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Sintesi della materia trattata

IL P OEMA COME TESTO LETTERARIO:

4.1 Sintesi della materia trattata

Come si è già accennato in precedenza, nel pur lungo cammino di elaborazione del Poema, o in ciò che di esso è rimasto, non è facile riconoscere un progetto letterario definito, con una struttura e un obiettivo precisi. Il filo conduttore del testo è evidentemente la visione celeste, costruita su un cosmo concepito secondo l’ordine tolemaico, ma osservato dalla specola platonica e neoplatonica – con tanto di Prometeo-Demiurgo e creazione dell’anima. Il contenuto particolare di questa visione, tuttavia, non sembra essere stato progettato già all’inizio della composizione: si ha piuttosto la sensazione, peraltro confermata dall’analisi del materiale preparatorio, di un testo che cresce e prende forma sotto la penna dell’autore, che assembla di continuo le proprie fonti in un mosaico di materiali filosofici, mitologici e didascalici. Per queste ragioni risulta altresì complicato quantificare la parte di testo che l’interruzione del lavoro ha impedito di completare. L’ascesa celeste si ferma alla sfera del Sole, e si può dunque ipotizzare che, nelle intenzioni dell’autore, dovesse comprendere anche le altre cinque sfere celesti, e forse anche una visione diretta della divinità nel cielo Empireo – sul modello della Commedia dantesca; tuttavia non si può dire, ad esempio, quale dovesse essere il numero complessivo di canti: trentatré sembra decisamente troppo basso, rispetto ai ventotto canti superstiti; cinquanta non avrebbe riscontri autoritativi nella tradizione; cento è più probabile, ma lontano dall’essere raggiunto, dato che l’ascesa si interrompe a poco meno della metà del cammino. Se l’autore avesse

in mente altri modelli, o intendesse aggiungere porzioni narrative o digressioni imprevedibili, non è possibile stabilire. Conviene dunque concentrarsi sulla parte di testo effettivamente redatta e darne innanzitutto una sintesi “di servizio”.

Già Della Torre, nella sua Storia dell’Accademia platonica, aveva fornito un sunto della materia del Poema – per la verità a grandi linee –, premettendo tra l’altro che il testo «è di difficile intelligenza per la durezza del verso e l’oscurità dello stile»83. Questo contributo si rivela assai prezioso per orientarsi nella

prima lettura del Poema, ma non è forse privo di errori di interpretazione della lettera, come si cercherà di mostrare. Il primo canto si apre dunque con una insistita descriptio veris (un primo esercizio di Nesi su questo tópos si può riconoscere nel componimento XXXIV del Canzoniere)84: la primavera è la

stagione ideale per dischiudere all’uomo le verità divine; l’anima dell’io narrato è separata dal corpo durante il sonno, e in modo portentoso elevata verso il cielo, al trono del «Vigore agente» (vv. 1-66)85. Dapprima lo sguardo del

protagonista è attratto da «un puncto indivisibil» (v. 67), che altro non è che la Terra: le sue ridotte dimensioni in rapporto all’immensità del cosmo generano una riflessione sulla vanità delle passioni terrene e delle ambizioni umane (vv. 67-120); da qui comincia la descrizione della prima sfera degli elementi, quella della terra, che comprende una rassegna di divinità terrestri, con la quale si chiude il primo canto (vv. 121-214). Il secondo canto è interamente dedicato al primo degli elementi, di cui si descrivono i componenti vegetali (vv. 1-75) e animali (vv. 76-135); conclude il canto un interessante elogio delle formiche (vv. 136-169), che esplicita l’intento di questi primi canti: esemplificare cioè gli insegnamenti morali che si possono trarre dall’osservazione attenta della natura

83 Cfr. A. DELLA TORRE, Storia dell’Accademia cit., p. 698.

84 Cfr. E. TORTELLI, Il «Canzoniere» di Giovanni Nesi cit., pp. 86-89.

85 Nel presente capitolo il testo del Poema è citato secondo la lezione del testo critico proposto

infra alle pp. 1-230.

