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Meo dei Tolomei, senese e contemporaneo di Cecco Angiolieri, nasce intorno agli anni ’50 -’60 del Duecento. Appartenente a una delle più note casate senesi, parteciperà alla vita pubblica della città tanto che sarà presente alla firma della pace tra Guelfi e Ghibellini avvenuta nel 1280. Benché nobile e di ricca famiglia, cadrà in disgrazia a causa della vendita di alcune proprietà a suo fratello Mino, detto lo Zeppa, personaggio in vista nell’ambiente cittadino, a cui farà numerosi riferimenti nei componimenti poetici. Rimane, comunque, ignoto il motivo preciso della caduta in povertà: probabilmente la vendita di tali possedimenti ebbe gravi ripercussioni sul suo patrimonio. Di Meo dei Tolomei abbiamo le ultime notizie intorno al 1310; è plausibile, quindi, supporre che la morte avvenisse negli anni successivi.

La sua esistenza è stata, almeno fino alla caduta in disgrazia, costellata di consensi sia a livello politico sia poetico, tanto che fu destinatario di due sonetti:

Sonetto, se Meuccio t’è mostrato di Dante Alighieri (Rime LXIII) e Meuccio, i’ feci una vista d’amante di Cino da Pistoia. Nel primo, Dante esorta il sonetto a indicargli

Meuccio, a salutarlo e a inginocchiarsi a lui, come un valletto ben educato: «così tosto 'l saluta come 'l vedi, / E va' correndo e gittaliti a' piedi, /Sì che tu paie bene accostumato»136; e quindi a presentargli un gruppo di sonetti, anch’essi di Dante, come pegno di amicizia («Ma fa' che prenda per lo primo dono. / Questi tuo' frati, e a lor sì comanda / che stean con lui e qua non tornin mai»137). Il tono è leggero e scherzoso; il componimento ha uno stile umile che si adatta a quello del Tolomei. Il

136

D. Alighieri, Opere, (a cura) F. Chiappelli, Ugo Mursia editore, Milano, 1965, p. 74.

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sonetto di Cino da Pistoia è, ugualmente, ironico; il poeta s’inchina a Meo, si spoglia di ognuna umiltà e così il senese si alza ed orgoglia138 alla vista del poeta. Nonostante gli apprezzamenti di Dante e di Cino, Meo col tempo perse consensi fino a essere relegato nell’ombra; complice anche la disgrazia economica, e soprattutto la maggiore notorietà di Cecco Angiolieri.

Il corpus poetico di Meo subì una sorte non molto fortunata, dato che per lungo tempo i suoi componimenti furono attribuiti all’Angiolieri. Questo errato conferimento di paternità fu causato principalmente da analogie stilistiche e dalla comune maniera giocosa; inoltre, nel manoscritto Chigiano L. VIII. 305 (Ch) i sonetti del Tolomei sono anonimi e inseriti fra quelli di Cecco, circostanza che comportò l’attribuzione a quest’ultimo. Su tale paternità non ci furono dubbi, almeno fino alla scoperta del ms. Escorialense e III.23, nel quale sono presenti varie didascalie che riportano il nome di “Meuzzo dei Tolomei da Siena”. Il citato manoscritto non è l’unico che tramanda i sonetti di questo poeta; alcuni di quelli attribuiti a lui nell’Escorialense si leggono anche nel Barberiniano latino 3953 e nel Vaticano latino 3793, ma in questi codici i componimenti di Meo sono attribuiti a «Maestro Rinuccio» o sono anonimi. L’unica traccia del nome si trova nel codice de’ Rossi (B3953), nella rubrica del sonetto Non è donar larghezz’, al mi’ parvente, nella quale è scritta l’indicazione “Meuzzo de Tolomei de Siena”.

Nonostante la scoperta del ms. spagnolo, il critico Aldo Massera, seguendo gli studi del D’Ancona, sottovalutò i nuovi elementi filologici e continuò ad attribuire il

corpus di Meo all’Angiolieri. Questa scoperta fu valorizzata prima dalla Todaro139 e poi dal Marti, i quali conclusero per la sicura paternità del Tolomei. Nel codice

138

Vedi per Meuccio, i’feci vista d’amante: Poeti del Duecento, (a cura) G. Contini, cit., p. 654.

139

A. Todaro, Sull’autenticità dei sonetti attribuiti a Cecco Angiolieri, Boccone del povero editore, Palermo, 1934.

70

Escorialense sono trascritti cinque sonetti con l’indicazione del nome dell’autore; tutti hanno le stesse caratteristiche dei sonetti erroneamente tramandati dagli altri manoscritti e attribuiti ad altri autori. Per di fra i cinque componimenti dell’ l’Esc. e III.23 compare, il caribetto: metricamente si tratta di un discordo, ossia un testo strofico nel quale ogni stanza presenta elementi di simmetria interna, ma ognuna ha uno schema diverso dalle altre. Nei mss. è definito «caribo»: questa voce alluderebbe alla forma musicale del testo o a un antico strumento musicale. Ha avuto, però, una fortuna molto limitata nella letteratura italiana medievale. Il caribetto riporta con precisione il nome dell’autore: «Meo de Scemone, fratel de messer Min Çeppa140»; pertanto, non un qualsiasi Meo, bensì proprio Meo, fratello dello Zeppa. Fu grazie alla scoperta del ms. Escorialense e III.23 che Meo riguadagnò un’autonomia poetica nei confronti di Cecco e la sua figura acquistò spessore.

