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Altri elementi del mosaico intertestuale

IL P OEMA COME TESTO LETTERARIO:

4.3 Altri elementi del mosaico intertestuale

Al di là delle plausibili fonti volgari, di cui peraltro si è notata la modesta pregnanza, è evidente che la componente intertestuale più cospicua e più interessante riguarda gli ipotesti latini che Giovanni Nesi ha utilizzato per comporre la propria opera. Un lavoro sistematico di ricerca delle fonti, come si è già avvertito, non è stato intrapreso: questo paragrafo si limiterà dunque a fornire alcuni spunti per ricostruire il metodo di lavoro dell’autore e fissare alcuni elementi imprescindibili della sua biblioteca ideale.

La presenza di molti codici autografi, la maggior parte dei quali è costituita da «quaderni di lavoro», rende certamente più stimolante, e in parte più semplice, il lavoro di ricostruzione della biblioteca ideale: ciò che Giovanni Nesi leggeva, trascriveva e postillava è sovente tràdito proprio da quei quaderni, nonché citato almeno en passant negli abbozzi nesiani. Il codice Magl. VI, 176, come si è visto, contiene molti testi di argomento politico e filosofico trascritti e “commentati” da Nesi stesso. Tra essi occupano uno spazio consistente i brani ficiniani, tratti dalla Theologia Platonica e da altri scritti del maestro di Figline106:

è evidente che questi testi dovettero essere costantemente letti e meditati da Nesi, che di Ficino si considerava epigono e che dell’Accademia di Careggi era presumibilmente un frequentatore. Ma il codice Magliabechiano mostra anche

106 Già Kristeller individuò i brani ficiniani (comprese le traduzioni dei dialoghi platonici)

trascritti in questo codice: De amore (c. 29r), Epistola ai fratelli (c. 66v), Di Dio ed anima (c. 69r),

Che cosa è fortuna (c. 71r), Visione d’Anselmo (cc. 71v-74v), Theologia Platonica (cc. 83r e 136r).

Benché questo elenco sia probabilmente incompleto, dà l’idea della vasta conoscenza che Nesi aveva dell’opera di Ficino, e dell’attenzione con la quale l’aveva letta e annotata. Cfr. P.O. KRISTELLER, Marsilio Ficino and his Work After Five Hundred Years, Firenze, Olschki, 1987, pp. 79; 176.

un vivo interesse per i Padri della Chiesa: Agostino, Ambrogio e Gregorio Magno, e per la Scolastica: Tommaso d’Aquino, Alberto Magno e Egidio Romano107. Tutti questi testi avevano nutrito la formazione di Giovanni Nesi, e

possono dunque essere considerati una fonte remota – e talvolta non soltanto remota – per il sostrato filosofico del Poema108. In alcune riflessioni sul Timeo

platonico e sulla Theologia platonica, registrate alle cc. 55v e 60v, si possono riconoscere i prodromi di analoghe digressioni presenti nel Poema, segnatamente al canto VIII. Bastano forse queste poche informazioni per trarre una prima conclusione, prevedibile ma non banale: tra le fonti del Poema nesiano i testi platonici, mediati dalle traduzioni di Ficino, e le opere di Ficino stesso hanno una priorità logica e cronologica; uno spoglio sistematico del

corpus ficiniano – lavoro gravoso ma necessario, che per ragioni di tempo non si

è nemmeno potuto iniziare – evidenzierebbe dunque numerosissimi punti di tangenza, e forse sarebbe sufficiente a illustrare i presupposti, gli intenti e la maggior parte dei contenuti del Poema nesiano. Questa considerazione non esclude, naturalmente, che Nesi si sia servito di diverse altre fonti primarie per comporre la propria opera, e che vi abbia riflettuto in modo autonomo rispetto alla specola ficiniana.

