelle congreghe veneziane sin dagli inizi del secolo.2 Benché, in via teorica, gli ordinamenti prevedessero la possibilità per qualsiasi associato di ricoprire le posizioni direttive, alla guida dei disciplinati si avvicendarono, nella realtà dei fatti, sempre gli stessi soggetti, grazie ad un meccanismo fondato sulla reciproca rielezione. È pur vero che, sin dai primi secoli di esistenza, la confraternita aveva imposto ai propri membri l’obbligo del periodo di
B. PULLAN, La politica sociale della Repubblica di Venezia, 1500-1620, I, Roma 1982; C. F. BLACK, Le confraternite italiane del Cinquecento, Milano 1992; F. ORTALLI, “Per salute delle anime e delli corpi”: scuole piccole a Venezia nel tardo Medioevo, Venezia 2001; G. VIO, Le scuole piccole nella Venezia dei dogi; note d’archivio per la storia delle confraternite veneziane, Venezia 2004; Custode di mio fratello: associazionismo e volontariato in Veneto dal medioevo a oggi, a cura di F. Bianchi, Venezia 2010. Per un confronto con le altre confraternite bellunesi si veda: M. SOMMACAL, Analisi ed interpretazione dei documenti esistenti nell'archivio storico di Castion, relativi alla Pieve e alla Confraternita dei battuti (sec. 13°-15°), tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1972-1973, rel. G. Mantese; G. FABBIANI, I Frades e i Battuti in Cadore, Belluno 1976; G. FABBIANI, La scuola dei Battuti di Selva di Cadore, in Archivio storico di Belluno Feltre e Cadore, LII, 237 (ottobre-dicembre 1981); L. BERTOLDI LENOCI, I Battuti di San Lorenzo a Lozzo di Cadore, Belluno 1983; G. DE BORTOLI, Statuto della Scuola dei Battuti bellunesi, Belluno 1978; C. GAZZOLA, La Confraternita del Sacratissimo corpo di Cristo a Belluno: elementi per una storia della sua evoluzione fino alla fine del 16° secolo, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1993-1994, rel. Alberto Vecchi; M. CURTI, Le confraternite a Mel, Trichiana, Lentiai e Villa di Villa, Belluno 2011; M. CURTI, A confronto tra loro tre statuti dei Battuti del ‘400, in Dolomiti: rivista di cultura ed attualità della provincia di Belluno, XXXV, 4 (agosto 2012), pp. 20-26; D. VIGNAGA, Statuto della confraternita di Santa Maria dei Battuti della Pieve d’Alpago, in Dolomiti: rivista di cultura ed attualità della provincia di Belluno, XXXV, 4 (agosto 2012), pp. 15-19; M. CURTI e D. VIGNAGA, Su due statuti cinquecenteschi della confraternita del Santissimo Corpo di Cristo, in Dolomiti: rivista di cultura ed attualità della provincia di Belluno, XXXVI, 2 (aprile 2013), pp. 23-28.
2 Un caso esemplare è quello della Scuola Grande di S. Rocco. Per un’analisi puntuale del caso si veda: M. E.
MASSIMI, Jacopo Tintoretto e i confratelli della Scuola Grande di San Rocco. Strategie culturali e committenza artistica, in Venezia Cinquecento, V, 9 (1995), pp. 5-107.
contumacia proprio al fine di impedire qualsivoglia forma di privilegio e monopolio, ma tale norma statutaria era stata aggirata con la gestione “alternata” del potere. A ben osservare si noterà infatti che il cursus honorum di molti affiliati fu caratterizzato dalla continua rotazione nei vari ruoli dirigenziali; capitava così abbastanza frequentemente che il Massaro, una volta scaduto il proprio mandato, passasse a ricoprire la funzione di Gastaldo, e che il Gastaldo, viceversa, diventasse Massaro o, presumibilmente, consigliere, determinando, di fatto, una sorta di cerchia in cui, per l’anonimo singolo, era arduo inserirsi e di cui era complesso guadagnare la fiducia. La contraddizione più palese insita nel sistema elettivo era tuttavia data dal fatto che il nominativo del nuovo Gastaldo venisse proposto da quello uscente, pratica, questa che non rimase certamente estranea a forme di clientelismo. Pare infatti logico supporre, come già riscontrato in ambito veneziano, che la scelta fosse dettata innanzitutto da motivi d’interesse, vuoi economici, politici o lavorativi, e che essa ricadesse su persone note, in grado di portare avanti con una certa continuità le attività e la politica intraprese dalla precedente amministrazione. Certo, la scelta doveva passare al vaglio della Banca, ma, essendo questa composta di individui altrettanto coinvolti in siffatta strategia, non poteva che approvare a pieni voti la mozione del superiore.3 Avvenne così che determinati affiliati si fregiarono a piacere dei vari titoli, senza che vi fosse limitazione alcuna nel numero massimo delle reiterazioni. Osserva giustamente M. E. Massimi che la frequenza delle cariche era presumibilmente direttamente proporzionale all’incisività dell’azione di un confratello: se diradate, impedivano a chi le assumeva una continuità di gestione, rendendone flebile la voce e accessoria la presenza; se reiterate, per contro, facevano del confratello un protagonista e, a lungo andare, una colonna portante del sodalizio.4
Ma chi erano nel concreto queste persone che guidavano la confraternita di S. Croce nella seconda metà del Cinquecento? Pur nella loro estrema sinteticità, gli atti dei ballottaggi restituiscono un’immagine chiara dell’élite crocesignata come di un ambiente a predominanza artigiana, strettamente dipendente dalla realtà autoctona. Benché solo in una quantità ristretta di casi l’identificazione dei candidati espliciti per esteso la loro professione (erano dati che venivano registrati in matricola), i titoli che precedono i vari nominativi non lasciano adito a dubbi sul fatto che i “Magister”, ovvero i maestri d’arte, giocassero il ruolo di indiscussi protagonisti sulla scena associativa. Certo, accanto a
3 Interessante notare come le persone cui si fa qui riferimento si prestarono farsi da garanti l’un l’altra
qualora ve ne fosse la necessità.
