Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex
D.M. 270/2004)
in Storia delle arti e conservazione dei beni
artistici
Tesi di Laurea
La chiesa di Santa Croce nel
Cinquecento:
Vicende di una committenza artistica tra
Belluno e Venezia
Relatore
Ch. Prof. Martina Frank
Correlatore
Prof.ssa Elisabetta Molteni
Laureanda
Arianna Candeago
Matricola 817670
Anno Accademico
2014 / 2015
_ Ca’ Foscari Dorsoduro 3246 30123 VeneziaIndice
Introduzione………p. 5 Lista delle abbreviazioni………p. 8 Premessa. Le fonti per lo studio delle confraternite di devozione bellunesi………..…p. 9 1. L’EDIFICIO
1.1 IL TRECENTO: LA FONDAZIONE………p. 16 1.2 IL CINQUECENTO………..………p. 27 1.3 GLI ALTARI……….……p. 42 2. LA DECORAZIONE DELLA CHIESA
2.1 LE PALE D’ALTARE E IL MARTIRIO DI SANTA LUCIA DEL VERONESE………..p. 37 2.2 IL CICLO CRISTOLOGICO……….……p. 58 • Antonio Vassilacchi, Ultima Cena, Chioggia, Municipio………….p. 69 • Antonio Vassilacchi, Orazione nell’orto………...……p. 73 • Antonio Vassilacchi, Bacio di Giuda, collezione privata……….…p. 75 • Domenico Tintoretto, Cristo davanti a Pilato, Belluno, Museo
Civico………p. 77 • Antonio Vassilacchi, Flagellazione, Venezia, basilica dei SS. Giovanni
e Paolo………...………p. 81 • Domenico Tintoretto, Incoronazione di spine, Quero, chiesa
parrocchiale………..…….p. 83 • Carlo Caliari, Caduta sotto la Croce e incontro con la Veronica,
Venezia, basilica dei SS. Giovanni e Paolo………..….p. 85 • Palma il Giovane, Crocefissione, Riese Pio X, santuario della Madonna di Cendrolle………...……p. 87 • Andrea Vicentino, Deposizione, Venezia, Scuola Grande di S. Giovanni
Evangelista………p. 90 • Paolo Fiammingo, Resurrezione, Maser, chiesa arcipretale….……p. 92
3. LA COMMITTENZA DEL CICLO CRISTOLOGICO……….…p. 94 Conclusioni………...………..…p. 111 FONTI MANOSCRITTE………...………p. 113 BIBLIOGRAFIA………...……….…p. 115
INTRODUZIONE
Il presente elaborato prende spunto da un breve saggio comparso qualche anno fa all’interno di una raccolta di scritti in memoria di Terisio Pignatti. In quest’occasione, il professor Giorgio Fossaluzza annunciò alla comunità scientifica il ritrovamento sul mercato antiquario di uno dei dieci dipinti a soggetto cristologico che nel Cinquecento decoravano le pareti dell’antica chiesa di Santa Croce di Belluno: il Bacio di Giuda di Antonio Vassilacchi detto l’Aliense1. Tale rinvenimento fu per lui un incentivo a dare l’avvio ad una ricerca più approfondita sulla genesi di un esteso ciclo pittorico fino a quel momento considerato come scarsamente rilevante dal punto di vista storico-artistico e quindi largamente ignorato. Precedentemente, infatti, l’argomento aveva quasi esclusivamente attirato l’interesse della critica locale, che si era per di più limitata a riportare in maniera ripetitiva le basilari informazioni reperite negli anni Settanta da M. Dal Mas e A. Giacobbi in occasione dei loro studi sulle chiese scomparse di Belluno2. L’argomento è quindi rimasto sempre relegato all’interno dell’ambiente bellunese, senza riuscire a suscitare l’interesse di una cerchia più ampia e variegata di studiosi, che potessero apportare nuova linfa alla ricerca. Le motivazioni che hanno alimentato nel corso dei decenni questo disinteresse sono innanzitutto da ricercare in una ancor troppo radicata convinzione che i fenomeni artistici verificatisi in aree un tempo considerate periferiche siano da ritenersi di minor valore e qualità rispetto a quelli di città più centrali. Secondariamente, la difficoltà nel reperimento dei dipinti, andati dispersi in varie parti d’Europa dopo le soppressioni napoleoniche, nonché di notizie ad essi relative nella vasta e frammentaria documentazione archivistica, hanno scoraggiato chiunque volesse intraprendere un’indagine in merito.
Tale lacuna negli studi storico-artistici merita tuttavia di essere colmata, essendo il caso di primaria rilevanza nel panorama locale e non. Sin dalla sua edificazione alla fine del Trecento, la chiesa di Santa Croce venne infatti gradualmente impreziosita da un cospicuo numero di opere di pittura, scultura ed oreficeria firmate non solo da celebri artisti autoctoni (si pensi a Nicolò De Stefani e Andrea Brustolon), ma anche veneziani (in primis gli allievi di Jacopo Tintoretto e Paolo Veronese), raggiungendo l’apice dello splendore
1 G. Fossaluzza, Tra Venezia e Belluno: il Bacio di Giuda dell’Aliense per la chiesa di Santa Croce “Impastà
del furor de Tintoretto”, in L’attenzione e la critica. Scritti di storia dell’arte in memoria di Terisio Pignatti, a cura di M. A. Chiari Moretto Wiel e A. Gentili, Padova 2008, pp. 181-208.
alla fine del XVI secolo. Fu in questo periodo che l’edificio divenne un vero e proprio scrigno di tesori, di cui oggi non possiamo sfortunatamente più godere a causa del suo abbattimento, ma della cui magnificenza resta memoria nelle frammentarie cronache dei secoli passati.
Il presente elaborato si concentrerà prevalentemente sull’aspetto della committenza delle tele cinquecentesche, fino ad oggi pressoché ignorato dalla critica, ritenendo essa scontata l’ascrivibilità alla sola scuola della Santa Croce di tutte le opere d’arte presenti all’interno della chiesa. La mancanza di una verifica sistematica della documentazione esistente negli archivi ha infatti portato a delineare un quadro estremamente semplificato di una situazione che si presentava invece come molto più complessa e sfaccettata. Tale impostazione risente certamente dell’immagine delle confraternite che ci è stata consegnata dalla storiografia tradizionale, che vedeva in esse degli organismi elitari, chiusi in sé stessi e restii a qualsiasi forma di intromissione esterna. Si trattava tuttavia di un’astrazione, in quanto nei secoli passati era sì raro, ma non impossibile, che figure estranee alla cerchia dei confratelli interferissero nella vita e nelle vicende di una congrega. Ciò avvenne in particolar modo nei decenni immediatamente successivi al Concilio di Trento, quando i vescovi, in virtù dell’accrescimento della loro autorità, si resero protagonisti di svariati interventi in materia di associazionismo laicale, nel tentativo di riuscire ad esercitare una qualche forma di controllo anche su questi ambiti fino ad allora a loro completamente preclusi. In taluni casi, i provvedimenti riguardarono non solamente l’aspetto più prettamente gestionale delle confraternite, ma si estesero a tutta la sfera devozionale, includendo nell’azione riformatrice anche la produzione e il culto delle immagini sacre, in quegli anni viste come supporto indispensabile all’istruzione del fedele. Per quel che riguarda più specificatamente Santa Croce, aspetti quali la vastità e unitarietà del ciclo cristologico, la sua esecuzione per mano esclusiva di artisti veneziani, il tema scelto e il modo originale di trattarlo, inducono a ipotizzare la presenza di una figura che abbia funto da punto di contatto con l’ambiente veneziano. Infatti, le tele raffiguranti la Passione e morte di Cristo si discostano profondamente dalla tradizione locale, presentando esse una serie d’innovazioni che ebbero certamente come punto di riferimento i grandi cicli pittorici lagunari.