(«Et tu anchor, se turbo alcun ti svia / dal felice tuo incepto, il loro exempio / segui, tornando a la medesma via», vv. 160-62). Il terzo canto è dedicato alla sfera dell’acqua, ma si apre con una delle numerose invocazioni per la poesia (vv. 31-48); segue una lunga descrizione delle acque celesti e terrestri, spesso citate con riferimento alla mitologia classica (Nettuno, Portunno, Teti, le ninfe; vv. 49-126); infine si inizia la rassegna degli animali acquatici, sovente individuati dalle postille marginali, e del loro valore morale (vv. 127-208). La rassegna si protrae per tutto il canto quarto, introdotto da una digressione sui concetti di Fato, Fortuna e Provvidenza, in un esemplare pastiche di modelli culturali (vv. 1-57). Le vicende del «ceto» e di Ulisse (natura e cultura si integrano perfettamente nella visione platonica del cosmo) occupano la restante parte dedicata al secondo elemento (vv. 58-81; 210-31). All’aria sono dedicati il quinto e il sesto canto: l’autore si sofferma dapprima sui fenomeni meteorologici (V, 61-84), in seguito sugli esseri viventi propri di questo elemento, i volatili, con uno schema che pare ripetersi in modo abbastanza regolare (V, 85-202); la digressione sui volatili continua nel canto sesto, che tuttavia inizia con una descrizione del carro del Sole (vv. 1-27) e con una invocazione per la poesia (vv. 28-48); chiude la trattazione del terzo elemento l’elogio delle api (vv. 190-205). Il canto settimo, ultimo di questa prima sezione del Poema, è dedicato alla sfera del fuoco, con alcune divergenze rispetto allo schema consolidato nei primi canti: l’unico animale di cui si parla, per ragioni abbastanza comprensibili, è la salamandra («animal parvo»: v. 86), di cui si indicano gli insegnamenti morali; a seguire si trova una lunga digressione sui filosofi antichi e sui loro errori, con una associazione tra elemento del fuoco e sapienza umana non del tutto perspicua (vv. 115-226); in questo segmento si trova anche un primo elogio di Platone (vv. 166-171), superiore all’allievo Aristotele, «genio della natura». I due canti successivi, l’ottavo e il nono, sono

dedicati alla creazione dell’uomo da parte di Prometeo (VIII) e alla creazione dell’anima da parte di Giove (IX); in questo segmento la sintesi di Della Torre non sembra concordare con quanto si può leggere nel testo nesiano. Dopo un richiamo alla vicenda di Prometeo (VIII, 1-75), l’autore riporta un lungo discorso di Giove sulle virtù degli animali, invitando infine lo stesso Prometeo a plasmare l’essere umano (vv. 76-111); si mette dunque in luce la corrispondenza, tipicamente neoplatonica, tra uomo e universo (vv. 112-193), che Nesi aveva letto in alcuni degli excerpta da lui stesso copiati nel codice Magliabechiano (Magl. VI, 176, cc. 60-61). Successivamente, nel canto nono, si narra la creazione dell’anima umana da parte di Giove, il quale rivolge alla stessa un avvertimento morale per prepararla alla vita terrena (vv. 64-144)86. I versi 145-195 sembrano

esemplificare i pericoli che l’anima correrà durante il pellegrinaggio in terra, attraverso il riferimento a episodi tragici tratti dalla mitologia classica; infine, un inatteso annuncio della renovatio temporis chiude il canto, a suggellare una visione chiaroscurale del destino umano (vv. 196-205). Il canto decimo, che, come si è detto, è trasmesso dal solo testimone R1, è un lamento quasi

salmodiato sulla corruzione morale degli uomini, rivolto a Giove, di cui si invoca l’aiuto pietoso; questo canto è il più breve dell’intero Poema (appena centocinquantuno versi), e sembra quasi una digressione imprevista, incidentale, forse scaturita dai temi affrontati alla fine del canto precedente. Il canto XI si apre sotto il segno del Cancro, di cui è biasimata la superbia (vv. 1- 27); tuttavia, l’autore si sente in dovere di prendere le distanze dall’astrologia radicale, e ribadisce e celebra il libero arbitrio dell’uomo, tanto più efficace