costoro si fecero largo in seno alla gerarchia anche individui appartenenti a categorie sociali più elevate, i cosiddetti “Ser”, ma questi rappresentarono, di fatto, degli episodi isolati, minoritari, che non seppero scalfire l’impronta del sodalizio, né ottenere ampio margine di manovra. Scorrendo le liste di Gastaldi, Massari e consiglieri, si apprende, in via generale, che il candidato-tipo era impersonato da un lavoratore manuale (zattiere, marangone, muratore, ecc.), appartenente ad una famiglia pressoché sconosciuta e di non elevato lignaggio, proveniente da Belluno o dalle sue immediate vicinanze. Tra di loro non si distinguono, infatti, personalità di spicco della società cittadina, passate alla storia per aspetti quali l’impegno civico, la ricchezza, il bagaglio culturale o l’attività mecenatica, attestandosi dunque su posizioni ben distanti da quelle dei confratelli mercanti di S. Rocco a Venezia.5 È tuttavia plausibile che i disciplinati bellunesi disponessero di un minimo livello di educazione, tale da consentire loro un’agevole e pieno svolgimento delle funzioni direttive, ma certamente non sufficiente ad ideare un ciclo pittorico complesso ed innovativo come quello di S. Croce. Come anticipato in precedenza, la formazione per coloro che non appartenevano alla ristretta casta delle casate nobili e danarose avveniva in
loco, nella sola scuola pubblica che la Serenissima era stata in grado di provvedere alla
comunità montana. Era questa, tuttavia, una forma d’istruzione limitante, dal momento che essa non si spingeva molto oltre l’apprendimento dei primi rudimenti in fatto di lettere e calcolo, essendo tali materie ritenute le sole indispensabili per lo svolgimento di una qualsiasi attività redditizia o per la gestione dei patrimoni familiari. Solamente i più dotati tra i ricchi avevano talora la possibilità di proseguire gli studi di diritto e teologia recandosi all’università di Padova e di ampliare dunque le proprie competenze; per i restanti cittadini, invece, tali campi rimasero pressoché preclusi, preferendo affidarsi a specialisti qualora ve ne fosse la necessità. 6 Fino all’istituzione delle scuole di dottrina cristiana (1579) e, in molti casi, anche dopo tale evento, la preparazione della popolazione sui principi della religione cattolica fu pressoché nulla. Furono i vescovi stessi a registrare negli atti di visita della seconda metà del XVI secolo la difficoltà di penetrazione dei precetti della Chiesa controriformista nella diocesi montana e a sottolineare lo stato di generale ignoranza in cui versavano fedeli e basso clero, ancora saldamente attaccati a credenze popolari di antica origine. L’assenza di un’efficace azione pastorale da parte del
5 Ivi, pp. 20 e sgg.
6 G. DE BORTOLI, Protestanti a Belluno nel Cinquecento, in Dolomiti: rivista di cultura ed attualità della
provincia di Belluno, I, 1 (novembre 1978), pp. 28-29. Per approfondimenti sulle scuole pubbliche di Belluno nel Cinquecento si veda: P. MUGNA, Delle scuole e degli uomini celebri di Belluno: cenni, Venezia 1858, pp. 7-9; F. PELLEGRINI, Delle pubbliche scuole in Belluno, dall’anno 1300 fino al presente, Belluno 1881, pp. 10-11.