Pertanto, partendo da una revisione della documentazione archivistica esistente, si tenterà di ricomporre le vicende che sottesero alla decorazione della chiesa nel corso del Cinquecento, analizzando in particolare il ruolo che i differenti attori ebbero nella realizzazione di un tale programma iconografico, nonché le motivazioni che li spinsero a
prenderne parte. In vista di questo scopo, si considereranno dapprima le opere certamente attribuibili alla confraternita titolare, ovvero le pale che adornavano gli altari dell’aula. L’analisi stilistica e compositiva dei brani in questione sarà occasione per riflettere non solo sulla preparazione culturale dei laici crocesignati, ma anche sulle loro specifiche esigenze devozionali e, dunque, artistiche in relazione alla religiosità controriformista. Secondariamente, si passerà ad un esame di tipo contrastivo con le tele del ciclo cristologico, mirante a mettere in evidenza la profonda innovatività tematica ed esecutiva di queste ultime, un’attualità tale, come si è già detto, da imporre la ricerca di un ideatore esterno alla cerchia degli attardati Battuti. Premessa necessaria per affrontare l’ultima parte dell’indagine, sarà però la risoluzione di alcune questioni ancora sospese e dibattute dalla critica, prime tra tutte la puntuale individuazione di tutti e dieci i dipinti che componevano la sequenza narrativa e la loro datazione. Infine, dopo aver constatato una volta di più l’inadeguatezza intellettuale ed economica dei disciplinati a imitare i modelli veneziani, ci si focalizzerà sulla figura del committente ideale, ossia il vescovo Giovambattista Valier, per comprendere se le Storie della Passione di Cristo potessero o meno essere il frutto del suo progetto di perfezionamento della diocesi bellunese in senso ortodosso. La centralità del dibattito sulle modalità di fruizione dell’opera nel secondo Cinquecento impone inoltre un preambolo sull’involucro che conteneva siffatti capolavori, in vista di una più precisa definizione del loro impiego a fini educativi. Questa scelta di dilungarsi su un argomento non strettamente inerente l’oggetto della presente tesi, è inoltre dettata dalla volontà di estirpare errate convinzioni che per anni si sono tramandate meccanicamente di ricerca in ricerca, dando adito a valutazioni fuorvianti, e spesso, svilenti su un episodio in realtà di elevato livello.
LISTA DELLE ABBREVIAZIONI
ACSB= Archivio capitolare del Seminario di Belluno ACVB= Archivio della Curia vescovile di Belluno APC= Archivio Parrocchiale di Castion
ASCM= Archivio Storico del Comune di Belluno
ASoV= Archivio della Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo museale della Città di Venezia e dei comuni della Gronda lagunare
ASV= Archivio di Stato di Venezia ASB= Archivio di Stato di Belluno BCB= Biblioteca civica di Belluno BLB= Biblioteca Lolliniana di Belluno BNM= Biblioteca Nazionale Marciana
PREMESSA
LE FONTI PER LO STUDIO DELLE SCUOLE DI DEVOZIONE BELLUNESI
Fin dai primi secoli dopo il mille, la questione dell’espiazione del peccato andò acquistando un peso sempre più preponderante nella coscienza del fedele cristiano, fino ad assumere nel XIII secolo i connotati di un sentimento comunemente condiviso dalla collettività. Proprio in questi anni, infatti, si radicò gradualmente nella società l’idea di un’imminente fine dei tempi, acuita dalla diffusione del pensiero di Gioacchino da Fiore, che prospettò l’avvento del Regno dello Spirito, terza ed ultima età della storia. Il terrore di un giudizio incombente instillò quindi un generalizzato desiderio di redenzione in seno alla comunità cristiana, che, di fronte all’esempio vivente di S. Francesco d’Assisi, prese coscienza della propria completa estraneità agli ideali di vita apostolica professati sin dall’XI secolo dai movimenti religiosi popolari. Tale temperie determinò quindi intorno alla metà del Duecento una vera e propria svolta nella religiosità medioevale, che si tradusse in un rinato fervore devozionale, contraddistinto da un netto ripudio dello spirito di mondanità della Chiesa feudale e da nuove pratiche di fede. Alle profonde esigenze di mortificazione ed espiazione della popolazione rispose il movimento dei Flagellanti. Nato come moto spontaneo e improvviso nella Perugia del 1260 a seguito della predicazione dell’asceta Ranieri Fasani, il movimento si espanse a macchia d’olio in varie regioni d’Italia, arrivando a raggiungere una diffusione su larga scala. Il consenso riscontrato fu tale che la pratica della flagellazione a poco a poco si radicò negli usi e costumi delle differenti città e divenne addirittura motivo di aggregazione tra i laici. All’insediarsi di comunità penitenti corrispose, nella quasi totalità dei casi, la nascita di confraternite “di
Battudi”, associazioni penitenti con lo scopo precipuo di espletare atti di devozione e carità
al fine di assicurare la salvezza ultraterrena non solo del singolo, ma dell’intera comunità1. Grazie alla loro capacità di cambiare fisionoma e adattarsi al mutare dei tempi, queste congregazioni riuscirono a sopravvivere fino agli inizi dell’Ottocento, quando il Regno Italico decretò la loro abolizione e l’avocazione al Demanio dei loro beni.
Non altrettanto costante nel corso della storia fu invece l’attenzione che la critica riservò a tale fenomeno. Negli anni immediatamente successivi alle soppressioni napoleoniche,
1 R. MORGHEN, Ranieri Fasani e il movimento dei disciplinati del 1260, in AA.VV., Il movimento dei
Disciplinati nel settimo centenario dal suo inizio, Atti del convegno internazionale di studi, Perugia, 25-28 settembre 1960, Spoleto 1962, pp. 29-31.
scarsissimo, se non nullo, fu infatti l’interesse degli studiosi nei confronti di questi sodalizi, che nella coscienza comune venivano probabilmente ancora recepiti come presenza ovvia ed abituale in seno alla società. La loro memoria era infatti ancora troppo viva nelle menti della popolazione perché si potesse iniziare a considerare le confraternite come un fenomeno degno di essere analizzato, ed esse furono quindi ampiamente estromesse dagli studi storici, sociologici e storico-artistici del successivo secolo e mezzo. In tale lasso di tempo, gli studiosi si limitarono difatti a rapide e sintetiche menzioni all’interno di trattazioni solitamente dedicate a temi non strettamente attinenti, prive di un qualsivoglia reciproco collegamento. Una svolta significativa rispetto a questa tendenza si ebbe nel 1960, quando venne organizzato a Perugia il primo convegno internazionale dedicato al movimento dei disciplinati, che ebbe il merito di sottolineare la portata storica del fenomeno e di porre le basi per eventuali approfondimenti mirati sull’argomento2. Come sperato, il convegno aprì la strada ad una moltitudine di ricerche a livello locale, i cui risultati vennero in gran parte esposti negli atti di un secondo incontro svoltosi nel 19693 e nelle pagine dei quaderni curati dal neonato Centro di documentazione sul movimento dei Disciplinati.
Tali stimoli vennero però accolti con un certo ritardo nell’ambiente bellunese, dove i primi studi in materia di confraternite comparvero solamente a una decina d’anni di distanza dall’evento perugino. Pioniere in tal senso fu M. Sommacal, che nel 1972 dedicò un’ampia trattazione all’analisi e all’interpretazione della documentazione prodotta dai battuti di Castion, arrivando a tracciare un profilo abbastanza accurato di questa congregazione laica4. Allo stesso modo, qualche anno dopo, G. Fabbiani si concentrò sulle manifestazioni della devozione popolare nell’area cadorina, pubblicando alcuni articoli all’interno della rivista Archivio Storico di Belluno, Feltre e Cadore,5 che vennero poi in parte ripresi in un volumetto scritto da L. Bertoldi Lenoci6. Al di là di brevi notizie inserite nel già citato volume sulle chiese scomparse di Belluno, è però necessario attendere la fine degli anni Settanta perché compaia un lavoro esplicitamente dedicato ad una scuola posta entro le
2 AA.VV., Il movimento dei disciplinati nel settimo centenario del suo inizio. Atti del convegno
internazionale di studi, Perugia, 25-28 settembre 1960, Spoleto 1962.