86 Non pare di ravvisare, in questa sezione narrativa, alcun intervento di Minerva, come

vorrebbe Della Torre, né pare che il monologo di questo canto IX sia rivolto all’io narrato (più d’una volta Giove si rivolge all’interlocutore con attributi femminili). Tuttavia, si deve ammettere che le ultime due terzine del discorso (vv. 139-144) potrebbero effettivamente attribuirsi al Nesi stesso, con un brusco mutamento di senso che risulta disorientante. L’incompiutezza del testo e la difficoltà della lettera, come ebbe a dire Della Torre, lasciano ampi margini di dubbio che potrebbero essere dissipati soltanto attraverso un commento sistematico e puntuale del testo.

quanto più riconosce gli insegnamenti divini (vv. 28-153); al verso 154 si ha una svolta nell’ascesa celeste: il protagonista si trova a contemplare un giardino, posto al confine tra mondo sublunare e mondo celeste; in esso si trovano i Sette Savi e altri sapienti dell’antichità (vv. 154-241). Oltrepassato il giardino dei sapienti, il protagonista inizia finalmente la salita attraverso le sfere celesti, dopo aver attraversato un grande portale custodito da Atlante e Apollo (XII, 1- 27); preceduta da uno scacco visivo e da una nuova invocazione per la poesia (vv. 28-48), comincia una lunga sezione che descrive le costellazioni celesti e la loro eziologia mitica (catasterismi): essa si protrae fino al v. 135 del canto XIV, ed è costantemente postillata a margine per indicare i nomi dei personaggi mitologici citati o allusi nel testo. L’intento della rassegna è naturalmente morale, dal momento che quasi a ogni narrazione corrisponde un avvertimento esplicito o implicito; inoltre, nella sezione successiva (XIV, 136-98) l’io poetante si scioglie in una lode del mondo celeste, sede di tutti i beni donati all’uomo per la sua felicità. Il canto quattordicesimo è chiuso da un lamento della voce poetante, che si sente delusa dalla vita e desiderosa di porvi termine (vv. 199- 229): non è forse troppo audace riconoscere in questo e altri passi analoghi tanto la frustrazione dell’autore per il fallimento delle istanze di rinnovamento politico e religioso, quanto forse l’approssimarsi della morte, probabilmente a causa di una malattia. Il canto quindicesimo indugia di nuovo sull’osservazione del cielo, provvedendo a una parziale rettifica delle conoscenze umane in materia astronomica (vv. 1-174): lo sforzo conoscitivo è senz’altro apprezzabile, ma non può non riconoscere il proprio limite («Mirando ingegno certo, che con tutto / che ’n terra sia, salir cerca tanto alto! / Ma spesso dalla man discosto è il fructo»: vv. 121-23). La visione successiva si sofferma sulla Via Lattea, che mostra il trionfo dei grandi eroi del passato, appartenenti alla storia greca e romana (vi trova spazio persino un elogio di Cicerone, vv. 250-58)87: si tratta

87 D’altra parte, la fonte principale di questa sezione sembra essere proprio il Somnium Scipionis

praticamente dell’unica irruzione della storia nel Poema, per il resto ricco di figure mitologiche e impalpabili88. Il passaggio attraverso la prima sfera celeste,

quella della Luna, avviene a partire dal canto XVI: dopo una descrizione dell’ascesa e un’invocazione per la poesia (vv. 1-39), l’anima didascalica del