Un altro passo per la ricostruzione del metodo di lavoro di Nesi può essere compiuto recuperando alcune informazioni, peraltro già accennate, sui cosiddetti «codici degli abbozzi», e in particolare sul ms. Ricc. 2123. Entrando

107 Non pare un caso che questo stesso quaderno, che dovette essere allestito da un Nesi

relativamente giovane, contenga gli abbozzi di alcune orazioni pronunciate nelle confraternite fiorentine, che di sapienza patristica e scolastica sono ricolme.

108 È interessante rilevare che alcuni testi di argomento filosofico-politico presenti nel codice

Magliabechiano sembrano provenire da una raccolta piuttosto diffusa nella tradizione manoscritta quattrocentesca; queste sillogi contenevano, oltre al volgarizzamento dell’epistola Iantandem di PETRARCA (Familiares XII, 2, indirizzata a Niccolò Acciaiuoli), alcuni protesti di Stefano Porcari e Giannozzo Manetti, nonché estratti dal De regimine principum di Egidio Romano e dalla Monarchia di Dante. Evidentemente Nesi possedeva, o aveva lungamente visionato, uno di questi codici, dal quale aveva poi estratto i brani di maggior interesse. Cfr. Codici latini del Petrarca nelle biblioteche fiorentine: mostra, 19 maggio – 30 giugno

1991, a cura di M. Feo, Firenze, Le Lettere, 1991, pp. 151-177.

direttamente nell’“officina” del Poema è possibile individuare alcuni esempi del passaggio dalla fonte (latina) al testo poetico (volgare): operazione che, come si vedrà, è caratteristica di tutto il processo di composizione del Poema. Il più delle volte questa operazione è soltanto implicita: l’autore annota a margine di un brano poetico il riferimento a un testo da lui letto e utilizzato per la composizione. Altre volte invece il processo è esplicito. A c. 298v, sul fondo della pagina, alcuni appunti pongono le basi per una futura rielaborazione poetica:

a. coturno socco theatro idest Tersite; b. smirnee cote doctus offiane; c. vitreas undas tu dic undante vetro;

Le prime due indicazioni risultano in parte oscure: basti notare tuttavia che la prima viene ripresa in Poema II, 169 («ch’hor tempo è da coturni, et hor da sochi»), la seconda in Poema XII, 40-1 («Phoebo, io so ben ch’alla smirnea cote / non s’arruota mio verso»). La terza postilla annota un sintagma latino, «vitreas undas»: esso si può ritrovare, in questa stessa forma, negli Epigrammata del Sannazaro (I, xxiii, 3), la cui conoscenza da parte di Nesi tuttavia è assai dubbia; e soprattutto nella Xandra del Landino (II, xxiii, 75), dedicata «Ad urbem Florentiam». Inoltre, la stessa espressione diversamente declinata – presumibilmente la fonte remota delle riscritture umanistico-rinascimentali – si trova nell’Eneide (VII, 759: «vitrea te Fucinus unda»). Il carattere esemplare di questa postilla consiste nel «tu dic»: la fonte latina – sia che si tratti del più prossimo Landino, sia che si tratti del remoto Virgilio – viene annotata e immediatamente volgarizzata per essere inserita nel poema; in effetti questa stessa espressione si legge a Poema XIII, 215: il percorso fonte latina – appunto personale – testo del poema è così compiuto. Un processo analogo si trova per il

brano sacro di c. 226v che, come si è già visto, volgarizza e versifica un salmo biblico109. L’operazione più interessante, tuttavia, almeno per le successive

redazioni del Poema, è la versificazione di alcuni brani dell’Urania del Pontano. Qui la fonte è soltanto allusa attraverso i marginalia, ma il rapporto tra il testo nesiano e quello pontaniano si esprime nei termini di un volgarizzamento ad

litteram:

Quo surgente aliquis veniens in luminis auras si Phoebus quoque gorgoneo sese extulit ortu, si Mavors telo infelix rutilante lacessat,

quo sol, aut quo luna loco, dominumque locorum nec felix stella occurset, caelove cadenti

sese agat occasum versus regione secunda, huic caput avulsum collo violenta bipennis auferet, ut media truncus spectetur arena, aut etiam excisis manibus, pedibusve queretur crudeleis Geminos, crudelia sydera pisces. vulnere seu crudo illacrymans, et corpore toto saucius, incuset Phoebum, dictyniaque arma, si media coeli est specula lunaverit arcum, usque ad eomachides in nostra pericula saevit110.

