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La Giovane Marmotta Severgnini

Nel documento Ermafroditi, supereroi, picari mancati (pagine 58-64)

di Giuliano Cenati

Il didascalismo ludico di Beppe Severgnini si è riversato in oltre venti volumi dove si amplifica il discorso giornalistico condotto sulle pagine del «Corriere della Sera» e del forum «Italians». Lo scrittore vi conduce un’esplorazione dell’immaginario quotidiano, a partire dalla disamina degli stili di vita e dei consumi. Le tematiche del viaggio e del genio nazionale sono i fili conduttori lungo i quali Severgnini dipana una sua fenomenologia della classe media, con molta bonaria ironia e confortante indulgenza. La sua rivisitazione del selfhelpismo ottocentesco si distingue per i toni di colloquiale ridevolezza,

incoraggiando la convinzione che il presente, per lo meno dell’uomo occidentale agiato, sia uno dei posti più morbidi dove mettere il naso.

La Giovane Marmotta Severgnini

«Italians», e non manca di seminare tra le sue pagine più spicciole e disinvolte indizi delle iniziative accademiche di cui è protago-nista. Il riconoscimento universitario attesta, insieme con le fre-quenti citazioni dei capisaldi culturali più istituzionali e rispettabi-li, quanto poco frivolo voglia apparire il racconto giornalistico di Severgnini, nonostante la sua metodica leggerezza.

L’io scrivente tratteggiato dalla letteratura di Severgnini, in linea di massima, appare simpatico, cordiale, genuino, figlio di buona famiglia lombarda, capace di realizzare i propri talenti più notevoli, quelli per la scrittura e il giornalismo, malgrado i desideri divergenti dei genitori in proposito, e di ricavarne motivo di affer-mazione professionale e di successo internazionale. Frequenta as-siduamente ristoranti, ricevimenti e agenzie di viaggio, ma si con-cede anche visite a benzinai e corniciai per capire dalla viva voce del popolo come funzionano le cose. È uno che ha cominciato in un seminterrato di Londra, e quando viene inviato a Washington per un soggiorno annuale non fa a meno di portare con sé quadri e tappeti, per dimostrare di essere un «europeo sofisticato» (Un

ita-liano in America, 1995). C’è molto buon understatement in lui, ma

vien da pensare che quadri e tappeti se li porti davvero appresso. Baldo erede del «solferinesco lepore» d’antan, Severgnini adotta per programma l’ironia e l’autoironia quali registri predominanti del suo discorso di edificazione ludica. In termini pressoché sag-gistici, pone se medesimo al centro del campo d’osservazione, alle prese con il mondo da scoprire. La compiaciuta borghesità dell’io scrivente è elevata a misura dell’intera società di massa e funge da specchio della classe media vocata al consumo, con cui Severgnini intrattiene un colloquio elettivo.

È presupposta l’identificazione del lettore con il suo auto-re, sulla base di un’origine e una prospettiva comune, nazionale e culturale, cosicché le reazioni dell’io severgninico alle cose e alle conoscenze possano risonare familiarmente al lettore stesso, rive-lare un’affinità elettiva con lui, uno sfondo indubitabile di senso comune condiviso, e insieme tracciare un percorso di formazione attraverso la prassi: vissuta, con qualche approssimazione e gros-solanità, dal protagonista-autore e rielaborata, con acuto e brillan-te comprendonio, dall’autore-protagonista. Se la concabrillan-tenazione

GLI INTELLETTUALI CHE FANNO OPINIONE

autoironica tra errore pratico e riscatto conoscitivo costituiva il fulcro della credibilità e della cordialità di Severgnini nei libri più giovanili, l’attestazione ammiccante delle proprie inadeguatezze da parte dell’autore si è andata ridimensionando con l’avanzare dell’età e l’irrobustirsi della rinomanza culturale conseguita, a fa-vore delle enunciazioni di principio professate. Cosicché da ulti-mo, nei libri più recenti, al metodo dell’autoironia maieutica si è venuto sostituendo gradualmente un approccio informativo-for-mativo un po’ meno ridevole e un po’ più assertivo, per quanto articolato sempre secondo modulazioni di discorso svelte e vivaci: tale si mostra soprattutto in Italiani di domani (2013) e La vita è un

viaggio (2014). Ora l’ironia, come sempre benevolmente urbana,

è orientata su persone e fenomeni, piuttosto che sull’io protago-nista intento a misurarsi con le loro manifestazioni e abnormità. Lo sdegno e la riprovazione, che non mancano pur restando ben lontani dal procurare sangue amaro all’io scrivente, sono espressi con una illibatezza linguistica degna di un’anima pia. Senz’altro l’io severgninico rimane anche oggi saldo al centro del testo, come fonte di cognizione e giudizio autorevole, centro gravitazionale di relazioni e rivelazioni: ma proprio in quanto penna di punta del giornalismo italiano, forte dell’aura autoriale multimediale e dei traguardi raggiunti, anziché della propria «lunga inesperienza» (come recita Un italiano in America) tramutata in occasione di co-noscenza e racconto.