Poema prende il sopravvento nella sezione successiva (vv. 40-162), che descrive

il satellite (ivi comprese le macchie lunari, come in risposta al canto III del

Paradiso dantesco: vv. 115-120) e i suoi influssi sulla vita terrena; la luna

dischiude al protagonista verità preziose, elencate attraverso l’uso del modulo anaforico «et so perché» (vv. 163-199). Il canto XVII, dopo una preterizione che descrive altri aspetti della luna e del suo carro (vv. 1-51), narra la visione del tempio di Diana, all’interno del quale appare una donna in lacrime (vv. 52-87): la svolta narrativa, inattesa, potrebbe dare al testo un significato finora non esplicitato se, come sembra, la donna, successivamente chiamata Camilla con un abile senhal, è l’allegoria della città di Firenze89. Essa rivolge un accorato

appello alla dea Diana (vv. 88-183), affermando di trovarsi in una sofferenza terribile; la dea le fa dono di un mantello e la invita a proseguire l’ascesa celeste (vv. 184-202). La scena descritta nel canto XVII ha lasciato interdetto il protagonista, che si interroga sull’identità della donna (XVIII, 1-57), la quale intanto viene elevata alla sfera successiva: l’io narrato, rimasto indietro, ne invoca l’aiuto, ed ella lo invita ad afferrare il mantello e a seguirla nel cielo di Mercurio (vv. 58-87); la restante parte del canto XVIII descrive l’ingresso nel secondo cielo, ove si contempla la schiera degli spiriti che si riunisce attorno al

ciceroniano (De re publica VI, 9-29): si veda infra a p. CXLVI.

88 Eccezion fatta per le due rapide e allusive citazioni di Leonardo da Vinci (XII, 73-75) e

Marsilio Ficino (XIX, 76-78), di cui si è già discusso supra, a p. LX.

89 Il riferimento alla Camilla virgiliana compare già nel Canzoniere (cfr. E. TORTELLI, Il

«Canzoniere» di Giovanni Nesi cit., p. 547) come controfigura della donna amata: «lei non si

piega et a legge d’Amore / più dura è assai che l’amazon Camilla». Quello che nell’opera lirica sembra un semplice riferimento dotto per rappresentare la ritrosia di Andreola, tuttavia, nel Poema sembra trasformarsi in allegoria politica, coerentemente con il contesto simbolico-visionario dell’opera in terza rima. Cfr. anche EAD., Per la cronologia del «Canzoniere» cit., p. 22.

tempio del dio (vv. 88-202). L’arrivo al tempio di Mercurio apre il canto successivo: una grandiosa effige della divinità sorge all’ingresso (XIX, 1-69); tra gli spiriti il protagonista si aspetta di vedere Ficino, ma essi gli rispondono sibillinamente, invitandolo a proseguire; dunque torna a prendere la parola Camilla, che implora Mercurio come già aveva fatto con Diana: ma il dio, dopo averle donato un «legno» (il caduceo?), la incoraggia a passare alla sfera successiva (vv. 79-126); così avviene, e al viaggio si aggrega una schiera di spiriti (vv. 127-187). I tre canti successivi (XX, XXI e XXII) sono dedicati al cielo di Venere, e dominati dal tema dell’amore. Innanzitutto il protagonista e il suo seguito approdano nel giardino degli spiriti amanti, lussureggiante di fiori e frutti di ogni specie (XX, 1-102); in seguito al suo desiderio di far parte della schiera di spiriti, l’io narrato viene colpito da un dardo, che ridesta l’amore tra lui e Camilla (vv. 103-129), «quella che già tanto amai» (v. 108): in questa occasione compare anche, per la prima volta, il senhal (v. 126); l’ultima parte del canto è dominata dalla figura di Cupido, portato in trionfo su un carro, e dalle donne amanti della mitologia e della storia romana (vv. 130-181). Nel canto successivo, dapprima si descrive il tempio di Venere, e in modo particolare un fonte circondato da bellissime ninfe (XXI, 1-126); in seguito, il poeta esprime la concezione della reciproca identificazione degli amanti, che vivono l’uno nell’altro (vv. 127-99), così come era stata espressa, ad esempio, nel commento ficiniano al Simposio di Platone. Il canto XXII, infine, vede un nuovo appello di Camilla, questa volta a Venere, che le risponde donandole un ramo (di mirto?) e invitandola a proseguire (vv. 85-165); la sequenza è incorniciata da due segmenti narrativi (vv. 1-84; 166-87). La restante parte del Poema è dedicata al cielo del Sole, luogo che consente all’autore di liberare la sua appassionata celebrazione dell’astro quale imago Dei, e di Febo come divinità pagana che più si addice a rappresentare il Dio unico concepito in termini neoplatonici. In