3 AA.VV., Risultati e prospettive della ricerca sul movimento dei disciplinati. Atti del convegno
internazionale di studi, Perugia, 5-7 dicembre 1969, Perugia 1972.
4 M. SOMMACAL, Analisi ed interpretazione dei documenti esistenti nell'archivio storico di Castion, relativi
alla Pieve e alla Confraternita dei battuti (sec. 13°-15°), tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1972-1973, rel. G. Mantese.
5 G. FABBIANI, I Frades e i Battuti in Cadore, Belluno 1976; G. FABBIANI, La scuola dei Battuti di Selva di
Cadore, in Archivio storico di Belluno Feltre e Cadore, LII, 237 (ottobre-dicembre 1981).
mura cittadine. Si tratta dello studio pubblicato nel 1978 da G. De Bortoli sulla confraternita di Santa Maria dei Battuti, in cui l’autore, partendo dall’analisi degli statuti trecenteschi, riflette sulla struttura, sul funzionamento e sulla composizione di uno dei sodalizi più noti e antichi della città.7 Dopo tale episodio, per lungo tempo il silenzio calò nuovamente sull’argomento e fu solamente in anni più recenti, probabilmente sulla scorta dell’esempio dato da altri centri italiani, che studiosi come C. Gazzola8, M. Curti9, D. Vignaga10 e G. Bertiato11 iniziarono ad interessarsi alla documentazione conservata negli archivi locali per avviare un’analisi delle informazioni di base relativamente ad alcune scuole secondo un taglio storico-sociologico. Numerose sono però ancora le carte da consultare e i casi da vagliare prima di poter arrivare a tracciare un quadro sufficientemente esauriente della vita confraternale bellunese attraverso i secoli. Consistenti sono ancora le lacune che si riscontrano nell’affrontare l’argomento e ancor di più lo sono i punti su cui è necessario fare chiarezza; basti pensare, ad esempio, alla totale assenza di ricerche dedicate alle scuole di arti e mestieri, o di approfondimenti incentrati su particolari aspetti della vita di questi organismi, quali l’assistenza ospedaliera e la committenza artistica. Nel colmare tali vuoti sarebbe opportuno partire da un’analisi sistematica della situazione cittadina, per ampliarsi poi ad includere i casi periferici, essendo stato in più occasioni appurato come gli statuti e gli usi delle scuole intra moenia funsero da modello per quelli dei sodalizi posti al di fuori della cerchia urbana.
La prima difficoltà che si incontra nell’avvicinarsi allo studio della chiesa di Santa Croce e di ciò che ad essa attiene è una certa esiguità della documentazione esistente, che purtroppo impedisce una ricostruzione lineare ed accurata delle vicende che la videro protagonista nel corso dei secoli. Ciò è vero in particolar modo per il primo periodo di vita dell’edificio, che risulta di complessa definizione, essendo la quasi totalità della
7 G. DE BORTOLI, Statuto della Scuola dei Battuti bellunesi, Belluno 1978.
8 C. GAZZOLA, La Confraternita del Sacratissimo corpo di Cristo a Belluno: elementi per una storia della
sua evoluzione fino alla fine del 16° secolo, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1993-1994, rel. Alberto Vecchi.
9 M. CURTI, Le confraternite a Mel, Trichiana, Lentiai e Villa di Villa, Belluno 2011; M. CURTI, A confronto
tra loro tre statuti dei Battuti del ‘400, in Dolomiti: rivista di cultura ed attualità della provincia di Belluno, XXXV, 4 (agosto 2012), pp. 20-26; M. CURTI e D. VIGNAGA, Su due statuti cinquecenteschi della confraternita del Santissimo Corpo di Cristo, in Dolomiti: rivista di cultura ed attualità della provincia di Belluno, XXXVI, 2 (aprile 2013), pp. 23-28.
10 D. VIGNAGA, Statuto della confraternita di Santa Maria dei Battuti della Pieve d’Alpago, in Dolomiti:
rivista di cultura ed attualità della provincia di Belluno, XXXV, 4 (agosto 2012), pp. 15-19.
11 G. BERTIATO, Scuola di S. Maria dei Battuti: gli iscritti nel ‘300 a Belluno (I), in Dolomiti: rivista di
cultura ed attualità della provincia di Belluno, XXXVII, 4 (agosto 2014), pp. 34-41; G. BERTIATO, Scuola di S. Maria dei Battuti: gli iscritti nel ‘300 a Belluno (II), in Dolomiti: rivista di cultura ed attualità della provincia di Belluno, XXXVII, 5 (ottobre 2014), pp. 18-24.
documentazione tre e quattrocentesca relativa alla confraternita titolare andata dispersa o completamente perduta. Tragica sorte toccò infatti agli incartamenti conservati presso l’archivio vescovile, bruciati nel rogo che nel 1471 devastò Duomo ed annessa sagrestia12. Si tratta di un evento significativo nella storia locale, che ancor oggi impone un limite notevole nella ricostruzione del quadro storico e religioso della diocesi di Belluno nei secoli precedenti al Cinquecento. In anni più recenti, probabilmente a seguito delle soppressioni napoleoniche, andò invece incontro alla dispersione la maggior parte dei materiali prodotti dalla confraternita stessa. Un inventario stilato nell’agosto 1782 dal notaio Luigi Selvi segnalava infatti la presenza nell’archivio della scuola di un numero molto vasto di volumi, tra cui statuti, matricole, libri dei conti e delle parti, strumentari ed inventari, che dal 1368 in poi registrarono minuziosamente vita ed attività del sodalizio13. Gli incartamenti più antichi oggi conservatisi risalgono alla fine del Quattrocento e risultano inoltre essere una fonte pressoché inutilizzabile, trattandosi di fogli sciolti, non relazionati tra di loro. Di conseguenza, le sporadiche informazioni in nostro possesso ci consentono solamente di formulare delle ipotesi su quella che doveva essere la situazione nei secoli XIV e XV e di appurare il verificarsi anche a livello locale di fenomeni di ampia portata che in quel periodo storico interessarono l’intera Europa cattolica.
È perciò necessario attendere la metà del Cinquecento per disporre di una documentazione più abbondante ed esauriente. Le carte prodotte dalla confraternita, in particolar modo, un libro contenente le deliberazioni del periodo 1550-158214, un registro dei conti della massaria tra 1574 e 162215, uno strumentario degli anni 1575-162216 ed alcuni catastici coevi17, sono la fonte principale da cui trarre informazioni utili a tracciare un profilo coerente della congregazione laica in epoca moderna. La lacuna più consistente si ha purtroppo negli anni in cui venne presumibilmente ideato e realizzato il ciclo cristologico, ovvero negli anni Novanta, essendo i volumi contenenti le decisioni prese dai vertici della scuola tra 1583 e 1685 irreperibili.
12 Anche se la figura del vescovo vide ufficialmente sancita la propria autorità in ambito confraternale
solamente con il Concilio di Trento, già nel Medioevo le scuole erano chiamate ad interpellarlo per questioni quali l’esame degli statuti, la consacrazione dell’edificio di culto e l’approvazione della nomina dei Cappellani che in questi sodalizi celebravano messa. A tal proposito di veda M. DAL MAS e A. GIACOBBI, Chiese scomparse di Belluno, Belluno 1977, p.198.