Se Phoebo nasca dal gorgoneo orto o dal cadente cielo monstri suo fronte di mezzo, monstri il lume suo più scorto se’l gelido axe illustra et la magione in cielo ornata dalle septe et dua stelle che forman l’artico tryone le mani excise vidi et vidi e piedi Gemin crudeli et crudi segni pesci

incuset Phebum dictinniaque arma

et l’arme dictinne [rima con herinne]111

Il brano pontaniano funge da ispirazione per la composizione di alcuni versi abbozzati, che l’autore attendeva di poter collocare all’interno della propria opera. Inoltre, parallelamente alla trasformazione in versi volgari del brano latino, Nesi annota anche alcune indicazioni utili a proseguire il testo: «rima con herinne», aggiunge l’autore a margine, come a suggerire il modo di proseguire rispettando lo schema rimico. Poco importa che questo brano non sia stato incluso nelle redazioni successive del Poema: esso illustra alla perfezione il laboratorio poetico di Giovanni Nesi, che continuamente prende le mosse da una fonte per generare le proprie terzine. Alla carta successiva il lavoro

109 Cfr. supra p. XLV. Anche a c. 308r si trova il passaggio diretto ed esplicito da un testo latino ai

versi volgari; tuttavia, non si è potuto individuare l’origine del brano latino (in prosa), peraltro introdotto da un sibillino «ex me».

110 Cfr. PONTANO, Opera, Venetiae, in aedibus Aldi, 1513, c. 77r «De Perseo». 111 Ms. Ricc. 2123, c. 121r.

continua, questa volta a partire dal successivo brano pontaniano, «de Pegaso»:

Nec vero monimenta hominum intestata reliquit Iuppiter. At coelo illustrans vestigia famae, virtutisque aperire viam ad nova nomina iussit Pegasus; hinc coelo micat hic exordia fonti clara dedit, de quo sacros fudere liquores Pierides, quibus ora pii sitientia vates...112

Di sua chiara virtù aprir la via ad nuovi nomi al ciel già volse Giove: Pegaso il mostra et la sua compagnia el fonte sacro et l’onda vidi dove attinsono le Pieride il liquore ch’a sacri vati quindi in terra piove113

Anche in questo caso il rapporto di affinità tra il testo latino e i versi volgari è evidente, e anche gli aggiustamenti dovuti alle diverse necessità metriche e lessicali sono minimi.

Come si è già anticipato altrove114, tuttavia, le fonti citate o alluse nel codice

Ricc. 2123 sembrano essere affatto diverse da quelle poi effettivamente utilizzate nella composizione del Poema. Molti di questi abbozzi sono stati rigettati, o comunque non collocati nei canti superstiti, e con loro si è perso anche il riferimento puntuale all’intertesto. Una delle poche eccezioni, per quanto si è potuto sinora stabilire, riguarda il De astronomia di Igino Astronomo. La presenza esplicita di quest’opera nella fase degli abbozzi è limitata a un unico luogo. Dopo aver composto un brano che verrà poi inserito nel canto XV, Nesi trascrive il seguente appunto: «nota Iginum c. 21 ubi agit de tauro ibi dicit de hyadibus et pleiadibus fabellas quas debes inserere cum agis de elemento terre vel aque». Il riferimento risulta preciso: nel luogo del II libro del De

Astronomia in cui Igino si occupa della costellazione del Toro si trova un lungo

riferimento alle vicende di Iadi e Pleiadi (II, 21). L’annotazione non è accompagnata da alcun brano in versi; tuttavia, le Iadi e le Pleiadi sono menzionate da Nesi nelle redazioni successive del testo, precisamente al canto

