di Paolo Giovannetti
Le figure di autori-intellettuali che i tre romanzi qui analizzati generano pongono problemi di portata non solo letteraria. Innanzi tutto, c’è un postmoderno talmente esibito da rovesciarsi (Mari) in qualcosa come una moralità. Poi (Wu Ming) agisce l’“essere qualunque” della Rete, che prova a riscattarsi a colpi di melodramma e di fumetto. Infine (Cilento), una provocazione al femminile che mostra i limiti del politicamente (e letterariamente) corretto.
GLI AUTORI
che propongono storyworlds all’apparenza convergenti e che chie-dono ai propri destinatari l’applicazione attiva di cornici cognitive simili fra loro. Anzi, insisterei proprio sulla controversa nozione di “autore implicito”. Dai tre romanzi in oggetto ci viene incontro un giudizio – più o meno evidente, poco importa – intorno a tante cose anche del presente, soprattutto del presente. E questa valutazione dobbiamo associarla a istanze definibili come “Cilento”, “Mari”, “Wu Ming” che solo in parte hanno a che fare con le persone dette reali le quali da qualche parte, nel mondo detto reale, storicamente corrispondono a quelle etichette. La riconduciamo, quella valuta-zione (diciamo) ideologica, a tre autori impliciti – ripeto.
Sarà dunque il caso di farli parlare un po’ più distesamen-te. E, anche, di andare alla ricerca delle eventuali differenze che li oppongono, delle sfumature che caratterizzano le singole po-sizioni. Passeremo in rassegna i seguenti quattro lemmi:
narrato-re, rapporto con la Storia, rappresentazione dell’eros, costruzione dell’intreccio.
È quasi inevitabile partire dai narratori, dalle voci che par-lano dall’interno delle opere (e alle quali l’autore implicito sembra affidare le proprie intenzioni). Da questo punto di vista, è chia-ro che Mari sceglie la soluzione più esposta. Quel signore che si esprime in Roderick Duddle, e ci apostrofa con una varietà colorita di epiteti (sempre disposti in coppie), che non per caso culminano in un «paziente e tollerante lettore» e in un «fedele e affezionato lettore», quel narratore, dunque, recita ironicamente una parte. Fa il verso alla voce autoriale, solitamente detta onnisciente, del romanzo ottocentesco, strizzando però sempre l’occhio al letto-re moderno, che blandisce con riferimenti culturali e filosofici tutt’altro che coevi ai fatti. Una sua evidente passione per de Sade lo sbilancia curiosamente – ma non troppo – verso il Secolo dei Lumi, e se del caso verso Laurence Sterne. Del resto, si tratta di un’onniscienza un po’ fanfarona, leggermente inattendibile, se è vero che almeno di un personaggio (sto pensando al Probo, di-scendente dell’Elephant Man di David Lynch) sappiamo poco: e insomma siamo invitati a colmare i blanks della storia con le com-petenze tipicamente extradiegetiche di noi lettori duemilleschi e, senza alcun dubbio, postmoderni.
ALTE TIRATURE Ermafroditi, supereroi, picari mancati
Da questo punto di vista, Cilento e Wu Ming sono assai più vicini a una specie di mainstream. Due narratori poco udibi-li e in senso lato cinematografici, attenti a seguire da vicino, uno per volta, i personaggi che costituiscono i fulcri prospettici della storia. In astratto, la soluzione di Cilento ha qualche originalità, perché la vicenda di una giovane donna del Seicento, in cerca di “liberazione” (sessuale, ma non solo), è raccontata attraverso lo sguardo dei due uomini che l’hanno amata, pur se in modo parec-chio diverso. Inevitabile, dunque, l’effetto straniante: soprattutto nel caso in cui a percepire Lisario è il marito, Avicente Iguelmano, medico privo di passione e talento, ossessionato dal corpo della consorte e in particolare dalla di lei capacità di provare piacere. D’altronde Lisario è muta, e il narratore può registrarne i pensieri solo attraverso un limitato corpus di lettere indirizzate alla Ma-donna. Com’è noto, questa esibizione di documenti è tornata di moda nel romanzo anche di genere degli ultimi vent’anni e più; e non meraviglia che Wu Ming ne faccia ampio uso, proprio mentre il suo narratore segue lo spostamento e le avventure dei principali personaggi, sia positivi sia negativi.