13 ASB, Confraternite e corporazioni soppresse, b. 28, c. 37r. 14 Ivi, b. 24, f. 1.
15 Ivi, b. 30. 16 Ivi, b. 26.
A partire da tale momento, fanno inoltre la loro comparsa dei nuovi strumenti di studio, utili in particolar modo a chiunque intenda approfondire argomenti di carattere religioso: gli atti delle visite pastorali. Caldeggiate dal Concilio di Trento con lo scopo precipuo di “propagare la dottrina sacra e ortodossa estromettendo le eresie, difendere i buoni
costumi, correggere quelli cattivi e con esortazioni esortare il popolo alla devozione, alla pazienza e all’innocenza” 18, le visite pastorali costituiscono una testimonianza preziosa dello stato materiale e spirituale delle diocesi e del loro mutare attraverso i secoli. Alcuni vescovi ebbero infatti cancellieri e attuari solerti, che descrissero in maniera minuziosa gli ambienti visitati e trascrissero con accuratezza le disposizioni vescovili, permettendoci così di avere in certi casi un’idea abbastanza precisa della fisionomia di edifici e persone. Per quello che riguarda più specificatamente Belluno, poche sono le descrizioni di chiese cittadine conservatesi, probabilmente, ipotizzano M. Dal Mas e A. Giacobbi, perché era più agevole per i presuli controllarle diversamente19. Tuttavia, l’incrocio dei dati ricavati in periodi differenti consente di tracciare un quadro sufficientemente esauriente. La concentrazione maggiore si ebbe negli anni immediatamente successivi alla chiusura del concilio tridentino, quando i prelati, alimentati dal ridestato fervore cattolico e sotto la minaccia dell’avanzata delle eresie, si mostrarono particolarmente solerti nel verificare lo stato della cura d’anime sotto la loro giurisdizione. Basti pensare che il veneziano Giovanni Battista Valier (1575-1596) si rese protagonista di una serrata serie di visite, esaminando in prima persona la diocesi per ben tre volte durante il suo mandato (una prima volta tra il giugno 1576 e il maggio 157820, una seconda tra luglio 1584 e luglio 158521 e una terza tra agosto e settembre 159322), mentre il suo successore, Luigi Lollino (1596-1625), ne completò addirittura cinque. La verifica dell’applicazione delle norme conciliari nelle città maggiori e nelle zone di confine non competeva però solamente ai gradi intermedi della gerarchia ecclesiastica, ma anche a quelli più elevati. Non fu un caso se nel 1584 papa Gregorio XIII decise di inviare a Belluno il vescovo di Parenzo Mons. Cesare da Nores, suo fidato collaboratore, per assicurarsi una testimonianza super partes sullo
18 Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo, G. L. Dossetti, C. Leonardi e P. Prodi,
Bologna 1991, p. 175.
19 M. DAL MAS e A. GIACOBBI, Chiese scomparse… cit., p.11.
20 ACVB, Visite pastorali (1575-1596), b. II, fasc. 1; la visita alle chiese cittadine viene documentata anche
in ACVB, Atti vescovili e curiali (1575-1596), b. XI, fasc. 21.
21 ACVB, Visite pastorali (1575-1596), b. II, fasc. 11; notizie riguardanti la visita alle chiese cittadine si
trovano anche in ACSB, Cartella testamenti e visite (1550-1600), ff. 1-18.
22 ACVB, Visite pastorali (1575-1596), b. II, fasc. 13. Si tratta di una visita che il Vescovo, per motivi di
salute, non portò a compimento. A tal proposito si veda: E. DE PELLEGRIN, Il vescovo i Belluno Giovanni Battista Valier (1575-1596) e le sue visite pastorali, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Magistero, a.a. 1974-1975, rel. A. Stella, p. 130.
stato di fatto della città23. In questi anni decisivi nella lotta all’eresia, la salvaguardia delle zone che, come il bellunese, erano considerate a rischio perché vicine ai paesi intaccati dal luteranesimo e dal calvinismo era infatti troppo importante per concedere una qualsivoglia deroga alle disposizioni vigenti. Evidenti erano ancora a tale data le discrepanze tra il modello ideale di Chiesa delineato a Trento e la realtà dei fatti, tanto che le prescrizioni imposte dal visitatore si tradussero in interventi di modifica significativi, che intaccarono usi e costumi secolari. Altri dati utili ad integrare il quadro possono essere reperiti negli atti appartenenti a secoli posteriori, più numerosi ed esaustivi rispetto alle fonti fino qui menzionate. La relazione più rimarchevole per ricchezza di dettagli risale infatti al XVIII secolo e fu redatta in occasione della visita pastorale del vescovo Valerio Rota del giugno 1723. In tale circostanza il Vicecancelliere Carlo Regozza, scrisse con cura il diario della visita alla Cattedrale e alle chiese della città dal Decreto iniziale agli ordini finali e lo fece seguire da una serie di quattordici fascicoli in cui vennero descritti singolarmente gli edifici nelle loro strutture architettoniche; gli oggetti d’arte, le suppellettili e i paramenti liturgici in essi contenuti, nonché le funzioni religiose e le attività che al loro interno si svolgevano24. Le numerose informazioni che dal manoscritto si ricavano, benché di prima mano, necessitano comunque di attenta verifica, al fine di comprendere se esse possano o meno essere applicate retrospettivamente al periodo di nostro interesse. Un’analisi delle deliberazioni della confraternita, sempre meticolosa nel registrare ogni minimo intervento e spesa, sarà utile a cogliere se vi siano state modifiche sostanziali alla struttura nel passaggio da un secolo all’altro.
Non meno importanti e funzionali alla trattazione sono le cronache redatte dagli storici locali, in primis l’Historia della Città di Belluno di Giorgio Piloni, pubblicata a Venezia nel 1607 dall’editore Giovanni Antonio Rampazetto.25 Si tratta di un poderoso testo, composto di nove libri, in cui l’autore, servendosi di informazioni di prima mano, narra dettagliatamente i fatti occorsi in città dalle origini all’anno 1585. A differenza delle sezioni dedicate al periodo antico, che si limitano a ripetere senza alcun controllo critico le strampalate fantasie degli storici precedenti, quelle concernenti il secolo di nostro interesse sono da considerarsi come fonte attendibile. Gli estremi anagrafici dell’autore (1539-1611), infatti, consentono di qualificarlo quale testimone diretto di buona parte degli eventi
23 ACVB, Atti vescovili e curiali (1575-1596), b. X.
24 ACVB, Visite pastorali, b. XVIII, 2. In particolar modo, la visita alla chiesa di Santa Croce si trova ai ff.
50-54.
25 G. PILONI, Historia della Città di Belluno, a cura di M. Perale, Bologna 2002. Lo stesso autore nella
presentazione del volume dichiara che la pubblicazione avvenne a sette anni di distanza dal completamento della stesura del testo, collocabile quindi approssimativamente intorno al 1600.
cinquecenteschi riportati, inclusa probabilmente la realizzazione del ciclo cristologico di Santa Croce.
Per quel che riguarda più specificatamente l’oggetto del primo capitolo, ovvero la struttura e l’aspetto dell’edificio chiesastico, un’altra tipologia di fonte viene in nostro aiuto; si tratta delle fonti figurate, particolarmente utili, in caso di costruzioni scomparse, nel dare un’idea più concreta di quella che era la loro fisionomia. Sfortunatamente, la chiesa venne abbattuta negli anni Trenta dell’Ottocento per far posto alla via pubblica (l’attuale via 1° Novembre) e non ci resta quindi alcun materiale fotografico che ne testimoni in maniera oggettiva le sembianze26. Pur presentando un grado minore di attinenza alla realtà e una maggior idealizzazione, dipinti e vedute a stampa del centro cittadino sopperiscono a questa mancanza, permettendoci anche di comprendere il rapporto esistente tra edificio e tessuto urbano circostante.
26 Ci resta invece una fotografia della canonica e della casa del priore, originariamente posizionate a fianco
della chiesa, nonché di un palazzetto di proprietà della Scuola, che vennero demoliti tra gli anni Sessanta e Settanta per far posto a nuovi edifici. Le immagini sono riprodotte in M. DAL MAS e A. GIACOBBI, Chiese scomparse… cit., p.103.
