di Ilaria Barbisan
Che informazione sarebbe senza le vignette satiriche? Ironiche, irriverenti e di immediata lettura, attraverso un disegno e una battuta fulminante danno un’interpretazione dei fatti per opera dei loro autori. Che li si definisca giornalisti, opinionisti o artisti poco cambia; i vignettisti ci hanno accompagnato per oltre quarant’anni di storia recente italiana. Ma quanto ci hanno persuaso?
È la satira, bellezza!
te di breve durata – le vignette satiriche sono apparse sui princi-pali quotidiani nazionali, giorno dopo giorno e settimana dopo settimana, diventando una sorta di appuntamento fisso con una dignità tutta loro all’interno dei mezzi di informazione. Viene da chiedersi quanto queste vignette abbiano contribuito al formarsi di un’opinione pubblica (o quantomeno personale) degli italia-ni. Quanto alcune di esse sono rimaste nella memoria collettiva? Difficile dare una risposta, ma almeno si può provare a riflettere mettendo a confronto alcuni tra i più importanti vignettisti italiani che hanno caratterizzato negli ultimi decenni le pagine dei giornali cartacei e recentemente anche quelle dei giornali online, come è successo per esempio a Giorgio Forattini.
«Noi non sbianchettiamo!» recita la sua prima vignet-ta per Affarivignet-taliani.it nell’ottobre del 2014. Una nuova collabo-razione con il quotidiano online suggellata immediatamente da una provocazione che porta alla memoria una delle più famose vignette della storia satirica italiana: quella che nel 1999 apparve in prima pagina sulla «Repubblica» e costò a Forattini la quere-la da parte di Massimo D’Alema, oltre a compromettere quere-la sua permanenza al quotidiano che aveva contribuito a fondare. Si tratta chiaramente della vicenda Mitrokhin e della vignetta che raffigurava l’allora Presidente del Consiglio intento a cancellare i nomi delle presunte spie italiane al soldo dei servizi segreti russi. «Allora, arriva ‘sta lista?», e D’Alema, imbarazzato e affaticato, risponde «Un momento! Non s’è ancora asciugato il bianchetto!». Questo è solo uno dei tanti esempi dell’ultra quarantennale car-riera di Giorgio Forattini, che grazie a numerose collaborazioni è diventato tra i più conosciuti disegnatori satirici del nostro Paese. Uno dei principali motivi del suo successo è soprattutto la carat-terizzazione macchiettistica e irriverente di alcuni uomini politici italiani: Craxi vestito come Mussolini, Prodi come un prete catto-comunista, Amato come Topolino, e così via. La ridicolizzazione di questi (e molti altri) politici, insieme a una pungente ironia sulle vicende d’attualità, lo ha reso un famoso caricaturista e, proprio per questo, il sorriso insinuato nel lettore il più delle volte deriva soprattutto dall’osservazione divertita dei personaggi rappresen-tati. Anche perché spesso le battute, talvolta anche volgari, sono
GLI INTELLETTUALI CHE FANNO OPINIONE
recitate da politici lontani dalla vita quotidiana e percepiti con un certo distacco dalle persone comuni che leggono le vignette.
Sulla stessa lunghezza d’onda per quanto riguarda la per-cezione del lettore ma per molti aspetti piuttosto diverso da Fo-rattini, si trova un altro vignettista italiano che da diversi anni è presente sulle pagine dei quotidiani nazionali (la collaborazione con «la Repubblica» va avanti dal 1976). Si tratta di Massimo Buc-chi, il vignettista “composto e serio”. Un moralista non noioso, un giocoliere delle parole e delle tecniche dell’illustrazione che nelle sue vignette usa disegni, foto, didascalie, vecchie pubblicità che creano un pastiche unico ma pur sempre molto elegante. Con le rubriche Sottovuoto e la Finestra sul Cortile coglie i disagi e il ma-lessere dell’uomo contemporaneo, a volte senza testo e spesso con poche battute, quelle che bastano per spiazzare il lettore. Come nel film di Hitchcock, Bucchi osserva da testimone il mondo che gli scorre davanti con pessimismo e perspicacia, senza sottrarsi a una forma di giudizio che deriva proprio da un punto di osser-vazione “altro”, o “alto”. Impossibile non rimanere spiazzati di fronte ad alcune prese di posizione proprio perché rappresentate con un’intelligenza (minimalistica nella forma) che accende una scintilla e fa pensare.