3.1. Il vituperium: strumento di denuncia personale

La produzione di Meo dei Tolomei trasporta il lettore in una dimensione domestica e biografica. Nei suoi sonetti sono presenti le vicende della sua vita e le figure ad essa legate: da sua madre, a suo fratello Mino lo Zeppa, all’ex amico Ciampolino, che saranno i principali, se non gli unici, bersagli dei suoi componimenti. Il vituperium assume, quindi, una valenza del tutto biografica e individuale, che pone il lettore di fronte a una realtà famigliare; su tali figure Meo scaricherà tutta la propria frustrazione e il proprio odio, causati dalla perdita di denaro che egli subì; infatti l’accusa principale alla madre e al fratello sarà quella di avergli sottratto la propria ricchezza. La madre verrà criticata aspramente perché accusata da Meo di non aver

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fatto alcunché per impedire al fratello il furto della sua parte di eredità, come mostra il sonetto Mie madre disse l’altrier parol’una, nel quale Meo la accusa di non avere motivato la predilezione per Mino, come mostrano i vv. 3-4: « che s’ella m’ha di mio argento tolto, / di farmene ragion tiell’una pruna141

». La madre, dunque, è accusata di passività e codardia nei confronti del fratello Mino, come se non volesse o non sapesse osteggiarlo nei suoi piani. Secondo il poeta essa è completamente dalla parte del fratello e farebbe di tutto pur di aiutarlo, provando anche a ucciderlo, come lui stesso racconta nel sonetto Su lo letto mi stava l’altra sera:

e facea dritta vista di dormire: ed i vidi mia madr’a a me venire empiosamente con malvagia cera. E’n sul letto mi salì molto fèra e man mi pos’a la gola, al ver dire, e solamente per farmi morire:

e se non fosse ch’i’ m’atai, mort’era […]142

La carica di odio di Meo è molto alta e si manifesta nella forza caricaturale dei sonetti, nei quali, spesso, si supera la realtà. È difficile infatti credere che la madre abbia provato a ucciderlo come egli racconta, piuttosto questo rientra nell’impostazione iperbolica del suo stile. Meo inserisce nei suoi sonetti didascalie argute e macchiettistiche che ricreano delle vere e proprie trame di novella, senza dimenticare gli antefatti della vicenda. Nella prima parte del sonetto sopra citato Meo racconta di essere a letto, dove finge di dormire quando la madre entra con malvagia

cera e cerca di strangolarlo. Nella seconda parte commenta l’accaduto, paragonando

la madre a Medea e rivelando le cause del folle gesto:

141

M. Marti, Poeti giocosi del tempo di Dante, cit, p. 258.

142

72 Si che non fu tanto ria Medea,

che le piacqu’ al figliuolo morte dare, che mie madre non sia tanto più rea; ch’a tradimento mi vols’affogare, per ch’a Min dimanda’ la parte mea: là ‘nd’ i’ lel: queto: lassìm’ ella stare143

.

Nel sonetto, quindi, si svolge una trama: dall’incipit narrativo allo scatto sofferente del finale (lassim’ ella stare). Meo sfrutta uno spunto quasi cronachistico: la madre descritta attraverso un climax di effetti teatrali (mi salì molto fera) è rappresentata attraverso la registrazione precisa dei gesti che ella compie. Il pathos si attenua nella seconda parte, nella quale Meo commenta l’accaduto e si lascia andare al lamento, chiudendo il sonetto con un’irritata lagna. Questo è un esempio di come egli inserisca l’elemento narrativo nei sonetti, conferendo loro una struttura circolare. L’attacco diretto alla madre è presente anche nelle Rime dell’Angiolieri, ma in un unico componimento, Babb’è, Becchina, l’Amor e mie madre, nel quale, Cecco propone una panoramica dei suoi nemici e fra questi compare per la prima volta anche lei. Come scrive Marti, la genitrice non è mai «res poetica, ma è coinvolta dal poeta solo in funzione della comune condanna contro i genitori»144. Alla madre, comunque, sono dedicate le due terzine:

[…]

Mie madr’è lassa per la non potenza, sì ch’i lo debb’aver per ricevuto, da po’ ch’i so la sua malavoglienza.

143L’ultimo verso («là ‘nd’ i’ lel queto: lassìm’ ella stare») risulta abbastanza oscuro; può essere

parafrasato così: “perciò io gliela concedo purché lei mi lasci stare”. Il riferimento del poeta è alla propria parte di eredità che la madre vuole ottenere a favore del fratello.