1. L’EDIFICIO
1.1 IL TRECENTO: LA FONDAZIONE
Prima di addentrarsi nel cuore dell’argomento oggetto di tesi, pare doveroso fornire una rapida panoramica su alcune questioni inerenti le origini di Santa Croce, fino ad oggi ampiamente tralasciate dalla critica o da essa mal interpretate. Per comprendere al meglio i futuri sviluppi della chiesa, la ricostruzione del periodo trecentesco è infatti operazione imprescindibile, ma estremamente complessa data l’esiguità delle fonti.
Il primo punto fermo nella storia dell’edificio è rappresentato dall’anno 1356. È lo storico Giorgio Piloni a registrare nelle pagine della sua Historia che “in quest’anno fu edificata in
Cividale la chiesa di Santa Croce della disciplina nella contrada di Rudo dalla Fratelea de ditta Scola”1. Benché ad una rapida lettura l’affermazione sembri non destare alcun dubbio, è tuttavia opportuno chiedersi che cosa l’autore intenda con il termine “edificata”, in quanto, a seconda dei casi, nei documenti antichi a tale parola vengono attribuiti significati anche molto distanti tra di loro, corrispondenti a differenti gradi di completamento dell’opera. La critica locale ha fino ad oggi ritenuto che la data in questione coincidesse con la conclusione dei lavori di edificazione, ma alcuni elementi spingono a mettere in discussione questa certezza e a ipotizzare uno scenario alternativo. Il fattore principale da prendere in considerazione è sicuramente costituito dalla data di consacrazione dell’edificio. Il notaio Girolamo Regozza, stilando nel 1575 l’elenco dei beni immobili della confraternita titolare, annota, in apertura, che la chiesa con i suoi quattro altari venne “consacrata l’anno MCCCLXVIII adì XVI Aprile Indition VI”2, vale a dire a dodici anni di distanza dal suo presunto completamento. Un lasso di tempo così ampio è giustificabile solamente ammettendo che nel 1356 l’impresa fosse tutt’altro che ultimata. Sappiamo infatti per certo che i lavori si protrassero almeno fino all’anno precedente la benedizione, quando Centoni de Calcarrosi, allora capitano delle guardie del castello cittadino, decise di far innalzare per sua devozione “la Cupola et Altare di S.
Antonio nel tempio della Croce” e di dotarlo di una cospicua rendita per la celebrazione di
1 G. PILONI, Historia… cit., p. 283. La notizia viene riportata anche in F. MIARI, Dizionario
Storico-artistico-letterario bellunese, Belluno 1843, p. 140. Nel loro testo dedicato alle chiese scomparse di Belluno, M. Dal Mas e A. Giacobbi trascrivono erroneamente le parole del Piloni, indicando quale anno di edificazione non il 1356, bensì il 1365. A tal proposito si veda M. DAL MAS e A. GIACOBBI, Chiese scomparse… cit., p. 97 e p. 109.
messe3. Alla luce di queste osservazioni, sarà quindi opportuno rettificare le notizie tramandateci dalla critica e supporre, più ragionevolmente, che la data in questione coincida approssimativamente con la posa della prima pietra.
L’annotazione del Piloni è preziosa anche per un secondo motivo; essa, infatti, ci fornisce le informazioni di base per comprendere le circostanze entro cui inserire la genesi della chiesa di Santa Croce e di tracciare, almeno a livello generale, il profilo dei protagonisti delle vicende trecentesche. La sua edificazione fu infatti l’esito di quell’ondata di fervore devozionale che nella seconda metà del Duecento rinsavì le coscienze sopite dei fedeli cristiani di tutta Europa e diede luogo a manifestazioni imponenti di esaltazione religiosa, la più clamorosa delle quali fu, come già detto, il movimento della Disciplina. Al moto spontaneo promosso da Ranieri Fasani nel maggio del 1260 “parteciparono nobili, plebei,
vecchi e giovani, fanciulli perfino di cinque anni, ignudi tranne che nelle parti vergognose, che per le piazze della Città a due a due incedevano in processione, ciascuno portando in mano un flagello di corregge, colpendosi con gemiti e pianti sulle spalle, sino a farne scaturire sangue, implorando perdono dei loro peccati da Dio e dalla Madonna. […] E non soltanto di giorno, ma anche di notte con ceri accesi, nell’asprissimo inverno, a cento, a mille, giravano intorno alle chiese, si prostravano davanti agli altari, procedendoli i loro sacerdoti con ceri e vessilli”.4
A Belluno il movimento approdò con un certo ritardo rispetto alle città più baricentriche, ovvero tra la fine del 1260 e l’inizio del 12615, ma non per questo esso si manifestò con un’intensità minore. Benché non siano definibili con precisione i caratteri locali del fenomeno (data l’irreperibilità di qualsivoglia descrizione concernente le processioni penitenti ivi svoltesi6), è tuttavia possibile prendere atto dei risvolti che tali eventi ebbero in ambito montano. Qui il movimento flagellante si dimostrò pienamente in grado di rispondere alle esigenze di mortificazione ed espiazione che, al pari dei centri più popolosi,
3 G. PILONI, Historia… cit., p. 293.
4 Annales S. Justinae Patavini, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, XIX, Hannover 1866, p.
179. La traduzione italiana del passo è riportata in G. MONTI, Le confraternite medioevali dell’Alta e Media Italia, Venezia 1927, p. 25.
5 Ibid.
6 L’unico riferimento a processioni penitenti oggi esistente è inserito tra le pagine della Cronaca del canonico
Clemente Miari. Qui l’autore registra la comparsa nel bellunese di una compagnia che, seppur non riconducibile alla predicazione del Fasani, era evidentemente animata dai medesimi propositi dei battuti perugini. Egli scrive infatti: “L’anno stesso nel mese di giugno sorse una compagnia detta la Compagnia bianca, la quale veniva dall’Inghilterra in Lombardia, e invocava la misericordia dell’Altissimo, e andava di popolo in popolo, facendo processioni per nove giorni in continuo digiuno, a cantava: Stabat mater dolorosa/ Juxta crucem lacrymosa/ dun pendebat Filius; e in fine ripeteva: Misericordia, Virgo pia: Pax, o Vergine Maria: Non guardare al nostro errore”. La citazione è tratta da C. MIARI, Cronaca bellunese (1383-1412) del Canonico Clemente Miari; tradotta e ora primamente pubblicata per cura del co. Damiano Miari, Cavessago 1873, rist. anast. 2006, p. 24.
andarono emergendo a tutti i livelli della scala sociale nella seconda metà del Duecento e di indirizzare questa rinata sensibilità verso espressioni più stabili. Il monito del Fasani a praticare la penitenza come “mezzo più adatto a placar l’ira divina” dovette avere particolare impatto sulla popolazione, in quegli anni seriamente provata dai molteplici flagelli che su di essa si stavano abbattendo7. Gli eventi straordinari a cui i cittadini non erano in grado di dare una spiegazione logica, come catastrofi naturali ed epidemie, venivano infatti comunemente ritenuti una punizione dell'Onnipotente nei confronti dell’uomo che non era stato capace di attuare il Regno di Dio in terra, avendo esso prediletto esso uno stile di vita lontano dall’ideale apostolico professato da Gesù.8 A tali calamità andavano poi ad aggiungersi i sanguinosi conflitti che in questo periodo scuotevano l’intera Europa, non senza ripercussioni a livello locale. Al contrasto che aveva posto di fronte l’uno contro l’altro il Papato e l’Impero si era infatti accompagnata all’interno della città la guerra spietata delle fazioni guelfa e ghibellina, che venne ancor più fomentata dai ripetuti cambi di potere a cui Belluno sovvenne.9 È sufficiente scorrere le cronache municipali dell’epoca per rendersi conto dell’intensità che tale lotta arrivò ad assumere e delle conseguenze che essa ebbe sullo spirito religioso della gente, che vedeva sconvolte le idee di ordine, pace e giustizia sulle quali era fondato l’ordinamento teorico della società medioevale. L’entusiasmo di coloro che presero parte a queste fustigazioni collettive non dovette però esaurirsi con il 1261, anzi, tale data rappresentò solamente un punto di partenza per un fenomeno che in seguito assunse connotati via via sempre più stabili. La partecipazione a questi eventi fu infatti motivo d’incontro tra persone animate da uno stesso ideale di vita, che da allora in poi scelsero di associarsi in maniera permanente, al fine di applicare il modello astratto da loro professato alla realtà quotidiana. L’eco delle processioni flagellanti in città fu talmente vigoroso che, sul lungo periodo, esso diede l’impulso alla nascita non di una, ma ben due confraternite di battuti entro le mura:
7 Date le precarie condizioni igieniche della popolazione e il suo generale mal nutrimento, frequenti furono le
epidemie che imperversarono nella Belluno medioevale. Tuttavia, esse furono solamente un preludio alla più tragica ondata di peste del 1348, che portò la popolazione a circa 15.000 anime. Il dato è desunto da: G. DE BORTOLI, Vita bellunese nel Trecento, Belluno 1978, p.15.