chiericato aveva avuto un peso preponderante nel plasmare o, per meglio dire, non plasmare le coscienze dei Bellunesi, che, di fatto, assimilarono in prima istanza solo gli aspetti più superficiali e coreografici del nuovo cristianesimo, senza che vi fosse alla base una reale comprensione dei valori profondi da cui dette pratiche erano alimentate. I tentativi di ammodernamento che vennero condotti nella chiesa di S. Croce dagli anni Sessanta in poi evidenziano come la situazione non fosse probabilmente così drammatica in questa confraternita devozionale, dove l’atto cultuale era l’elemento legante e fondante, ma le scelte concrete compiute dai vertici denotano, come visto, una sensibilità religiosa ben lontana dall’essere pienamente sviluppata. Lo stato morale dell’élite di governo all’indomani del Concilio tridentino era infatti tale da stimolare esclusivamente la sostituzione di anonime sculture lignee con più comunicative pale, ma non era tuttavia adeguato ad introdurre un radicale cambiamento. La complessa ideologia che sottende le
Storie della Passione non poteva per certo essere maneggiata da persone con la descritta
preparazione culturale, implicando essa una certa confidenza con la più recente esegesi delle Sacre Scritture e con i trattati teologico-morali ed artistici dell’epoca controriformista. Sorprenderebbe non poco infatti constatare il fatto che degli umili artigiani avessero anticipato soluzioni che nemmeno la gerarchia ecclesiastica locale più elevata, senz'altro dotata di maggiori competenze in materia, aveva ancora impiegato, e per di più esemplate su modelli innovativi completamente estranei al contesto locale in cui essi abitualmente operavano. Esclusi l’acquisto annuale delle cere e sporadiche cause giudiziarie, non si registrano, infatti, diretti collegamenti tra la scuola e l’ambiente veneziano, aspetto, questo, che induce a chiedersi come sia avvenuto il contatto con i cicli lagunari ed i loro esecutori. La profonda discrepanza esistente tra il profilo dei vertici crocesignati e quello dell’ideale/plausibile committente delle dieci tele cristologiche fa sospettare che vi sia stato l’intervento da parte di una figura esterna alla cerchia laica, in veste di semplice intermediario, o, addirittura, di vero e proprio promotore-ideatore.
Ma, prima di passare a dare una risposta a questo fondamentale interrogativo, è necessario valutare un ultimo aspetto inerente alla vita del sodalizio disciplinato, vale a dire la sua situazione economica. Nell’ottica di definizione della genesi della Passio Christi, siffatto dato risulta infatti estremamente importante per comprendere se la confraternita potesse materialmente permettersi di realizzare un progetto di tal portata e se essa, dunque, fosse in grado di sostenere ingenti spese per accaparrarsi gli artisti veneziani più in voga del momento.
In occasione della sua visita pastorale del 1584 il vescovo Giovambattista Valier, ispezionando la chiesa di S. Croce, annotava che le entrate annue del sodalizio ammontavano a quel tempo a circa 500 ducati.7 Una cifra, questa, estremamente significativa, soprattutto se rapportata con le altre congreghe cittadine, che, eccezion fatta per S. Maria dei Battuti, disponevano di finanze ben più limitate, talvolta sufficienti ad espletare solamente poche attività basilari. Un’analisi incrociata dei libri contabili e dei registri delle deliberazioni rivela la natura e la provenienza di questo ingente patrimonio, indispensabile per adempiere appieno ai propri programmi caritativo-assistenziali.8 Una voce d’entrata consistente era rappresentata dalle quote che i confratelli, per esplicito obbligo statutario, erano chiamati a versare nelle casse: la cosiddetta “benintrada”, da devolvere al momento dell’iscrizione in matricola, e la “luminaria” per l’acquisto di olio e cere, da tributare periodicamente nel corso dell’anno. Le cifre variavano significativamente in base allo status sociale dell’affiliato, andando da “lire 1 et soldi 10” dei più indigenti alle “lire 10” e, talvolta, oltre, dei membri benestanti, per raggiungere numeri ancora più elevati nel caso di tipologie sui generis di soci, come gli “esenti”.9 Era questa una sorgente di guadagno sicura e continua per la congrega, anche se i solleciti di pagamento fanno presumere che non tutti saldassero con regolarità il dovuto, soprattutto nei periodi di più grave crisi economica, imponendo talvolta l’attuazione di drastiche misure, come la definitiva espulsione dal sodalizio. A queste entrate per così dire ordinarie, si devono aggiungere poi quelle eccezionali, costituite essenzialmente dalle multe con cui taluni individui venivano puniti per aver contravvenuto determinati ordini espressi negli statuti fondativi. L’entità della sanzione si diversificava a seconda della gravità del caso, ma certo è che esse diedero sostanzialmente un contributo minoritario nella formazione del capitale scolastico.
7 ACSB, Cartella testamenti e visite (1550-1600), f. 2r. La confraternita di S. Maria dei Battuti ha, per
contro, un’entrata annua di circa 700 ducati. Il differente grado di ricchezza e prestigio delle varie scuole bellunesi viene perfettamente rispecchiato nell’ordine di precedenza assunto in occasione delle processioni cittadine: S. Croce si disponeva dopo S. Maria dei Battuti, ma prima della confraternita del Corpus Domini (Cfr. BCB, ms. 539, Notizie di Giovanni Sergnano, f. 79).
8 Non è purtroppo possibile stilare un bilancio vero e proprio, essendo la documentazione a riguardo non
esaustiva. Scorrendo il registro di entrate e uscite, si ha infatti l’impressione che esso non sia stato redatto con piena costanza e secondo criteri costanti negli anni; i registri delle deliberazioni, per contro, risultano estremamente minuziosi ed attendibili, ma registrano solamente alcune delle voci di spesa o guadagno, quelle cioè citate negli accordi. Dovremo pertanto rimanere in un campo piuttosto vago, senza scendere nel dettaglio numerico.