Una delle differenze più notevoli, in questo dominio, con-segue a una scelta storica: il rapporto con gli eventi collettivi. Wu Ming ha il coraggio di raccontare una comunità. Il vero protago-nista dell’Armata dei sonnambuli è la plebe parigina, i sanculotti nella loro tragica parabola fra 1793 e 1795. Da qui la necessità, quasi verghiana, di farli parlare con una voce corale, che peraltro utilizza un curioso gergo, connotato anche geograficamente (una specie di emiliano). Idioma triforme, tra Céline, Celati e appunto Verga, sui cui esiti è bene sospendere il giudizio: «Te lo si con-ta noi, com’è che andò. Noi che s’era in Piazza Rivoluzione. [...] In piazza si stava tutti pigiati, fitti come le setole di un pennello, ché perlomeno il freddo porco lo si tiene a bada, o magari è solo un’impressione, ché spartire il male è già mezza goduria. Però a quel modo, uno finisce che non vede niente, dal gran che c’erano schiene e bertocche, per non dire dei vecchi che ti si grappavano ai panni per non cadere!»
Ma, appunto, è una buona coscienza storica (e politica) che spinge Wu Ming alla ricerca di una parabola, un’allegoria,
in-GLI AUTORI
torno non alla Rivoluzione, direi, ma alla controrivoluzione. Chi siano, oggi, i sonnambuli e i muschiatini, gli alienati da un potere ideologico onnipervasivo, e quale fluido magnetico li possegga, è sin troppo facile dirlo.
All’opposto, Cilento spiattella una coscienza non dirò cat-tiva, ma un po’ ipocrita: e il suo narratore – in effetti non di rado distratto o sopra le righe – davanti alla crisi della rivolta di Masa-niello si lascia scappare un’affermazione di questo genere: «Laz-zari a Palazzo, cucinati a dovere dalla politica» (corsivo mio). È un lapsus, certo: attribuire a un narratore immerso nei fatti una pro-spettiva discretamente qualunquista, tipica del polemismo strac-cione dei nostri giorni. Ma ciò è sintomo dell’indifferenza alla Sto-ria da parte di chi ha pianificato la vicenda di Lisario. Uno sfondo tanto colorato e ricco di dettagli (notevole la ricostruzione delle vicende artistiche: botteghe di pittori, scuole, stili ecc.) quanto privo di ogni vera significazione condivisa; posso dire: “idealità”?
Da parte sua, il cinico Mari con perfetta nonchalance ha virtuosisticamente fuso un paio di secoli: raccontandoci un’In-ghilterra ottocentesca ma ancora rurale, in cui Stevenson è già stato letto e Musorgskij già stato ascoltato; tuttavia i cui referenti filosofici sono – dicevamo – quelli di un certo libertinismo sette-centesco, peraltro proverbialmente francese. Dickens (insieme co-munque con Thackeray e George Eliot) è spaesato dall’avventura “pura” dell’Isola del tesoro e da Diderot. L’esito appare felicemen-te afelicemen-temporale: una specie di ur-Inghilfelicemen-terra plasmata dalle simpatie di un Mari appassionato lettore romanzesco, prima che autore. E la cosa ci piace assai.
Così come ci piace che la sfera del sesso sia qui rappresen-tata come pura meccanica del desiderio, scatenamento di un Es osceno che travolge ogni idea di bene e quindi di lieto fine. Suor Allison, l’ermafrodito libidinoso e perverso che tira le fila della storia, non solo ne esce vincente, ma getterà un occhio compia-ciuto sui due fanciulli (i due protagonisti) a lei affidati in tutela: prolungando insomma in questo modo le sue tresche oltre la fine del racconto, in una prolessi esterna tanto indeterminata quanto assolutizzante. Le cose vanno e andranno sempre, dice.