8 R. MORGHEN, Ranieri Fasani e il movimento dei disciplinati… cit., pp. 28.
9 M. PERALE, Il Medioevo, in Storia di Belluno dalla preistoria all’età contemporanea, a cura di G. Gulino,
Sommacampagna 2009, p. 127. Prima di passare definitivamente sotto controllo veneziano nel 1420, Belluno cambiò padrone per ben undici volte, senza che i differenti Vescovi, effettivi titolari della giurisdizione, potessero intervenire a proprio vantaggio. Quest’ultimi ne uscirono fortemente indeboliti, poiché si videro letteralmente svuotati del proprio potere civile. Per approfondimenti dettagliati a riguardo si veda: Ivi, pp. 125-138.
Santa Maria (1310)10 e Santa Croce (1350 circa). Ad oggi non si conoscono tuttavia le motivazioni che spinsero l’esigua popolazione, in parte già inserita tra le fila di Santa Maria dei Battuti, ad aggregarsi in una seconda comunità penitente, per giunta insediata nella stessa zona della città rispetto all’altra. Non è da escludere che la violenta epidemia di peste che tra 1348 e 1349 dilagò nel bellunese, decimandone gli abitanti, nonché il disastroso terremoto che nello stesso anno devastò il centro, abbiano in qualche modo contribuito a ridestare nei sopravvissuti il desiderio di estirpare il peccato, a loro detta, ancor eccessivamente dilagante. Qualora però si cerchi di fare luce sulla questione istituendo un confronto con altre località in cui si verificò la medesima situazione di convivenza, si apprenderà che le due confraternite di disciplina nella maggior parte dei casi facevano riferimento ognuna ad un differente ordine religioso, di norma rappresentato dai francescani o dai domenicani, e che tra di esse sussisteva spesso una certa rivalità.11 Non era infatti infrequente al tempo che le comunità di frati in via di affermazione provassero interesse nel promuovere la nascita di queste congregazioni affini nel modus vivendi, in cui vedevano una valida opportunità per penetrare con chiese e conventi in località a loro ancora precluse.12 Per quel che concerne il nostro caso, fonti certe attestano che Santa Maria dei Battuti venne in un primo momento retta con la guida e l’aiuto dei francescani della vicina contrada di San Pietro, che esattamente in quegli anni erano alla ricerca di fondi per terminare l’edificazione del proprio luogo di culto.13 È il proemio agli statuti del 1335 a dichiarare in modo esplicito che la scuola era sorta col consiglio ed aiuto di Giovanni di Asilo, guardiano del convento, il quale, con l’aiuto di persone di buona volontà, si era adoperato presso il Vescovo per ottenere la licenza e il permesso per la sua istituzione.14 Tale dipendenza si protrasse però solamente per i primi anni di vita del sodalizio, dal momento che già nel 1332 Gorgia di Lusa “esentò, liberò e francò” da ogni
10 G. PILONI, Historia… cit., p. 241: “Fu quest’anno [1310] nella città di Belluno eretta la fratelea de Santa
Maria de Battuti nella contrada di Madeago, la qual hora si dice, Contrada di S. Maria”. La notizia viene poi ripresa e verificata in G. DE BORTOLI, Statuto della Scuola…cit., p. 38.
11 G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, I, Roma 1977, pp.
365-370 e pp. 384-386. È il caso di Firenze, dove, si venne addirittura ad aprire un vero e proprio conflitto tra i penitenti supportati dai Domenicani e quelli appoggiati dai Francescani, che terminò solamente per intervento papale.
12 G. DE BORTOLI, Statuto della Scuola…cit., p. 43.
13 Come si legge in un’iscrizione collocata all’interno della Cappella Fulcis, la chiesa, principiata alla fine del
Duecento, venne ultimata solamente nel 1326. A tal proposito: Belluno: storia, architettura, arte, a cura di G. De Bortoli, A. Moro e F. Vizzutti, Belluno 1984, pp. 138-140.
vincolo di servitù la chiesa, permettendo quindi ai flagellanti di gestirla a proprio piacimento.15
Non essendosi conservato alcun documento inerente la confraternita di Santa Croce per i secoli XIV e XV, risulta invece difficile, se non impossibile, comprendere le circostanze specifiche che portarono alla sua istituzione e quindi verificare se vi sia stato o meno il coinvolgimento di qualche ordine religioso. Pare tuttavia improbabile che i domenicani abbiano apportato un qualche contributo alla nascita della congrega, giacché la loro ideologia non riuscì mai a radicarsi in seno alla società bellunese. Il fatto che l’attività di predicazione di questi padri si limitò a sporadiche apparizioni di singole figure e non si concretizzò mai nella fondazione di una comunità stabile,16 li pose in una condizione ben differente da quella dei francescani di San Pietro, che difficilmente gli permise di reclamare presso il Vescovo la creazione di una scuola di propria pertinenza. Certo però è che la confraternita di Santa Croce rappresentò fin da subito un punto di riferimento per l’intera comunità. Il successo riscosso tra i vari ceti fu infatti tale che essa riuscì in breve tempo ad accumulare il capitale necessario alla costruzione di un proprio luogo di preghiera17, circostanza questa, come si vedrà, alquanto anomala per il tempo.
15 BLB, ms. 60, Statuta Scholae Batutorum Belluni, c. 97v-98r. Il documento si trova trascritto anche in
BCB, ms. 494, Raccolta Pellegrini, f. 205.
16 M. PERALE, Il Medioevo… cit., p. 124. Fonti documentarie (G. PILONI, Historia… cit., p. 203) rilevano
come a Belluno i domenicani diedero avvio alla loro predicazione in contemporanea con i francescani, nell’anno 1230.
17 La neonata confraternita di Santa Croce doveva essere al tempo già abbastanza ricca, dal momento che il
vescovo concedeva il permesso ad edificare una chiesa solamente dopo aver appurato che l’ente titolare avesse entrate sufficienti per la sua successiva manutenzione ed illuminazione. Cfr. M. CURTI, Chiese scomparse nelle Pievi di Mel, Trichiana e Lentiai, Belluno 2007, p. 24.
Fig. 1
Belluno alla metà del ‘300 nella ricostruzione di M. Dal Mas e A. Giacobbi 1) Piazza di Foro; 2) Cattedrale protoromanica; 3) Chiesa di S. Martino; 4) Chiesa di S. Giovanni Battista; 5) Episcopio; 6) Palazzo Pretorio; 7) Loggia comunale; 8) Castello; 9) Chiesa di S. Giuliana; 10) Pusterla; 11) Porta Ussolo; 12) Porta Dojona; 13) Castello della Motta; 14) Castello di Porta Rugo; 15) Chiesa e convento di S. Pietro; 16) Chiesa e åospedale di S. Maria dei Battuti; 17) Chiesa di S. Croce; 18) Chiesa di S. Lucano; 19) Chiesa di S. Andrea; 20) Chiesa e ospedale di S. Maria Nova
Come si può constatare osservando la ricostruzione in pianta della Belluno medioevale fatta da Dal Mas e Giacobbi18 (fig. 1), numerose erano le chiese che allora al suo interno trovavano posto. Eccezion fatta per la Cattedrale, di epoca protoromanica, e per S. Giovanni Battista, secondo la tradizione fondata dal vescovo Odelberto nel 1012 o 1030, la totalità degli edifici di culto presenti intra moenia alla metà del Trecento era di recente nascita. L’ondata di fervore devozionale che travolse il mondo occidentale sotto la spinta dei neonati ordini mendicanti, incoraggiò fortemente l’edilizia religiosa anche nel bellunese, che si manifestò in un primo momento extra moenia, con la costruzione dei conventi di S. Biagio di Campestrino e S. Gervasio per i cistercensi (1212), e poi intra
moenia, con l’erezione, in successione serrata, delle chiese di S. Giuliana (1237), S.
