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ALTE TIRATURE Le anomalie

Nel documento Ermafroditi, supereroi, picari mancati (pagine 94-99)

della vita vera

di Maria Serena Palieri

Gli “indifferenti” sono stati protagonisti di gran parte della narrativa del Novecento. Nel panorama contemporaneo italiano la loro condizione è raccontata in modo nuovo: senza soffermarsi più su spiegazioni psicologiche o ambientali e senza alcuna intenzione di raccontare l’origine del “male”. Il nero e l’argento di Paolo Giordano e Il padre infedele di Antonio Scurati sono accomunati dal tentativo di descrivere le difficoltà incontrate da parte di personaggi anaffettivi nel dare vita a una famiglia. L’intento è quello di mostrare quanto sforzo e impegno costi abbandonare il gelo interiore in cui si è da sempre vissuto.

ALTE TIRATURE Giordano, le anomalie della vita vera

l’uomo diventa un barbone perché la separazione l’ha lasciato nudo – grazie alla finzione romanzesca può approdare a un happy

end. Glauco, innamorato – qui sì, davvero – della piccola Anita,

può costruire una nuova triade, si riconcilia pure con la figura di suo padre e rimette nel menu il suo persico alla griglia del lago di Como buttando alle ortiche il passion fruit del Madagascar. A posare l’orecchio a terra come gli indiani sioux, nel Padre infedele si può avvertire il passo di una vicenda archetipica: quella della

Mite. Giulia, come la giovanissima “mansueta” di Dostoevskij, si

è ritrovata impacchettata dentro un’unione che l’altro ha voluto per suoi programmi. Però qui non c’è tragedia, nessuno si but-ta dalla finestra: con sospetbut-ta prodigalità verbale, con sciupio di immagini e metafore, Scurati ci narra una storia che si svela co-munissima, una unione uomo-donna che regge qualche stagione e poi va a gambe all’aria, rimpiazzata da quella più gratificante uomo-bambina (finché la figlia resta tale…).

Non fosse per quella frase di Giulia «forse non mi piaccio-no gli uomini». Che, appaiata all’altra «decisi che mi sarei innamo-rato di lei», fa venire il dubbio che la vicenda, nella sua apparente banalità, alberghi in un pianeta particolare: il pianeta degli anaf-fettivi, quelli che “non sentono”. Una landa che non sappiamo se vada allargandosi nel mondo reale quanto va allargandosi nella nostra produzione letteraria. Eva Illouz, sociologa nata in Maroc-co, formatasi negli Stati Uniti e docente a Gerusalemme, parla di «intimità fredde»: addebita alla società dei consumi del Nove-cento e al trionfo della realtà virtuale nel nuovo millennio l’aver modificato percezione ed espressione delle emozioni e dell’eros. «Raffreddando», appunto. Mentre Luigi Zoja, analista junghiano, ha parlato, più o meno allo stesso proposito, di «morte dell’altro». E certo è un ossimoro questo – intimità-freddezza – che circola, come un tema importante ma poco analizzato, da alcuni anni nella nostra narrativa (tracce se ne trovano già nei Giorni nudi di Clau-dio Piersanti, Ti ascolto di Federica De Paolis, Nessuno si salva da

solo di Margaret Mazzantini).

Dicevamo invece che Paolo Giordano compie nel suo nuovo romanzo un cammino opposto a quello di Scurati. Giordano ha

GLI AUTORI

esordito con un romanzo, La solitudine dei numeri primi, il cui schiacciante successo è stato addebitato anche a una serie di mo-tivi esterni: titolo e copertina, ma che – a nostro parere – è entrato in sintonia col grandissimo pubblico per un suo nucleo segreto: l’educazione al grande freddo che la storia raccontava, un’algidità che faceva risuonare qualcosa di molto presente nel nostro essere collettivo. Il corpo umano, opera seconda, tornava sul tema con virtuosismo: lì Giordano s’è dimostrato un Paganini dell’anaffet-tività, l’ha rappresentata, insieme alla meccanica dei corpi dei gio-vani soldati italiani in Afghanistan, in tutte le sue varianti. Il nero

e l’argento si incammina, infine, nella strada dei sentimenti: sono

gli affetti veri che possono unire un giovane uomo, una giovane donna e il loro primo figlio e che si manifestano in modi non ovvi, per frammenti, per piccole agnizioni, per segreti timori. All’ombra di una donna-albero – la domestica soprannominata Babette per la sua arte culinaria – che li ripara. Volere bene e credere in un orizzonte familiare è molto difficile oggi. Giordano, che il succes-so da scrittore ha succes-sottratto a una carriera da fisico, registra l’espe-rimento dei tre con occhio da scienziato in laboratorio. Un occhio capace di restituire le anomalie della vita vera, come il bambino Emanuele, bello in modo così abbagliante da impedirci di vedere la lentezza della sua mente, il suo incespicare, il suo piccolo ritar-do. L’imperfetto Emanuele che, sdraiandosi sulla pietra tombale della signora A., nell’ultima riga di questo perfetto libro, esclama finalmente il suo nome vero e trasforma Babette in una reale, per-duta – amata – «Anna».

