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diabetico, al contrario, l’IRR era correlato in maniera significativa con l’emoglobina glicata e con i valori sistolici di pressione arteriosa suggerendo quindi che il primum movens del danno renale sia l’iperglicemia. Diventa quindi importante avere uno stretto controllo dei valori pressori e glicemici, anche nelle condizioni di cliniche precedenti al franco diabete, per rallentare l’insorgenza delle complicazioni microvascolari, soprattutto quando sono già presenti segni di rigidità arteriosa sistemica (Bruno, 2011).

Un aumento della rigidità arteriosa lo possiamo osservare anche all’aumentare dell’età. Nel 1997 Krumme e coll. hanno condotto uno studio su pazienti che avevano subito un trapianto renale e che non presentavano segni di rigetto. Questi ricercatori, in considerazione dell’utilizzo dell’IRR come marcatore precoce di danno del rene trapiantato, hanno voluto indagare i fattori che determinano modificazioni dell’IRR, per definire in maniera migliore quali fossero i pazienti da considerare a rischio di rigetto; hanno evidenziato che la correlazione più importante si verifica tra IRR e valori di compliance vascolare e di età del soggetto ricevente, mentre gli stessi valori, se considerati nel donatore, non hanno alcuna influenza sull’IRR stesso. Questa evidenza, unita al fatto che nella popolazione arruolata non era stato possibile mettere in correlazione l’IRR con i valori di filtrazione glomerulare, ha spinto Krumme e coll. a suggerire che l’IRR possa servire da indice efficace nell’identificare il rigetto di un trapianto renale solo se vengono considerati i suoi cambiamenti nel tempo e non come valori assoluti. Infatti, essendo la rigidità arteriosa variabile da soggetto a soggetto, a seconda di età e comorbilità, non è possibile stabilire a priori quali valori debbano essere considerati patologici. La misurazione Doppler dell’IRR resta comunque auspicabile al momento del trapianto e nei successivi controlli per monitorizzare la risposta renale e stabilire una prognosi del trapianto (Krumme, 1997).

6.5 Alterazioni del compartimento tubulo-interstiziale come determinante dell’IRR

Negli anni ’90 l’IRR si è affermato come una misura semplice e poco costosa della resistenza, ma soprattutto della compliance vascolare a livello renale.

L’aumento dei valori di IRR è associato a molteplici patologie renali, come dimostrato di diversi studi, ma appare chiaro che l’incremento maggiore dei valori di IRR si ha nei pazienti che presentano patologie tubulo-interstiziali più che in quelli con patologie glomerulari.

Questa conferma si è avuta grazie a studi che hanno correlato la misura Doppler dell’IRR con i risultati di biopsie renali (Mostbeck, 1991); infatti, quando il compartimento glomerulare è intatto, i valori di IRR riflettono il grado di danneggiamento del compartimento tubulo-interstiziale (Tublin, 2002).

La progressione del danno renale è considerata l’esito della fibrosi che si verifica a livello delle varie componenti renali; tale cicatrizzazione provoca la riduzione del numero e dell’area occupata dai capillari postglomerulari che potrebbe essere responsabile dell’incremento della resistenza vascolare (Ruilope, 1994; Azar., 1977).Non è ancora chiaro quale sia il contributo dei differenti letti vascolari ovvero dei vasi preglomerulari, glomerulari o postglomerulari, nel far aumentare i valori di IRR durante le nefropatie tubulo-interstiziali (TIN); da studi condotti su pazienti diabetici sembrerebbe che i maggiori responsabili di tale incremento siano i capillari postglomerulari, anche se in questo caso è stato riscontrato come pattern istopatologico predominante una glomerulo sclerosi ialina e non una fibrosi tubulo interstiziale (Rappelli, 1996; Rodicio, 1996). A differenza dei diabetici, gli ipertesi hanno un indice di resistività aumentato indipendentemente dalla presenza di nefropatia evidente e mostrano una riduzione uniforme della perfusione renale (Larochelle, 1991); la filtrazione glomerulare è generalmente mantenuta: questo suggerisce la presenza di una cicatrizzazione o di una vasocostrizione più pronunciata a livello dei vasi postglomerulari (Dumazer, 1994; Hollemberg, 1975). Il meccanismo fisiopatologico alla base del danno ipertensivo sul parenchima renale rimane in primo luogo l’arteriolosclerosi ialina delle arteriole preglomerulari. Indipendentemente dall’origine del danno parenchimale si può ipotizzare che all’inizio il processo sia reversibile almeno in parte e che solo nelle fasi avanzate di malattia diventi irreversibile.