Martino (1309), S. Pietro (1326)19, S. Maria dei Battuti (1330), S. Andrea (1350), S. Croce (1356) e S. Lucano (1396). Eccezion fatta per le opere di difesa, così indispensabili in quei tempi bellicosi, tali complessi rappresentarono, in realtà, l’unico episodio architettonicamente rilevante all’indomani del mille. Le ragioni del mancato sviluppo dell’edilizia civile e “pubblica” nei secoli XIII e XIV sono da ricercarsi nell’assetto politico e sociale della giurisdizione. Se da un lato, infatti, il potere esclusivo del vescovo-conte impedì di affiancare all’Episcopio nuovi palazzi per il governo, dall’altro, lo stato di estrema indigenza in cui versava la popolazione scoraggiò qualsiasi forma di ricerca estetica sulle abitazioni.20
La sistemazione che per le chiese sopracitate si scelse all’interno del tessuto urbano dovette essere, nel lontano Trecento, ben meditata. L’area della città che si predilesse fu, infatti, quella di più recente formazione, nata dall’annessione al centro dei differenti borghi che nel corso del periodo comunale si erano venuti sviluppando al di fuori della cerchia muraria alto medioevale, come prolungamento verso sud di via Mezzaterra. Tale prassi venne inaugurata dai francescani, che, all’indomani del loro insediamento (ante 1232), decisero di colonizzare con un primo santuario la parte nord di questo spazio, al tempo ancora disabitata ed incolta, secondo un uso ormai invalso tra gli ordini mendicanti. 21 A
18 Tale ricostruzione, benché datata, può essere considerata attendibile. Essa è infatti stata realizzata
confrontando le notizie tratte da fonti scritte con i resti della città antica esistenti sotto l’attuale manto stradale. Le conclusioni che Dal Mas e Giacobbi traggono a proposito del tessuto urbano trecentesco sono state inoltre confermate da studi storici più recenti.
19 La data si riferisce al secondo edificio che i francescani fecero edificare al posto della struttura originaria
duecentesca, probabilmente non più rispondente alle crescenti esigenze dei frati.
20 A. SENO, Iconografia di Belluno e di Feltre, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Facoltà di
Magistero, A.A. 1973-1974, relatore C. Semenzato, pp. 11-17.
21 M. PERALE, Il Medioevo… cit., pp. 124-125. Il perimetro murario della città era all’epoca molto più
mano a mano che il limite della cinta si andò spostando verso la Piave, nuovi edifici fecero la loro comparsa. Santa Croce fu una delle ultime comunità a stabilirsi nella zona in questione e, di conseguenza, essa si appropriò dell’estremità meridionale dell’abitato, recentemente ricostruita a partire dai ruderi di antichi palazzi che qui trovavano posto (fig. 2).22 Questo, tuttavia, non impedì alla confraternita di scegliere per sé un luogo particolarmente preminente, in grado di darle risalto tra la moltitudine di sodalizi allora esistenti. La collocazione a chiusura dell’asse viario principale (via Mezzaterra), nonché la prossimità ad uno degli ingressi cittadini (Porta Rugo) dovettero certamente sopperire alla distanza dai centri nevralgici di Piazza Duomo e Piazza Foro e conferire allo spoglio volume una visibilità che probabilmente mancava ai suoi simili.
Fig. 2
Resti di fondazioni relazionabili con la chiesa di Santa Croce
La loro diffusione fu così capillare che entro la fine del secolo quasi ogni contrada poté vantare un proprio edificio di culto e, anzi, la loro presenza divenne un tale punto di
Castello e la Cattedrale. Pertanto, la prima chiesa francescana, poi rimossa per far spazio all’edificio del 1326, si collocava ancora extra moenia.
22 G. PILONI, Historia… cit., p. 286: “Segue poi la contrada di Rudo, dov’è una porta della Città, che di
Rudo vien detta: Quivi è la Chiesa di Santa Croce della disciplina. Habitavano questa contrata la maggior parte della famiglia Noxadana. […] Fu così detta questa contrada per esser stata molto tempo desoluta, e per le gran rovine delli Edificij che in quel loco si vedevano, con le quali fu di novo fabricata: Non volendo questo nome (Rudo) altro inferire, che la materia de vecchi pavimenti e de edificij dirupati, mescolata insieme con calcina, sassi, legna, et harena”. Recenti scavi hanno messo in luce la presenza in quest’area di antiche domus romane e di officine artigiane; a tal proposito si veda: Immagini dal tempo: 40.000 anni di storia nella provincia di Belluno, a cura di A. Broglio, Belluno 1992, pp. 150-151.
riferimento, che molti dei quartieri cambiarono la loro originaria denominazione per assumere la medesima intitolazione delle chiese al loro interno situate: la contrada Madeago divenne S. Maria dei Battuti, la contrada Ripa si trasformò in S. Pietro e la contrada Rudo cambiò il proprio nome in S. Croce.
Un elemento tuttavia distingueva Santa Croce e Santa Maria dei Battuti rispetto agli altri complessi religiosi sopra elencati: la committenza.23 Nel loro testo dedicato alle chiese scomparse di Belluno, M. Dal Mas e A. Giacobbi annotano erroneamente come ciascuna di esse venne innalzata per precisa volontà della confraternita che vi avrebbe poi trovato posto.24 Un’analisi più attenta delle fonti documentarie permette, infatti, di rilevare che tali circostanze in realtà si verificarono solamente nei due casi sopra citati. Le restanti associazioni laiche che poterono permettersi un ambiente completamente autonomo, andarono infatti ad insediarsi in immobili preesistenti, ipotesi questa che trova conferma nel fatto che la totalità delle scuole in quesitone venne fondata non prima, ma a seguito della consacrazione del luogo di preghiera a cui ognuna si sarebbe legata. È quindi opportuno ammettere che dietro l’erezione ex novo delle strutture medioevali vi sia stata l’iniziativa di una committenza ben più variegata di quella fino ad oggi postulata dalla critica. Per alcuni degli episodi presi in considerazione sono addirittura sopravvissute testimonianze scritte esplicitanti nomi e profilo dei committenti, che si identificarono ora con figure appartenenti alla struttura di governo della città, ora con privati cittadini facoltosi. Due episodi risultano esemplificativi a riguardo. Il primo è rappresentato da S. Giuliana. Come attesta un’iscrizione originariamente posta sopra l’ingresso, essa venne eretta per precisa volontà del vescovo Eleazaro, che nel 1237, visti i tempi bellicosi, decise di dotare l’area del castello di un luogo di culto in cui la popolazione potesse pregare e rifugiarsi in caso di guerra.25 La chiesa nacque quindi con lo scopo esplicito di servire non una ristretta cerchia di persone, bensì l’intera cittadinanza e tale fu la funzione che essa mantenne fino al 1413. È solamente a questa data, e non prima, infatti, che la neonata Corporazione dei Lanari vi si insedierà stabilmente e ne farà il proprio punto d’incontro.26 Nel XIV secolo circostanze simili si ripeterono anche per S. Maria Nova. Qui l’innalzamento fu promosso non tanto da un esponente di spicco della società, quanto da un comune privato, Riccobono di Pozzale, il quale scelse di investire capitali personali in
23 Si tralascia qui la chiesa di San Pietro, perché edificata da un ordine religioso e non da una confraternita. 24 M. DAL MAS e A. GIACOBBI, Chiese scomparse… cit., p. 195.