112 Cfr. PONTANO, Opera cit., c. 77r «De Pegaso». 113 Ms. Ricc. 2123, c. 121v.

114 Si veda supra p. XXXIX.

XIII, laddove si parla della costellazione del Toro:

Vidi poi come dextramente poggia colle corna e co’ piè quel che già in Creta salva portò chi in grembo a Giove alloggia; le nutrice di Baccho in quella lieta

fronte sua vidi, et vidi septe figlie

di Pleone et Athlante far gran pieta. (Poema XIII, 91-96)

A questo punto vale la pena di recuperare il testo di Igino, per verificare le eventuali corrispondenze. A proposito del Toro, Igino ricorda che «hic dicitur inter astra esse constitutus quod Europam incolumem transvexerit Cretam»115.

Poco oltre, Igino ricorda che le Iadi furono nutrici di Libero («Liberi nutrices esse»)116, e che le Pleiadi erano figlie di Pleone e Atlante («quod ex Pleione

Oceani et Atlante sint natae»). Quel brano del De Astronomia che Nesi aveva annotato negli abbozzi non è dunque rimasto inerte, ma è stato recuperato al momento opportuno nella rassegna di catasterismi che occupa i canti XII-XIV del Poema117.

In effetti, la prossimità tra il II libro del De Astronomia e i canti “astronomici” del Poema sembra andare oltre questo riferimento alla costellazione del Toro. Non soltanto, infatti, la maggior parte delle notizie sui catasterismi citate nel

Poema si ritrova in Igino: ma l’esposizione nesiana segue un ordine analogo a

quello della fonte latina, peraltro richiamando a margine i nomi dei personaggi citati nel testo. Il II libro di Igino si apre con la trattazione di Callisto, che sta

115 Corsivo mio.

116 La mancanza, nel testo di Igino, del nome di Bacco, sostituito dal dio Libero – i cui riti a

Roma presero il posto dei Baccanali dopo il Senatusconsultum del 186 a.C. – fa comunque sospettare che Igino non sia l’unica fonte di Nesi (cfr. ad esempio OVIDIO, Fasti V, 167).

117 La collocazione di questa notizia è dunque mutata rispetto all’idea originale dell’autore, che

intendeva porla «cum agis de elemento terre vel aque». Nei primi quattro canti, laddove si attraversano le sfere della terra e dell’acqua, non vi è traccia della costellazione del Toro, delle Iadi o delle Pleiadi; piuttosto esse sono alluse en passant nell’incipit dell’opera, per indicare il tempo primaverile (I, 4-6).

all’origine della costellazione dell’Orsa minore118; allo stesso modo Nesi apre la

propria rassegna con Callisto:

Calisto vidi, che di regia prole ad gli studii conversa di Dïana

cognobbe quel che ’l cielo et ’l mondo cole. (Poema XII, 109-11)

Igino ricorda che, secondo Esiodo, l’Orsa Minore è colei che «studio venationis inductam, ad Dianam se applicuisse»119. Poco oltre, narrando la tragica

conclusione della vicenda di Callisto, Igino scrive che «in ursae speciem est conversa»: Nesi similmente afferma che Diana «sua figura / in vil orsa cangiò» (Poema XII, 113-14). Non solo le informazioni sono ricavate dal testo iginiano, dunque, ma anche il lessico, che viene volgarizzato e inserito nel testo poetico. In modo analogo Nesi si comporta con tutte le quasi cinquanta costellazioni trattate: i luoghi in cui il poeta si discosta dal proprio testo di riferimento sono esigui e non sembrano inficiare l’ipotesi di una intertestualità diretta. Il fatto che questa macro-tessera rimanga un ipotesto fondamentale per lo spazio di tre canti, come si è detto, non esclude che Nesi potesse costantemente confrontare le notizie veicolate da un testo in suo possesso con quelle contenute in altri testi; tuttavia i punti di tangenza sono talmente numerosi da far sospettare che Igino fosse il principale punto di riferimento per questi canti, e che l’autore disponesse di una copia da consultare costantemente. Anche l’ordine di presentazione dei catasterismi risulta simile, come si è detto; si vedano a questo proposito le prime venti costellazioni, che Nesi si preoccupa di numerare, come si è detto, sul margine sinistro della sua pagina:

118 Cfr. IGINO, De astronomia II, 1. 119 Corsivo mio.

Nesi, Poema Igino, De astronomia II

1. Ursa Maior 1. «Arctos Maxima»

2. Ursa minor sive Cynosura 2. «Arctus Minor» («Cynosura» nel testo)

3. «Draco» («Serpente» nel testo) 3. «Serpens»

4. «Arthophilax filius Licaonis» 4. «Arctophylax»

5. «Canis Canicula» 4bis. «Icarus», «Erigone», «Canicula»

5bis. «Icarus Erigone»

6. «Corona» 5. «Corona»

7. «Hercules» 6. «Engonasin» («Hercules»)

8. «Lyra» 7. «Lyra»

9. «Cignus» 8. «Olor» («Kyknon Graeci appellant»)

10. «Casiopeia» 9. «Cepheus»

11. «Cepheus» 10. Casiepia

12. Erictonius auriga 11. Andromeda

13. Perseus 12. Perseus

14. Andromeda 13. Heniochus («Erichtonium»)

15. Ophiuleus anguitenens 14. Ophiuchus anguitenens

16. Sagycta 15. Sagitta

17. Aquila 16. Aquila

18. Delphinus 17. Delphinus

19. Equus 18. Equus

20. Deltoton 19. Deltoton

Come si vede, la corrispondenza tra i due testi non è esatta, né nell’ordine (particolarmente per il gruppo Cassiopea-Cefeo-Perseo-Andromeda) né nel lessico; tuttavia non si può escludere che alcune delle divergenze siano da attribuire alla copia posseduta da Nesi – tanto più se si trattava di una copia manoscritta – e non alla contaminazione tra fonti diverse. A partire dalla quindicesima costellazione nesiana, tra l’altro, tanto l’ordine quanto la nomenclatura continuano identici, anche oltre gli esempi riportati in tabella. Queste affinità rilevanti conducono dunque alla conclusione che il II libro De

astronomia fosse uno dei punti di riferimento per il blocco di canti XII-XIV del Poema nesiano, benché probabilmente non l’unico120.

Un’altra importante macro-tessera per il Poema nesiano sembra essere costituita dal Commentarium in Convivium Platonis di Ficino – o, più probabilmente, dal suo volgarizzamento: Sopra lo amore ovvero Convito di Platone. L’opera di traduzione di Ficino dovette consentire a Nesi e agli altri scrittori vicini all’Accademia di disporre di un lessico con cui rendere in volgare i temi cari alla speculazione platonica e neoplatonica. Delle citazioni del

Commentarium nel codice Magliabechiano si è già detto: e ciò conferma che

quell’opera Nesi leggeva e meditava da tempo. Alla luce delle ultime redazioni del Poema si può dire che il commento ficiniano sia servito a Nesi soprattutto per la stesura del canto XXI, laddove, nel cielo di Venere, si dà conto della teoria dell’amore. Così dunque si esprime Nesi:

In sé par morto quello, in altri viva; altri in sé morto, in quel sua vita asconde: così reciproca è lor fiamma viva!

Faelice morte in sé, che vita infonde; faelice in altri per forza d’amore che sé togliendo ad sé, in altri abonde, et altri in sé riceve, et così il core dal suo nido partendo ne va dove vive in altrui, et nel suo pecto more.

[…]

Due alme vive, et due alme eron morte; quattro parieno et pur solo eron due, di morte et vita amando ambe consorte.