Le patologie renali che coinvolgono il compartimento tubulo interstiziale agiscono su ognuno dei determinanti maggiori dell’IRR poiché l’aumento della pressione interstiziale renale aumenta le resistenze vascolari dei capillari postglomerulari e ne diminuisce la distensibilità; in più il numero e l’area occupata da questi capillari diminuisce in maniera significativa in queste patologie a causa dei processi di fibrosi (Eknoyan G e coll., 1990). Tutti questi cambiamenti danno come risultato un progressivo e significativo aumento dei valori dell’indice di resistività, come dimostrato dalla buona correlazione, riportata da uno studio di Platt e coll., tra aumento di valori di IRR e cambiamenti istopatologici. In questo studio sono stati arruolati pazienti con patologia renale cronica di tipo non ostruttivo; è

stato misurato l’indice di resistività ed è stata eseguita una biopsia renale. I risultati hanno mostrato come la forma dell’onda Doppler e, di conseguenza, il valore dell’IRR siano influenzati dal sito del processo patologico renale, e ci siano aumenti dell’indice di resistività specialmente quando il danno sia localizzato a livello del compartimento tubulo interstiziale (ad esempio nel caso di patologie come la necrosi tubulare acuta e le vasculiti) e come invece molto meno significativa sia l’influenza di patologie glomerulari seppur severe. Fino ad allora uno dei parametri ecografici più significativi nello studio della patologia renale cronica non ostruttiva era considerata la valutazione dell’ecogenicità della corticale e della midollare ed in particolare le loro diversità. Nello studio di Platt invece non sono state trovate significative differenze nei valori di IRR in pazienti i cui reni avevano ecogenicità normale e quelli che l’avevano alterata, suggerendo così che i fattori che modificano l’ecogenicità non sono sempre correlati con i processi che invece alterano l’IRR (Platt, 1999).

Nel 2006 Boddi e coll. hanno eseguito uno studio su pazienti ipertesi e non, con storia di nefropatia tubulo interstiziale. Per questo studio sono stati arruolati 58 pazienti (30 normotesi e 28 ipertesi di grado I-II OMS) con funzionalità renale conservata, ma anamnesi suggestiva per TIN (nefrolitiasi o livelli di acido urico sierici superiori a 6,5 mg/dL o almeno tre episodi di infezioni urinarie confermati da urino colture positive); inoltre sono stati studiati 40 soggetti sani i cui valori sono serviti da misurazioni di controllo. La nefropatia interstiziale è stata valutata attraverso una scintigrafia renale con 99mTc-DMSA (acido

dimercaptosuccinico); nei pazienti senza storia di TIN è stata effettuata una scintigrafia renale sequenziale per misurare la GFR e il flusso renale plasmatico effettivo, in modo da quantificare esattamente la funzionalità renale. I risultati dello studio non hanno dimostrato una significativa differenza tra i valori di IRR nei pazienti senza storia di TIN e i controlli (Figura 7a), ma hanno evidenziato un rilevante aumento dell’IRR nei pazienti normotesi con TIN: in particolare è stata rilevata una correlazione lineare tra valori di uricemia e di IRR, con l’aumento più marcato di IRR che avveniva per valori di uricemia maggiori di 7 mg/dL (Figura 7b).