Giordano, nonostante il successo monstre con cui ha esor-dito, va maturando come uno scrittore di inconsueta classicità. Con questa narrazione della cauta costruzione di una famiglia, ci dice che riuscire in questa opera, oggi, è il contrario che scontato. E dunque se il titolo gioca con Stendhal, il plot gioca con Tolstoj: è la famiglia felice un piccolo miracolo da raccontare (deduciamo: oggi sono le famiglie infelici quelle tutte uguali?).

Ma appunto, Nora, suo marito e il piccolo Emanuele nella vi-cenda narrativa di Giordano sono il frutto di un iceberg che ha cominciato a sciogliersi. E a quel grande freddo rimandano

dun-ALTE TIRATURE Giordano, le anomalie della vita vera

que, dal nostro punto di vista, per principio di contraddizione. Un gelo che non è tutto nostro: tra le pagine scritte che ci testi-moniano che strani fili ci legano a un altro – laterale – Paese euro-peo, l’Olanda, ci sono quelle di Arnon Grunberg che, nel Libero

mercato dell’amore (Feltrinelli), ha narrato, sempre in questa

sta-gione, di Roland Oberstein, economista quarantenne, bell’uomo che coltiva quella che lui chiama «imperturbabilità» perché l’a-more, in quanto sofferenza, nella vita ma anche nell’arte lo mette a disagio. Né il gelo è nato oggi: quanti indifferenti, quanta noia, quanta nausea lastricano la via del Novecento? Oggi da noi però la novità è che cubetti di ghiaccio si trovano in personaggi che rifuggono da ogni eco epocale, marionette in plot che si consuma-no nell’arco di una lettura, personaggi che consuma-non hanconsuma-no un prima che li spieghi, come il protagonista del Futuro è nella plastica di Eleonora Sottili (Nottetempo) che non ha voglia di andare al fu-nerale del padre o la madre Crudelia che spolpa atarassica la figlia in Settanta acrilico trenta lana (e/o) di Viola Di Grado. Personaggi il cui gelo è dato, senza spiegazione psicologica né ambientale, e che quindi sono diversi dai “cattivi” di cui continuano a essere costellate le vie della letteratura.

Ma di questo iceberg con la cui lettura si cimentano so-ciologi, psicoanalisti e scrittori, quali testimonianze ci danno le cronache della “vita vera”? Pensiamo a certi gialli maturati tra quattro mura o giù di lì: al delitto di Avetrana, ai coniugi di Erba, e infine al Carlo di Motta Visconti che uccide moglie e figli (veri) in nome di un amore (inesistente, al più potenziale: virtuale) per una collega, cioè ammazza con paradosso davvero glaciale i «cari che ostacolano la sua felicità», come ha osservato Luigi Cancrini. Carlo che sembra uscito dritto dritto dalle pagine del pamphlet di Zoja sulla morte.

Da qui, da questa brina che ricopre il nostro mondo, de-vono nascere le intemperanze di altri. Come l’impennata di Mar-gherita D’Amico che in uno dei bei racconti della raccolta Sette di

noi (Bompiani) consegna a Lucilla, dieci anni, personaggio dagli

echi salingeriani, una verità di tutti i giorni. Una verità che però oggi – in tempi di grande freddo – sembra avere bisogno di esse-re enunciata da una bambina-filosofa per ridiventaesse-re vera e esse-reale:

GLI AUTORI

«Amando qualcuno, una sorella, un figlio, un’amica, un compa-gno, un gatto, un albero, su questi depositiamo spontaneamente, irrimediabilmente e a fondo perduto una parte di noi, che così lasciamo andare per sempre… Più amiamo, più ci disperdiamo con immediatezza» dice Lucilla. Brrr, che paura, non sarà meglio tornare in freezer?

I

n Malaspina (Mondadori, 2013), l’ultima raccolta di Maurizio Cucchi, la voce poetica entra subito in scena – con una pronuncia pacata, un po’ rallentata e pensierosa, epperò tutta intrisa di un’euforia tranquilla, intimamente persuasa di sé – dichiarando la propria soddisfazione per la condizione cui ritiene di essere approdata. La poesia recita così: «Ho imparato a esprimere gli umori – / anche gli umori forti – senza camuffarli. / Senza infin-gimenti. // Mi godo brevi soste felici / di sospensione e improvvisa / adesione. Mi oriento / verso un mondo più affabile / e poroso».

Be’, mica poco. Non che in passato a Cucchi difettassero una certa propensione all’auto-commento, alla sottolineatura me-ta-discorsiva degli snodi del proprio percorso; né tantomeno una vena cordialmente didascalica, di sentenziosità compassata, felpa-tamente ammaestrante. Qui però le due componenti si sommano a enfatizzare il senso di una tensione che si è risolta, separando un prima da un adesso, un itinerario affrontato da una postazione raggiunta. Insomma: sulla soglia del suo nuovo libro «l’ultimo dei nostri classici» (così lo definisce Alberto Bertoni nel risvolto di copertina) sente di aver preso una quota e si autoritrae nella posa di chi assapora, compiaciuto, questo momento.

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Cucchi e le avventure

Nel documento Ermafroditi, supereroi, picari mancati (pagine 94-99)