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il trionfo di verità e giustizia che, se non nella sfera pubblica, si realizza in quella privata. La donna ha diritto a trovarsi la persona giusta con cui vivere una vita affettiva appagante: e questo avver-rà in una nuova famiglia che le peripezie del romanzo porgono a Lisario in modo quasi inverosimile. È un lieto fine – con relativo trionfo del grande amore – che non può non confliggere con il
male delle perversioni sessuali che nel libro di Cilento pure fanno
capolino. Al punto che una specie di ermafrodito anche qui c’è (la Bella ’Mbriana): ma la sua sessualità ancipite non è affatto segno di insubordinazione, bensì all’opposto di sottomissione al potere. Tutto il romanzo appunto tende al ristabilimento di un eros “giu-sto”, attraverso strade decisamente moralistiche.
Come sempre succede nella sua opera, per Wu Ming la sfera dell’incontro erotico svolge un ruolo tutto sommato secon-dario, anche se è rappresentata in modo disinibito. Non per caso, il personaggio certo più importante di questa storia, il dottor Or-phée d’Amblanc, borghesemente oscilla tra la repressione dei propri istinti (in relazione a una sua paziente, la signora Girard) e l’abbandono al piacere in contesti aproblematici (tipicamente, con una padrona di casa vedova). E uno dei tratti dell’intreccio tiene molto del romanzo d’appendice, visto che la tricoteuse Marie Nozière sfigurerà alla fine della storia l’uomo che l’aveva violenta-ta: peraltro agendo in presenza del figlio nato da quello stupro…
Il punto, come si vede, è la logica della trama, la sua ideo-logia: il senso finalistico degli eventi. Del politicamente scorretto Mari abbiamo detto. Resta da osservare che alcune componenti della sua tecnica narrativa assomigliano curiosamente a quelle di Wu Ming, e hanno un’aria di famiglia ancora più generale che fa molto “romanzo global al tempo del New World Epic”. Dico della divisione in capitoletti piuttosto brevi in cui i filoni della storia sono portati avanti secondo i procedimenti del montaggio alter-nato. Su questo modo di costruire ci sarebbe moltissimo da dire, credo: ma non è chi non veda che il riferimento più che cinema-tografico è, oggi, soprattutto televisivo. Una forma di
entrelace-ment che “incolla” alla visione, oops alla lettura. Fra l’altro – come
affermato esplicitamente dal narratore di Roderick Duddle –, la trama di Mari appare per definizione aperta, e almeno in teoria è
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disponibile a un sequel. La stessa cosa si dirà di Wu Ming: anche se i suoi “titoli di coda” (ora denominati Come va a finire), il rin-vio cioè alla Storia-Storia, dovrebbero ridurre questa possibilità. Nondimeno, molti fattori spingono verso una concezione modu-lare e seriale di racconto: in particomodu-lare, l’idea a mio avviso geniale di introdurre un vero e proprio supereroe fuori del tempo, il ven-dicatore Scaramouche, e di attribuire all’armata dei sonnambuli poteri soprannaturali. Di modo che l’immaginario fumettistico ibrida sapidamente l’intreccio e ci dispone ad accettare certi colpi di scena (appunto) rocamboleschi.
Cosa che invece risulta assai più difficile concedere a
Li-sario. Lo scioglimento del romanzo (almeno nella sua parte
sen-timentale) discende da un artificio quasi del tutto inverosimile: il fatto che i due protagonisti si ritrovino casualmente sull’isola di Favignana, dove poi vivranno felici e contenti. È lo stesso pa-ratesto ad ammonirci in tal senso (vedi la prima aletta della so-vraccoperta), quando fa riferimento alla tradizione del romanzo
picaresco. Il problema è che Cilento non ha scritto un romanzo
picaresco; e solo in prossimità della conclusione ne ha adottato una caratteristica. Secondo una strategia che definirei molto ide-ologica.