questi ultimi canti (XXIII-XXVIII) la lettera diviene ulteriormente faticosa, e non è sempre facile distinguere e identificare le varie sezioni. Nel canto XXIII ha larga parte la dottrina delle idee, quelle «prime forme» da cui traggono origine tutte le cose terrene (vv. 1-144); la seconda sequenza del canto è invece piuttosto oscura: sembra presentare alcune divinità particolarmente legate alla terra, ma non è chiaro con quale attinenza al contesto (vv. 145-190). Nel canto XXIV il protagonista (in questa sezione sembra sospeso ogni riferimento a Camilla e agli altri spiriti compagni) si trova a contemplare una divinità femminile, ricca di ogni bellezza e ogni virtù, che tiene in mano due calici (ricolmi, rispettivamente, di amore e sapienza), ai quali si abbeverano schiere di spiriti alati (vv. 1-66); questi ultimi (o la divinità stessa? Il testo è ambiguo) intonano poi un canto che celebra l’armonia del cielo del Sole, e biasima invece il degrado morale in cui versa l’Italia (vv. 67-172). Successivamente, il protagonista si trova al cospetto di uno spirito luminosissimo, il quale intona un canto che celebra lo splendore di Febo (XXV, 25-72), e descrive il suo tempio e giardino (vv. 73-135) e il cocchio solare con i suoi aurighi (vv. 136-190). Gli ultimi tre canti sono una variazione sul tema: la narrazione non progredisce, e il testo si dipana in lunghe digressioni filosofiche sulla luce solare. Al canto XXVI il protagonista (o l’io poetante?) si rivolge direttamente a Febo, chiedendo l’assistenza pietosa della luce divina (vv. 1-57); in seguito si rievoca la creazione dei grandi luminari (vv. 58-75), e dunque si passa a invocare il Creatore-Giove-Trinità, al quale si chiede di nuovo di poter contemplare in eterno la luce divina che in quel cielo risplende (vv. 76-175). Il canto XXVII è interamente dedicato alla celebrazione della luce solare come immagine della luce divina, mentre nel XXVIII si invoca nuovamente Febo e si espone la teoria della diffusione della luce; a questo punto si interrompe il testo, nell’apoteosi del monoteismo solare dionisian- ficiniano. L’interruzione, per la verità, non sembra particolarmente brusca: è

probabile che l’autore, percepita durante la stesura l’impossibilità di portare a compimento il progetto iniziale, abbia consapevolmente deciso di terminare il testo nel cielo del Sole, presumibilmente perché attratto dall’idea di mettere in versi una delle più suggestive teorie di matrice neoplatonica. D’altra parte, soprattutto nella seconda metà del Poema superstite, si moltiplicano le dichiarazioni di insufficienza poetica e di scoraggiamento, nonché gli auspici di un rapido ritorno al Creatore: si vedano ad esempio, oltre al già menzionato XIV, 199-229, anche XII, 199-205; XX, 7-27; XXVI, 154-175; XXVIII, 229-241. Questa stanchezza, personale e poetica, può essere forse affiancata a quella espressa dagli ultimi componimenti del Canzoniere90: Giovanni Nesi, dopo aver

vissuto una delle stagioni più animate della storia politica e culturale fiorentina, si trovava deluso nelle sue aspettative, e forse persino in condizioni di salute precarie; fu dunque costretto ad abbandonare, lentamente ma inesorabilmente, i progetti letterari concepiti tempo prima, ormai decisamente anacronistici.