regina della Rete
di Walter Galbiati
Nei bilanci ufficiali riporta ricavi che si aggirano intorno ai cinquanta milioni di euro e sostiene di operare come fornitore di servizi della consociata Google Ireland. Ma stando alle stime degli operatori di mercato, il suo fatturato reale, quello che incasserebbe dalla raccolta pubblicitaria, si aggira tra gli 800 milioni e il miliardo di euro. Quale è il vero lavoro di Google in Italia e quali sono i suoi numeri? Ecco cosa dicono le carte ufficiali.
CRONACHE EDITORIALI I veri numeri della regina della Rete
le non nello spazio, ma nel tempo. Un equilibrio che stride un po’ con il normale andamento dei conti delle società che operano con successo in Internet. Senza andare troppo lontano, anzi salendo di un gradino nella piramide di controllo della stessa Google, la casa madre americana macina crescite nel giro d’affari a due cifre: tra il 2011 e il 2013 ha costantemente visto salire il proprio fatturato di oltre venti punti percentuali l’anno. Ci si sarebbe dovuto aspettare una progressione simile anche dalla controllata italiana, nonostan-te le spiccanonostan-te differenze che marcano l’economia dei due Paesi.
Nel 2013, in Italia gli investimenti pubblicitari sono andati di pari passo con il prodotto interno lordo (-1,9%) e sono calati in tutti i settori, dal piccolo schermo alla carta stampata. L’unica oasi di felicità è apparso il regno di Internet che è riuscito con una cre-scita del 18% ad andare in controtendenza. In uno scenario simi-le, il fatturato di Google Italia non si sarebbe dovuto comportare diversamente, perché secondo le stime degli operatori il colosso di Mountain View si prende da solo una quota pari a oltre il 60% della torta pubblicitaria del web italiano.
Come mai questo non accada, lo si scopre leggendo il bi-lancio di Google. «I ricavi esposti» riporta la relazione sulla ge-stione, imposta dall’articolo 2428 del Codice civile, «sono relativi all’attività tipica della società e sono stati conseguiti esclusiva-mente nei confronti di altre società del gruppo cui Google appar-tiene; la variazione intervenuta nell’esercizio è strettamente cor-relata al decremento dei costi della produzione – in particolare dei costi per servizi – base di computo dei ricavi stessi.» E cosa fa Google Italia per il gruppo? Opera «come fornitore di servizi di marketing e di ricerca e sviluppo per Google Ireland Ltd (Irlan-da) e Google Inc (Usa)» e i principali rischi che ne determinano l’oscillazione del fatturato dipendono più dalle politiche di bilan-cio decise in Irlanda e negli Usa che dal reale contesto economico in cui opera la società. Nei libri di Google Italia non si parla mai di raccolta pubblicitaria, un lavoro lasciato nelle mani della filiale irlandese che per i servizi ricevuti spedisce nella sede di Milano esclusivamente i soldi necessari a coprire le spese. Nel 2013, su quasi cinquanta milioni di ricavi, oltre 47, 6 milioni di euro sono arrivati dall’Irlanda, gli altri dagli Usa.
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Eppure, in Italia, Google racimola non pochi quattrini dagli inserzionisti di ogni genere. Come tutti gli operatori che la-vorano nella pubblicità, l’azienda dovrebbe fornire i propri dati di raccolta all’Authority per le comunicazioni (Agcom) che in base alla Legge Gasparri ha il compito di censire il Sistema inte-grato della comunicazione (Sic), il calderone in cui finiscono gli incassi di televisioni, giornali, radio e di tutti gli altri media com-preso Internet. Google, che non ha mai voluto alzare il velo sui propri affari, ha da ultimo ceduto e fornito all’Agcom una parte delle informazioni richieste, ma ha subito presentato ricorso al Tribunale amministrativo (Tar) per chiedere di tutelare i propri numeri sensibili.
Il punto su cui bisognerebbe fare chiarezza è la reale at-tività di Google Italia: è solo un fornitore di servizi per la società irlandese oppure è un collettore di investimenti di chi vuole fare campagne di pubblicità sulla Rete Internet italiana? Il quesito non è indifferente, perché all’occorrenza i numeri cambiano e molto.
Nel primo caso il bilancio sarebbe in linea con quanto vie-ne depositato oggi dalla società, diversamente i ricavi salirebbe-ro vertiginosamente. Le stime degli addetti ai lavori parlano per Google di una raccolta pubblicitaria 2013 compresa tra gli 800 milioni e il miliardo di euro, divisa tra le attività di motore di ricer-ca, la vera corazzata del gruppo, i video, dove la società opera con il marchio YouTube, e infine i display web e mobili. Questi ricavi, insieme con quelli di altre affiliate europee, confluiscono indistin-tamente nelle casse della holding irlandese, che poi paga le spese di ogni singola controllata.