Proviamo a concludere. L’autrice implicita (dunque: l’in-tellettuale) proiettata da Antonella Cilento con il suo romanzo ha una fisionomia leggermente rétro: c’è in lei la nostalgia per un sistema di valori latamente moderni, che vengono perseguiti in modo sempre un po’ meccanico e volontaristico. Lo stesso titolo lo conferma e contrario: l’eroina, in fondo, un “piacere infinito” lo sperimenta solo agli occhi del primo compagno, del marito geloso. La provocazione è più nelle intenzioni che nei fatti. Il lettore si tranquillizza presto, perché questo è un femminismo ben disci-plinato.
Mari, a mio avviso, compie il gesto quasi opposto: a furia di insistere sulla finzionalità, la falsità, la gratuità, l’iperletterarietà di tutta la sua rappresentazione, ci mette a disagio. Certo, la sua è l’insicurezza “ontologica” tipica del romanzo postmoderno. Ma questa umanità narrativa così simpaticamente senza inconscio qualcosa su ciò che siamo diventati sicuramente afferma. Anche
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perché Mari, in questo modo, si inventa una specie – scusatemi – di grande stile ironico, di cui certo c’è bisogno.
Non molto diversamente, il romanzo storico ibridato da un fumetto e da una serie di manipolazioni controfattuali – la ricetta dell’Armata dei sonnambuli – a mio avviso dice molto di un essere qualunque collettivo: ma in prossimità di qualcosa che (a differenza dell’“alto” Mari) un tempo avremmo detto piccola
borghesia. È un certo mondo di Internet che parla: quante volte,
titanici nelle intenzioni e nei proclami, finiamo per inciampare, dentro la Rete, su minuzie che ci delegittimano? Quante volte il troppo pieno del blog diventa un troppo vuoto? Così, in Wu Ming la rivoluzione culmina in una mossa fumettistica. Che peraltro – di nuovo – ci serve per capire dove siamo arrivati. E qui il noi non è generico: ma dice appunto di uno smarrito utente dei nuovi media, detentore però di rabbie e desideri di riscatto sociale oggi sottoposti a troppe frustrazioni.
Di modo che, a ben vedere, l’unica domanda davvero aperta è un’altra: esiste, può esistere, una diversa figura di intellet-tuale-autore su cui sarebbe stato possibile lavorare? Certamente sì. Ma teorizzarne l’esistenza almeno potenziale attiene diretta-mente al campo della pratica sociale, dell’ideologia (della politi-ca?). In questo immenso fuori-testo, è la collettività dei lettori (e non solo) a dettar legge, non il critico. Che a questo punto, insom-ma, fa meglio a tacere.
A
vrebbe dovuto intitolarsi Notizie urgentidella notte, a riecheggiare, forse, una delle prime opere di
Anto-nella Cilento (Una lunga notte); poi, per scelta editoriale, è usci-to Lisario o il piacere infiniusci-to delle donne. Un tiusci-tolo decisamente più azzeccato: e non tanto per il richiamo al “piacere infinito delle donne”, tema suggestivo ma nel testo evanescente, quanto per la luce subito concentrata sulla protagonista, fulcro vero della nar-razione.
Diminutivo di Belisario, «il nome intero era riservato alla donna sposata», Lisario è una fanciulla bellissima, resa muta da un’operazione chirurgica sbagliata, che possiede due virtù non comuni: l’attitudine a combattere le avversità rifugiandosi in una sorta di prolungata catalessi; una eccezionale capacità di scrittura. A sette anni, un rovinoso crollo di libri sulla testa l’ha trasformata in “Sperta di Letteratura”. È il primo evento, di scarsa o nulla veri-simiglianza, di cui il lettore viene messo a conoscenza: a rievocarlo, in incipit, è la stessa Lisario che, ormai undicenne, scrive la sua prima lettera, indirizzandola alla «Signora Santissima della Coro-na delle Sette Spine Immacolata Assunta e Semprevergine Maria Madonna». Con un’altra missiva, indirizzata sempre alla