Forattini e Bucchi non sono certo gli unici ad averci fat-to contemporaneamente ridere e riflettere in questi ultimi qua-rant’anni. A chi non vengono in mente altri vignettisti satirici come Vauro, Giannelli o Angese, ciascuno con i propri tratti ca-ratteristici? In realtà, però, pochi hanno saputo creare delle vere e proprie “storie seriali”, che con le serie televisive di oggi (concede-temi il parallelismo) hanno in comune la precisa cadenza tempo-rale, la velocità di fruizione e una ritualità che provoca aspettative e legami nel tempo. Ovvero dei personaggi a cui ci si affeziona e dei quali si riconoscono i tratti del carattere e fisiognomici, nei cui ideali e punti di vista ciascuno si può immedesimare. Questo è ciò che hanno creato vignettisti come Altan, Staino ed Ellekappa, rispettivamente con Cipputi il metalmeccanico, Bobo il militante di sinistra, e due figure (di solito femminili) che guardano la tv o leggono il giornale.
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scibile tratto in bianco e nero o a colori ci ha accompagnato negli ultimi quarant’anni su diverse riviste e quotidiani. Chi non conosce la Pimpa, la cagnolina a pois che ha fatto divertire generazioni di bambini e che è apparsa sui libri e in televisione? Meno conosciuto – ma non per questo meno significativo – è invece Cipputi, l’ope-raio che ha fatto la sua comparsa nel 1975 ed è «cresciuto da solo» dice Altan in un’intervista «in un periodo in cui gli operai erano protagonisti di una realtà presente e importante. Adesso il Cippu-ti si vede un po’ meno, come si vedono meno in giro gli operai». Con lui Altan è stato un antropologo e ha rappresentato l’imma-gine del lavoro umano in generale, al di là di ogni determinazione storica. Senza mai essere volgare, solo ironico e cattivo, Cipputi dimostra spazi di autonomia nella vita e nel lavoro. Nel 1978 af-fronta il tema dell’aborto: «Spero che adesso abortirai, almeno, mi fa. Non ci avrete mica fatto fare una legge per niente», e più avanti negli anni, nel 1980 afferma: «Siccome hanno le vetture invendute ci licenziano a noi. Così ci abbiamo il tempo libero per andargliele a comprare». Emblematica la battuta: «Qui cercano di fotterci di nuovo Cipputi», «Speriamo che sia l’ultima Binis, non ho più il culo di una volta!». E subito viene in mente il caratteristico om-brello puntato nel fondoschiena, una scena topica di Altan e messa in atto da diversi personaggi: Cipputi, Berlusconi, ma soprattutto persone comuni, più spesso rappresentate dal vignettista veneto. Perché sono proprio loro la sua forza: sono loro che permettono di commentare l’attualità dal basso, dal punto di vista della gente comune nella quale il lettore si immedesima facilmente.