25 L’iscrizione è riportata in F. MIARI, Cronache bellunesi inedite, Belluno 1865, p. 40. 26 M. DAL MAS e A. GIACOBBI, Chiese scomparse… cit., p. 186.
tale impresa, per redimere i propri peccati.27 A confutare l’affermazione della critica secondo cui la chiesa sarebbe stata opera della congregazione laica che qui si riunirà, vi è ancora una volta la data di nascita della Scuola dei Pellicciai, che venne formalmente istituita nel 132728, ovvero un anno dopo la consacrazione dell’edificio. Anche dopo tale evento, comunque, la struttura rimase di proprietà del suo promotore, che vi esercitò appieno il diritto di giuspatronato fino al 1352, quando il testimone passò de iure alla predetta confraternita29. Santa Croce e Santa Maria dei Battuti costituiscono dunque delle eccezioni a questa prassi, dal momento che la loro erezione fu non una premessa, ma una logica conseguenza alla fondazione delle congregazioni titolari.
La tipologia di committenza che sottese all’elevazione delle varie chiese ebbe, per di più, dei riflessi sul piano materiale, in particolar modo, sulle dimensioni degli immobili. La minor disponibilità economica dei singoli privati fece sì che gli edifici da essi finanziati avessero superfici più contenute rispetto a quelli sovvenzionati dalle confraternite, che invece arrivarono a raggiungere volumi maggiori, quasi paragonabili ai complessi degli ordini religiosi. Eccettuata tale differenza, tutte le chiese duecentesche e trecentesche di Belluno furono realizzate secondo una medesima impostazione, che riprendeva in buona parte quella della principale struttura allora esistente in città, ovvero la cattedrale protoromanica di S. Martino, oggi non più visibile, perché sostituita nel Cinquecento dall’imponente progetto di Tullio Lombardo. Tale tipo prevedeva l’impiego in pianta di un’aula unica, non suddivisa in navate, culminante in un’abside rigorosamente rivolta ad oriente, secondo l’uso primitivo. Qui, in posizione opposta rispetto all’ingresso, era collocato l’altar maggiore, dedicato al santo titolare, a cui venivano di norma aggiunte, sulle pareti laterali, mense secondarie per l’adorazione di altri protettori. Per quel che riguarda la copertura, infine, il vano presbiteriale era solitamente voltato, mentre il rimanente spazio impiegava un più semplice soffitto a capriate lignee, allora estremamente diffuso.30 Questo impianto si radicò a tal punto nella tradizione locale che, sebbene inaugurato nel XIV secolo, verrà riproposto ancora nelle cinquecentesche chiese di S. Rocco e S. Giuseppe, seppur con qualche leggera deroga sull’ubicazione dell’abside.
27 G. PILONI, Historia… cit., p. 255. Il dato viene riportato anche in M. DAL MAS e A. GIACOBBI, Chiese
scomparse… cit., p. 138.
28 F. MIARI, Dizionario… cit., p. 53.
29 M. DAL MAS e A. GIACOBBI, Chiese scomparse… cit., p. 138, nota 175. Qui gli autori riportano un brano
tratto dal Libro della Cronaca di S. Maria Nova in Campedel (BCB, ms. 77), in cui al f. 3v si trascrive per intero il documento vescovile originariamente conservato nell’archivio della confraternita.
30 Ivi, pp. 27-28. Questo tipo di impostazione non venne applicato solamente alle chiese cittadine, ma fu
adottato anche in tutti gli edifici dei paesi limitrofi e delle confinanti diocesi. Per un confronto si veda: M. CURTI, Chiese scomparse nelle Pievi di Mel, Trichiana e Lentiai, Belluno 2007.
Benché, come si apprende leggendo la visita pastorale del Rota, le considerazioni generali appena fatte siano applicabili anche al caso di S. Croce, non esistono né documenti figurativi, né testimonianze scritte che ci aiutino a cogliere ulteriori dettagli sul suo primitivo aspetto sia interno, che esterno. Tentare di trovare indizi a riguardo nelle raffigurazioni trecentesche del centro abitato è cosa vana. L’unica rappresentazione della Belluno medioevale oggi nota è quella inserita all’interno di un bassorilievo ritraente la conquista scaligera della città dell’ottobre 1322, collocato su un fianco del sarcofago veronese di Cangrande della Scala (fig. 3).
Fig. 3
Dettaglio del sarcofago di Cangrande della Scala, raffigurante la città di Belluno nel 1322
Lo studioso A. Avena ha dato di questa immagine un’interpretazione estremamente puntuale, arrivando a riconoscere “in alto una delle torri che munivano il palazzo
vescovile, poi più giù a sinistra la chiesa di S. Lorenzo, a destra quella di S. Croce, ora demolite; infine la cerchia delle mura dalla torre che ergevasi nel giardino Persicini a quella di Porta Rugo. Accanto a quest’ultima la chiesa dei Battuti”31. Si tratta tuttavia di una lettura eccessivamente forzata, al limite del fantasioso, che non tiene in considerazione il fatto che solitamente l’iconografia del tempo non riproduceva fedelmente la realtà, ma preferiva piuttosto interpretarla in maniera schematica e deformata. Pare infatti che il panorama, eccezion fatta per i simboli del potere temporale e spirituale (palazzo vescovile
e cattedrale), riporti dei fabbricati generici, privi di precisi riferimenti alla realtà.32 Considerando ciò, l’identificazione di S. Croce e S. Maria dei Battuti appare come una vera e propria esagerazione, oltretutto minata dall’errore. Un rapido confronto tra data di esecuzione dell’arca scaligera (1329) e anno di erezione delle chiese (rispettivamente 1356 e 1330) è sufficiente a confutare la teoria dell’Avenna, il quale quindi ritrova nella rappresentazione della città due edifici che, di fatto, non erano ancora stati costruiti. Si può ragionevolmente supporre che altre immagini di Belluno siano state eseguite in questo periodo e, più probabilmente, nel Quattrocento, a seguito della dedizione a Venezia, ma, purtroppo, non ne rimane traccia alcuna. Avviene così che i primi documenti attendibili di cui oggi possiamo disporre risalgono al secolo XVI.33
1.2 IL CINQUECENTO
Tracciare un profilo sufficientemente completo e coerente della struttura chiesastica nel Cinquecento è operazione complessa, ma certamente più agevole rispetto ai secoli precedenti. Come già anticipato, l’esistenza di una più ampia gamma di tipologie documentarie, associata alla perizia dei soggetti produttori nel registrare accadimenti e modificazioni, consente di abbozzare un’immagine di base dell’edificio nel periodo di nostro interesse. Tuttavia, solamente ricorrendo a fonti posteriori è possibile superare l’essenzialità delle testimonianze coeve e colmare le lacune in esse insite, in vista di un’idea il più precisa possibile del contesto materiale entro cui il ciclo cristologico andò a collocarsi.
“Una Giesia de muro, et de legname coverta a lasta, con il suo campanil, con
cimiterio, con sagrestia, et luogo da tenir la scuola […]”34
Con queste parole nel 1575 il notaio e confratello Girolamo Regozza ricorda l’antico complesso di Santa Croce nella contrada di Rudo. Unico riferimento agli esterni della chiesa oggi reperibile nei manoscritti cinquecenteschi, tale annotazione è stata in più occasioni tralasciata dalla critica a causa del suo apporto di informazioni apparentemente
32 A. ALPAGO NOVELLO, Vedute trecentesche di Belluno e di Feltre, in ASBFC, XXX, 149 (ottobre-dicembre
1959), p. 126.
33 E. DE NARD, Belluno e Feltre nelle antiche stampe, Belluno 1994, p. 12. 34 ASB, Confraternite e corporazioni soppresse, b. 28, c. 1r, Catastico Regozza.