Nei pazienti ipertesi i valori di IRR erano superiori rispetto ai controlli e ai pazienti normotesi senza TIN; anche in questo gruppo però c’erano significative differenza tra pazienti con e senza anamnesi positiva per danno tubulo interstiziale, anche se non è stata trovata una correlazione lineare con i valori di uricemia (Figura 7c). Infine i pazienti

normotesi con TIN e gli ipertesi avevano valori di IRR di molto superiori rispetto ai pazienti negativi per TIN e i valori dell’indice di resistività correlavano con quelli relativi alla filtrazione glomerulare (Figura 8).

Figura 7:

Figura 8:

Lo studio dimostra che la misura dell’indice di resistività è un metodo utile per diagnosticare precocemente un danno tubulo interstiziale cronico sia in pazienti normotesi che ipertesi con una storia clinica o esami di laboratorio suggestivi per TIN, anche quando la funzione renale è ancora conservata. In questi pazienti l’aumento dell’IRR oltre i valori patologici è associato a una riduzione della capacità renale di acidificare e concentrare le urine e di aumentare il rapporto perfusione/filtrazione, tutti elementi che si riscontrano in una nefropatia interstiziale cronica. Gli autori hanno sottolineato come la misurazione dell’IRR sia capace di identificare il danno anche nei pazienti ipertesi, dove di norma i valori di IRR sono aumentati a causa del danno vascolare legato all’ipertensione arteriosa e hanno raccomandato l’uso dell’indice di resistività come un metodo semplice e non invasivo per identificare precocemente il danno parenchimale renale, specialmente in quei pazienti dove coesistono più fattori di rischio, primi tra tutti diabete mellito e ipertensione arteriosa (Boddi, 2006).

In uno studio del 2004, Sugiura e coll., hanno dimostrato come valori di IRR>0.65 si potessero utilizzare per identificare patologie tubulo interstiziali nel contesto della patologia renale cronica. In questo studio è stato anche introdotto un ulteriore parametro, l’Indice di Atrofia (AI), definito come il rapporto tra la lunghezza del seno renale e la lunghezza totale del rene. Comparando tale parametro con i risultati delle biopsie eseguite sui pazienti con insufficienza renale cronica l’AI si è dimostrato capace di predire la malattia tubulo interstiziale con una specificità del 100% e una sensibilità del 62%; ma è soprattutto la combinazione di IRR e AI a garantire una buona specificità e sensibilità se paragonati all’esito delle biopsie renali (Sugiura, 2004).

Da alcuni anni è stato evidenziato come un aumento degli indici di flogosi sia associato alla diminuzione della funzionalità renale; in particolare è emersa una correlazione tra i livelli di microalbuminuria e quelli di PCR (proteina C reattiva), marker di low-grade inflammation (Festa e coll. 2000).

In un recente studio, Berni e coll. (Berni, 2011) hanno evidenziato un’associazione fra l’aumento di IRR e i valori di PCR in pazienti ipertesi con funzione renale preservata. Gli autori hanno attribuito questa correlazione al coinvolgimento dell’interstizio renale nell’ipertensione arteriosa essenziale; come descritto nei capitoli precedenti, infatti, sembra che l’interstizio sia uno dei primi compartimenti ad essere coinvolto nell’ipertensione essenziale, così come nel diabete mellito (Johnson, 2002).

Dall’esperimento di Murphy e coll. (Murphy, 2000) sappiamo che all’aumento della pressione interstiziale renale corrisponde una riduzione della distensibilità dei capillari e questo crea un aumento dell’IRR. Tuttavia gli stessi autori non hanno potuto escludere che la correlazione trovata tra PCR e IRR sia da imputare alla rigidità arteriosa sistemica. Infatti molti recenti lavori hanno correlato la low-grade inflammation anche con la perdita dell’elasticità dei grandi vasi arteriosi: anche questo fenomeno può infatti modificare in maniera significativa i valori di IRR.