Google Ireland ha chiuso il 2013 con un giro di affari di 17 miliardi di euro, in crescita del 10%, una percentuale in linea con quanto riportato nel bilancio della casa madre, che ingloba le per-formance di tutti i Paesi in cui la multinazionale opera, salito nello stesso periodo del 20% a 59 miliardi di dollari (circa 47 miliar-di miliar-di euro). Ma anche nel bilancio statunitense, Google si guarda bene dal pubblicare la divisione del fatturato Paese per Paese. Nel rapporto depositato presso la Sec, l’Authority Usa che vigila sulle società quotate, il fatturato del gruppo è diviso in tre grandi aree: Stati Uniti, da cui deriva il 45% dei ricavi, il Regno Unito che
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tribuisce per un altro 10% e infine un generico Resto del Mondo, che si aggiudica il rimanente 45%.
Tanto mistero sulla raccolta pubblicitaria, e numeri uffi-ciali così bassi nei mercati locali, hanno incuriosito gli ispettori del Fisco di molti Paesi, Italia inclusa. Il trasferimento del fatturato italiano in Irlanda è stato visto dall’Agenzia delle Entrate e dal-la Procura di Midal-lano come un tentativo di eludere l’imposizione fiscale italiana. Le tasse sulle imprese al di là della Manica sono pari al 12,5%, mentre nello Stivale sono ben più alte, pari almeno al 27,5%. Da qui l’interesse a trasferire i proventi delle attività là dove le tasse sono più basse e a lasciare i costi dove la fiscalità è più elevata. Avere un fatturato contenuto e commisurato ai costi è fondamentale per conseguire un risultato operativo basso: del resto è su questa voce di bilancio, che gli inglesi chiamano “Ebit”, utile prima delle tasse e degli interessi, che viene calcolato quanto le aziende devono versare all’Erario. Stando ai bilanci, in tre anni, Google Italia ha pagato 5,8 milioni di euro di imposte a fronte di un fatturato ufficiale di quasi 150 milioni di euro e di una raccolta pubblicitaria stimata superiore ai due miliardi di euro.
La scientificità con cui Google perseguirebbe l’ottimizza-zione fiscale all’interno del gruppo sarebbe confermata anche dal-la struttura irdal-landese: dal-la Google Iredal-land è posseduta daldal-la Google Ireland Holding, una società di Dublino, ma registrata ai fini fi-scali alle isole Bermuda, un centro offshore a tutti gli effetti. Fatto sta che nel 2013 la filiale locale ha versato tasse per 27,7 milioni di euro contro i 17 milioni dell’anno precedente, comunque poco rispetto a un fatturato di 17 miliardi di euro.
Al di là delle cause aperte con il Fisco e la Magistratura, definire dove generino i ricavi e dove vadano tassati i giganti del web è estremamente importante e urgente. Di fatto, Google è la seconda concessionaria in Italia, subito dopo Publitalia, e il suo ruolo di editore di contenuti è sotto gli occhi di tutti. Ad assumersi il compito di far chiarezza è stata l’Organizzazione per la coopera-zione e lo sviluppo economico (Ocse) che ha avviato un confronto all’interno del G20 per impedire alle grandi imprese di sfuggire alle imposizioni fiscali. D’altra parte, già nei lavori preparatori al documento, l’Ocse aveva ricordato come le grandi multinazionali
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riescano a pagare una quota di imposte intorno al 5% dei profitti, mentre le piccole e medie imprese (con quasi il 30% di carico) e le persone fisiche hanno oneri ben maggiori. L’obiettivo dell’Or-ganizzazione è obbligare le società a riportare con chiarezza alle autorità di regolamentazione dove risiedono, dove fanno profitti in giro per il mondo, specificando l’informazione Paese per Paese.
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e il 2013 è stato l’ennesimo annushor-ribilis dell’editoria italiana, con un calo generale di fatturato del
13,1% e una contrazione della platea di lettori del 6%, i tiepidi dati di vendita del 2014 dimostrano che la caduta di mercato, in particolare del canale trade, ha assunto caratteristiche permanenti e solo in via marginale è stata controbilanciata dall’espansione de-gli acquisti digitali. L’e-book italiano, pur in crescita, si configura come una tendenza nuova e ancora minoritaria per una nazione che è abituata a spendere poco e di rado per i consumi culturali e in particolare per gli acquisti di tipo libresco.
Così quindi commentava Marco Polillo, presidente dell’As-sociazione Italiana Editori alla Buchmesse dello scorso ottobre, in occasione della presentazione del Rapporto sullo stato dell’editoria in
Italia: «In tre anni il settore ha perso circa il 20% del suo valore. Lo
vediamo, d’altro canto, dal quotidiano stillicidio di notizie di chiu-sure di librerie, di colleghi editori sempre più in difficoltà, che speri-mentano – spesso per la prima volta nella loro storia – la necessità di ricorrere a cassa integrazione o a forme di mobilità».
Uniche luci nella tetra cornice dei dati rilevati da Aie, i risul-tati della vendita di diritti italiani all’estero: essi affermano una