La stessa cosa vale per Sergio Staino e il suo personaggio più famoso che è anche il suo alter ego: Bobo. Scalognato e smar-rito, è iscritto al Partito comunista (compare per la prima volta nel 1979 su «linus») e commenta le vicende della politica italiana con ironia e cinismo imperante, criticando aspramente una sinistra che non ha coscienza critica. Uomo dignitoso e fiero, con buoni ideali, si scandalizza di fronte alle ingiustizie e si trova ad affrontare una realtà meschina e deludente sia da solo sia con la famiglia (che rap-presenta la sua coscienza), spesso presente nelle vignette. Con la famosa striscia apparsa sull’«Unità» nell’84 e dedicata ai funerali di Berlinguer diventa l’esempio del militante del Pci e più in
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rale degli elettori di sinistra che si possono facilmente identificare in lui e nelle sue opinioni. Fin dai primi anni della collaborazio-ne con l’«Unità» (che iniziò collaborazio-nel 1982 sotto Emanuele Macaluso, direttore illuminato che portò la satira sulle pagine di un quoti-diano ingessato e di partito), affronta diversi temi di attualità da protagonista e narratore, sempre con autoironia e strappando un sorriso al lettore. Spesso parla di crisi del partito, della figura del segretario (la figlia Ilaria gli domanda: «Da chi discende Bertinot-ti?» e Bobo risponde: «Boh, bisognerebbe chiederlo a Darwin»), di casi scomodi di cui non si è mai parlato tanto sui giornali (come quelli di Aldo Moro o di Giuliano Naria), o ancora delle guerre o della società (la figlia: «Oggi nel mondo 250 milioni di bambini schiavi»; Bobo: «Quando l’Occidente era povero ne bastavano di meno»). Staino ci fa riflettere sui nostri limiti e sulla nostra realtà, ci fa vedere altre facce della situazione.
Qualcosa di simile accade con Ellekappa, nome d’arte di Laura Pellegrini, che dagli anni settanta accompagna quasi quoti-dianamente i suoi lettori con un tratto vignettistico inconfondibi-le. I suoi tipici due personaggi che leggono il giornale o guardano la tv si interrogano sui temi di attualità con perfidia e crudeltà, facendo a pezzi i luoghi comuni, le idee condivise e gli slogan ri-petuti all’infinito. Sparano a zero sulla retorica populistica della destra e sulla passione autodistruttiva della sinistra italiana senza mai essere qualunquistici. «Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?», «Ormai a sinistra il confine tra filosofia e Alzhei-mer è molto incerto», recita una vignetta del 1999. Dalle pagine dell’«Unità» a quelle della «Repubblica», passando per «Tango» e «Cuore», Ellekappa ha testimoniato nel corso degli anni l’Italia che (non) cambiava e affrontato ripetutamente temi delicati come la mafia («Per i mafiosi resterà il carcere duro», «E se insistono gli toglieranno anche il cellulare»), il lavoro («È il trionfo del lavoro flessibile», «Oggi lavori in una cava, domani chissà se sei ancora vivo»), le guerre fratricide intraprese dagli Usa in difesa di una falsa democrazia: «Piccole divergenze Usa sui crimini contro l’u-manità» dice un personaggio. «Per esempio, gli irakeni possono considerarsi umanità?», controbatte l’altro. La struttura del dia-logo è sempre la stessa: all’affermazione o alla domanda di uno
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dei due corrisponde la risposta dissacrante dell’altro, di una lim-pidezza e una perentorietà che non lasciano scampo. Ellekappa, attraverso l’antirealismo estroso dei suoi disegni, osserva il mondo che la circonda con acuta intelligenza e lo stile delle sue battute è sempre elegante, mai volgare. Ciononostante (o forse proprio per questo), le sue vignette riescono a spiazzare il lettore poiché dietro a un’apparente semplicità lessicale nascondono un pensiero molto più articolato, denso di rimandi a fatti presenti e passati che costringono a una più attenta rilettura. Emblematiche le battute: «Il solito tempismo della sinistra», «Ha fatto crollare tutte le ideo-logie proprio mentre ci stava passando sotto».