Nonostante i soggiorni e le inclinazioni anglosassoni, l’io severgninico si guarda bene dall’indulgere al politically correct, che anzi gli capita di denunciare come contorsionismo lessicale inele-gante: con ciò, corre il rischio di confezionare qualche motteggio desueto, ma è ben disposto a pagare questo prezzo in nome del suo risoluto moderatismo. Per esempio nella partizione dei ruoli di genere, abbiamo a che fare con maschi e femmine convinta-mente eterosessuali, accanto a cui ammettere solo eventuali ec-cezioni: «Lui parla, e sa di tenervi prigionieri; voi lo ascoltate, e mentalmente cercate una via di fuga. Le ragazze, per farlo tacere, possono baciarlo. I maschi non hanno neppure questa possibilità. Salvo eccezioni, naturalmente» (Manuale dell’uomo sociale, in

La Giovane Marmotta Severgnini

statunitense (Un italiano in America), della popolazione nera di Washington, una delle città più nere degli Usa, unici rappresen-tanti sono giovani netturbini dei quali è sottolineata la probabile poca voglia di lavorare.

La relazione che l’io scrivente instaura con il lettore – bianco, eterosessuale, di preferenza benestante e talora inevitabil-mente donna – è a tutta prima paritaria. Severgnini narra, riporta, esemplifica, desume, ma il materiale che gli permette tali operazio-ni è spesso proveoperazio-niente dal contatto privilegiato con i suoi lettori quotidiani, frequentati attraverso le pagine di giornale e di rivista. Campo di osservazione per lui non è soltanto il mondo grande, che percorre in lungo e in largo da viaggiatore professionista, ma anche il mondo scritto dell’industria giornalistica e della comuni-cazione semiprivata con il pubblico delle rubriche. È in particola-re dalla corrispondenza dei lettori, acquisita in misura massiccia e sottoposta a spoglio certosino, che Severgnini ricava confidenze personali da allineare le une accanto alle altre, al fine di cogliere tendenze notevoli del costume collettivo. Il rapporto a tu per tu fra autore e lettore, che garantisce attenzione e dedizione da parte dell’uno nei confronti dell’altro, si amplifica nel rapporto asimme-trico tra lo scrittore-giornalista di grido e la pluralità del pubblico leggente che gli richiede intimità e consiglio. Così Severgnini di-venta una sorta di aperto confessore della coscienza nazionale, di cui riceve nel segreto della comunicazione epistolare confidenze private e privatissime, utili a corroborare le sue intuizioni circa l’avvicendarsi dei tempi e le sorti del genio italiano. Dice il to, che diventa esempio minuto ed emblematico, ma non il pecca-tore, perché potrebbe essere uno qualunque dei suoi molteplici lettori e affinché costoro possano ritrovare agevolmente se stessi nella peculiarità del caso evocato.

I procedimenti compositivi e retorici prediletti da Sever-gnini sono i cataloghi, i decaloghi, le enumerazioni pittorescamen-te controllapittorescamen-te, le classifiche, gli elenchi di acronimi, le serie nomi-nali alfabetiche, le enueg in ordine crescente d’intolleranza: tutte configurazioni testuali utili ad articolare la trattazione in sequenze ed episodi brevi, capaci di lasciare un’eco memorabile, almeno per qualche istante, nella testa di chi legge. A ciò si abbina un

debo-GLI INTELLETTUALI CHE FANNO OPINIONE

le per l’allitterazione, talora smaccato («Giocasta non c’entra: la faccenda è più giocosa», Manuale dell’uomo sociale). Una materia vasta, variegata e complessa viene così analizzata, omogeneizzata, resa praticabile senza scomodare risorse intellettuali eccessiva-mente ponderose, ma sulla base di un principio ordinatore affat-to estrinseco, gratuitamente a essa sovrimposaffat-to, e proprio perciò propenso a delineare, attraverso l’acronimo o la sigla o la serie enumerativa, sovrasensi estemporanei e spiritosi: di significato primario ostentatamente estraneo ai fatti che sintetizzano o coar-tano, spesso ai limiti del nonsense; ovvero spiritosi perché nell’ap-plicare l’ordinamento didascalico dell’enciclopedia o del manuale ne flettono scherzosamente i presupposti di seriosità sistematica.