[…]

Faelice morte dunque in tale exempio, felice vie più vita ch’indi arrive,

onde mia voglia con gioire adempio. Così l’amante nell’amato vive,

120 Né i Phaenomena di Arato, né gli Astronomica di Manilio, né tantomeno l’Urania del Pontano si

avvicinano, nell’ordine, nel lessico e nelle informazioni fornite, al testo di Nesi quanto la rassegna iginiana: benché il rapporto tra questa e quello non sia stringente, dunque, rimane decisamente il più probabile.

ché si transforma in quello et diventa uno come in sua fronte Amor chiaro descrive. Così l’amato anchor vola in quello uno pecto già freddo de l’ardente amante, onde in sé morto, in altri vive ognuno; non pensa quello ad sé, et tra cotante cure ch’egli ha, sol una è sempre in opra:

pensa d’amore et d’amor fa sembiante. (Poema XXI, 133-168)

Il brano prosegue, sullo stesso tenore, per molti versi ancora: ma questo frammento è sufficiente per abbozzare un confronto con quanto scrive Ficino nel suo volgarizzamento del Simposio platonico. Il filosofo di Figline dedica alla teoria della reciprocità degli amanti il capitolo VIII della seconda orazione, pronunciata, nella finzione ficiniana, da Giovanni Cavalcanti:

Muore amando qualunque ama: perché il suo pensiero dimenticando sé, nella persona amata si rivolge. […] Se egli non è in sé, ancora non vive in sé medesimo; chi non vive è morto, e però è morto in sé qualunque ama: o egli

vive almeno in altri. [...]

Qui cosa maravigliosa avviene, quando duoi insieme si amano: costui in

colui, e colui in costui vive. Costoro fanno a cambio insieme, e ciascuno dà sé

ad altri, per altri ricevere. […]

Una solamente è la morte nell’Amore reciproco: le resurrezioni sono due, perché chi ama, muore una volta in sé, quando si lascia: risuscita subito nell’Amato quando l’amato lo riceve con ardente pensiero: risuscita ancora quando egli nell’Amato finalmente si riconosce, e non dubita sé esser amato. O felice morte alla quale seguitano due vite, o maraviglioso contratto nel quale l’uomo dà sé per altri, e ha altri, e sé non lascia121.

L’identificazione completa tra l’amante e l’amato, tanto che il primo muore a se stesso e vive nell’altro, viene ribadita, analizzata e ampliata per un lungo tratto in entrambi i brani, quasi a volerne fare un ritornello memorabile. I due testi dunque non sono affini soltanto nel contenuto, nell’esposizione di teorie filosofiche tipiche di un determinato ambiente culturale, ma anche nel lessico e nella trama stilistica che lo veicolano. Le antitesi, i chiasmi, i paradossi

121 Cfr. FICINO, Sopra lo amore II, viii; corsivi miei.

caratterizzano sia la prosa ficiniana sia la poesia nesiana, tanto che risulta difficile pensare che la seconda non si servisse ampiamente della prima.

Occorre ricordare che nel Poema di Giovanni Nesi convivono almeno due sottogeneri letterari: se l’ascesa iperuranica è caratterizzata in particolar modo dalle lunghe digressioni filosofiche, che l’autore connette a ciascuna sfera celeste, i primi quindici canti sono costruiti perlopiù su materiale didascalico: ciò vale tanto per la rassegna naturalistica dei canti II-VI, quanto per l’elenco di catasterismi dei canti XII-XIV122. Se per questa seconda sezione si è già

identificata una fonte principale (il De Astronomia di Igino) e altre possibili fonti secondarie (Arato, Ovidio, Pontano), la prima rimane sostanzialmente un problema aperto; d’altra parte, la somiglianza di tono e di intenti delle due sezioni consente di ipotizzare che, anche per la descrizione delle sfere elementali, l’autore abbia consultato un testo particolare, che deve aver seguito abbastanza fedelmente. Data l’insistenza di Nesi nel presentare gli aspetti morali degli esseri viventi, particolarmente degli animali, persino quelli esotici