Queste e altre vignette memorabili hanno fatto diventare Ellekappa, al pari di Staino e Altan, parte integrante della storia recente italiana. A differenza di altri umoristi (come i citati Fo-rattini e Bucchi, rispettivamente con caricature macchiettistiche e moralismi distaccati), essi hanno tramesso il loro punto di vista attraverso vignette che rappresentavano personaggi comuni, fa-vorendo molto probabilmente l’immedesimazione del lettore nei protagonisti “parlanti” dei loro disegni. Questa identificazione ha fatto sì che il pubblico si appropriasse delle loro opinioni? Di sicu-ro le vignette in generale, per losicu-ro stessa natura, sono di facile e im-mediata fruizione: hanno il pregio di riassumere i concetti in una battuta fulminante e un disegno esemplificativo. Possono pertanto assumere la funzione di editoriale alternativo (o complementare) del giornale, visto che spesso appaiono in prima pagina. L’intrinse-ca funzione di “commento” propria della vignetta è rafforzata nel-lo specifico in quelle di Altan, Staino ed Ellekappa sia attraverso il meccanismo dell’immedesimazione e quindi della vicinanza con il lettore, sia grazie al meccanismo della serialità, in grado di coin-volgere ulteriormente e legare a sé il pubblico. Ciò ha fatto sì che le loro vignette, in passato ma anche in anni recenti, entrassero nella memoria collettiva e influenzassero l’opinione pubblica? Forse. Sì, ma quale? Più di altri questi vignettisti sono apparsi prevalen-temente su testate di sinistra sulle quali hanno espresso, il più delle volte attraverso i loro personaggi, opinioni tipiche degli elettori o degli intellettuali di sinistra, i quali spesso si prendono in giro da soli con un’autoironia dissacrante. Viene da chiedersi quanto
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questa continua autocritica abbia contribuito all’immagine di sé e del partito che hanno oggi gli elettori di sinistra. Al contrario, se negli ultimi vent’anni le vignette contro Berlusconi fossero appar-se quotidianamente sulle reti Mediaappar-set, i suoi elettori sarebbero diminuiti o sarebbero stati meno convinti delle proprie scelte? Solo Marty McFly potrebbe aiutarci a rispondere a questa provo-cazione, tornando indietro nel tempo e modificando il futuro…
Alte Tirature
Ermafroditi, supereroi, picari mancati
di Paolo Giovannetti
Lisario, il piacere della sbrigliatezza
di Giovanna Rosa
Il sonnambulismo wuminghiano
di Mario Barenghi
Vitali, magro e saporito
di Mauro Novelli
Giordano, le anomalie della vita vera
di Maria Serena Palieri
Cucchi e le avventure dell’io talpa
di Stefano Ghidinelli
La poesia a fumetti di Gipi
di Luca Raffaelli
Canzonifichiamoci!
di Umberto Fiori
L’altra faccia del reality
di Tina Porcelli
Malanni di Braccialetti rossi
di Sofia Petruzzi
Derive della scrittura
di Paolo Costa
GLI AUTORI
L
’anno è il 2014, l’ordine alfabetico: Anto-nella Cilento, Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori); Michele Mari, Roderick Duddle (Einaudi); Wu Ming, L’armata deisonnambuli (Einaudi). È facile cogliervi subito un’aria di famiglia.
Tre mondi romanzeschi lontani dal realismo, incardinati in uno spazio-tempo alle soglie della modernità; un plotting che fa i conti con il fantastico, restandone nondimeno al di qua; una lingua e uno stile problematizzati, disposti a confrontarsi con un dialet-to ora fattuale ora tutdialet-to mentale – di secondo grado –, ma anche con la sprezzatura di un italiano classicamente novecentesco, “di traduzione”. E l’elenco potrebbe continuare. Le domande che queste opere pongono sono curiosamente archetipiche. Quali le radici del moderno? Quali i confini del realismo (o, che è quasi lo stesso: Quali i confini del fantastico?)? Con che strumenti espri-mere le alterità, ora sociali (l’argot della plebe parigina settecente-sca), ora locali (la Napoli del Seicento), ora infine culturali (Mari scrive un romanzo che appunto si vuole traduzione dall’inglese, da una specie di Stevenson apocrifo)?
Proviamo a dirlo con parole critiche di impianto narratolo-gico, leggermente più precise. Siamo di fronte a tre autori impliciti