Le strutture e gli stilemi propri della letteratura manuali-stica ed enciclopedica sono adoperati a man bassa da Severgnini, ora più ora meno generosamente, non solo nei libri che in modo esplicito si richiamano sin dal titolo al paradigma del manuale ma in tutta la sua produzione. La vocazione tipologica si traduce nell’allestimento di appellativi, nomignoli o perifrasi definitorie che assurgono alla funzione di categorie dello spirito. Ecco per esempio la declinazione di una occasionale tassonomia muliebre: «Tanto Ti Trito», «Umile Utile Ubbidiente», «Vera Virago Vendi-cativa», «Zelante Zitella Zodiacale» (Manuale dell’uomo sociale). Il compiacimento classificatorio si spinge sino alla creazione del neologismo a partire dalla crasi dei termini che denotano le prin-cipali qualità del tipo sociale oggetto di studio: «Il Nottaio», «Il Consulniente», «L’Architutto», «Il Dirottore» (Manuale

dell’uo-mo sociale). L’esagerazione e l’iperbole sono gli strumenti retorici

funzionali a congiungere i toni largamente ironici del racconto e il gusto dell’accumulazione sotteso alla struttura testuale analiti-co-enumerativa: «Osservatelo, l’affermato professionista, mentre nasconde una razione sufficiente per un drappello di ussari. Am-miratela, la donna-manager, che mette nello stesso piatto tiramisù e vitello tonnato» (Manuale dell’uomo sociale).

Per tali vie, del consumismo maturo e del capitalismo glo-balizzato, l’autore si propone uno scrutinio pertinace, senza de-monizzazioni e con l’intento di attivare opportuni accorgimenti di autoconservazione: secondo la ricetta di un selfhelpismo

rive-La Giovane Marmotta Severgnini

duto e corretto all’insegna di pacati entusiasmi neoliberisti, come si desume per esempio da Italiani di domani. Otto porte sul futuro (2012). «Per il consumatore» spiegava già in Un italiano in

Ame-rica «la concorrenza comporta quasi soltanto vantaggi. Le

ecce-zioni sono poche: avvocati, università e ospedali (che sono ottimi, numerosi, ma sfacciatamente cari)»: se tali eccezioni intacchino alcuni fondamentali principi della civiltà democratica – i diritti alla giustizia, all’istruzione e alla salute –, risulta una questione tutto sommato trascurabile al candido Severgnini. Viceversa, la dialettica di «complicazione» e «agevolazione» che frena la creati-vità di tanti italiani è secondo lui consustanziale alle funzioni dello Stato: «Complicatori e Agevolatori non sono solo all’Inps: stanno dovunque, e trasformano la vita quotidiana in una guerra di trin-cea. Sono negli uffici tributari, nelle aziende sanitarie, negli uffici giudiziari, nella scuola, negli ordini professionali, nei ministeri e nelle amministrazioni locali, negli uffici tecnici» (La vita è un

viag-gio, 2014). Le pastoie e i guidaleschi della burocrazia appaiono in

larga misura di matrice statale e statalista, mentre «Aprire e gestire un’azienda, oggi, è un atto eroico» (La vita è un viaggio). Da un lato le macchinazioni tortuose dei mandarini, dall’altro l’attivismo frizzante dei produttori: non si scampa al tagliente manicheismo. Dietro la tollerante ampiezza di vedute, l’io scrivente severgninico rivela non di rado i segni di una militanza sin troppo ligia allo spi-rito dei tempi.

«L

a satira è un correttivo alla durezza dei sistemi.» Così Giulio Andreotti aveva definito quel genere lettera-rio così irriverente, cinico e tagliente di cui è stato più volte bersa-glio nel corso della sua vita. Fin dall’antichità la satira ha trattato fatti politici e di attualità prendendo di mira i potenti di turno o le idee dominanti, con l’intento di suscitare nel lettore un riso ama-ro che lo portasse a una più attenta riflessione. Attraverso vignet-te accompagnavignet-te da battuvignet-te rapide – che caratvignet-terizzano la satira così come la conosciamo oggi – negli ultimi quarant’anni diverse pubblicazioni ci hanno mostrato un’altra Italia tramite le penne di numerosi opinionisti. Già negli anni settanta «linus» comincia a pubblicare strisce di Altan e Vauro, mentre Pino Zac e Vincino collaborano tra gli altri a «Il Male», rivista che esce nel 1977 e che muore dopo pochi anni. Stessa sorte hanno «Satyricon», l’inserto della «Repubblica» nato nel 1978, così come «Tango» e «Cuore» della famiglia dell’Unità. Questi ultimi due, entrambi degli anni ottanta, sono stati la palestra e il palcoscenico di diversi autori, che sulle loro pagine hanno consolidato il fenomeno dell’autosatira facendo ridere di se stessi gli esponenti della sinistra italiana.

Nel corso degli anni, oltre che sulle riviste dedicate –

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