144

73 L’altrier passa’ per vi’e diell’un saluto

per disaccar la sua mal’accoglienza; sì disse: - Cecco, va’, che sie fenduto!.145

Nel Tolomei invece, l’invettiva contro la madre occorre abitualmente: Su lo letto mi

stava l’altra sera non è, infatti, l’unico componimento nel quale il poeta racconta un

tentativo materno di ucciderlo; esso ricorre anche in Si fortemente l’altrier fu’

malato. Meo racconta di aver perso la capacità del parlare e allora la madre, per farlo

guarire, gli offre un infuso che egli sospetta sia veleno; Meo si rifiuta di berlo e alla fine della prima terzina il poeta riacquista l’uso della parola grazie alla paura che la madre gli aveva procurato. Si nota anche qui una forte iperbole comica e parodica nel raccontare l’accaduto: la madre è ritratta come una persona fredda e maligna, all’opposto di quanto ci si aspetta dalla figura materna. La struttura ricalca quella del sonetto precedente: nelle prime due quartine avviene l’inquadramento della scena, con l’inserimento, però, di alcune battute dialogate che proseguono anche nelle successive due strofe.

Si fortemente l’altrier malato Ca tutt’avia perduto ‘l favellare: e mie madre, per farmi megliorare arreccomm’un velen sì temperato, ch’averia, non che me, m’attossiccato el mar, e disse: - Bèi, non dubitare!- Ed i’ feci per cenni: - A me non pare;- Di non bere nel me’ cor fui fermato. Ed ella disse: - Odi, che pur berrai,

145

Fenduto: senesismo che indica l’essere tagliato in due da un colpo di spada. Per il sonetto vedi C. Angiolieri, Rime, (a cura) G. Cavalli, BUR, Milano, 1959, p. 97.

74 e questa prova perder ti faraggio!-

Allora de paura terminai,

e cominciai a dir- Nessun mal aggio- Né bevvi, da sua man né berrò mai, né bevere, se mi facesse saggio146.

È chiaro, quindi, come Meo tenda a creare un intreccio narrativo nei suoi sonetti, soprattutto in quelli di vituperium. Nel sonetto del veleno, l’attacco alla madre si presenta indirettamente negli ultimi versi: il poeta non denuncia apertamente la malvagità della donna, ma la fa intuire attraverso una perifrasi. Questo modo poetico prevede dunque il racconto di un certo fatto, non è solo un elenco di accuse e ingiurie, ma è espresso attraverso una struttura narrativa.

Come già accennato, il vituperium verso i genitori è presente anche in Cecco, ma l’oggetto di polemica è quasi esclusivamente il padre e molto raramente la madre (si veda l’unico esempio in Babb’è, Becchina, l’Amor e mie madre); se essa è presente nei sonetti dell’Angiolieri lo è solo in qualità di genitrice, al fianco del padre, e non di esclusivo oggetto di polemica, come mostra il componimento S’i’

fosse foco, arderei ‘l mondo: «[…] andarai da mio padre: / s’i’ fosse vita, fuggirei da

lui: / similmente farìa da mi’madre147

». Al contrario nei sonetti di Meo, nei quali il padre, Simone dei Tolomei, non è mai nominato - in quanto morto nel 1275 circa- e il patrimonio conteso è, appunto, quello lasciato da lui mentre la madre è tra le persone contro cui egli scaglia le proprie invettive. La polemica antimaterna di Meo si fonda esclusivamente sulla rivendicazione di ciò che egli crede suo; è una polemica fondata esclusivamente su ragioni economiche. La madre è descritta come

146

M. Berisso, Poesia comica del Medioevo italiano, cit., pp. 229-230.

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una persona aggressiva (si veda il sonetto Su letto mi stava l’altra sera o Si

fortemente l’altrier fu’ malato); a volte accompagna gli altri soggetti della polemica

quali Mino lo Zeppa e Ciampolino (si veda il componimento ‘I son sì magro, che

quasi traluco, v. 10 di cui parlerò più avanti).

Frequentemente in Meo il vituperium ricalca temi prefissati, ripresi da altri rimatori e sviluppati secondo le proprie convinzioni. L’accusa muove spesso dai principi del mondo ideologico medievale, basti pensare alle accuse di vigliaccheria che Meo muove al fratello. Mino lo Zeppa148 è il principale oggetto di polemica nei suoi componimenti; è rappresentato come un uomo scaltro, ma allo stesso tempo vigliacco, interessato ai guadagni, ambizioso di notorietà e di potere. Mino è un ipocoristico di Giacomo, mentre Zeppa è il soprannome che gli viene attribuito nei sonetti; è attestato anche in altri documenti, in modo particolare in alcuni verbali dell’epoca, dove si accusa lo Zeppa di non aver rispettato il coprifuoco, che prevedeva l’obbligo di rincasare al terzo rintocco della campana: «[…] a domino Mino Zeppa de Tolomeis pro condepnatione facta de eis quia fuerunt invencti de nocte […]»149: lo Zeppa si era fatto trovare per le vie di Siena anche dopo il terzo rintocco e per questo fu multato. Questo epiteto è presente inoltre nell’ottava giornata del Decameron di Boccaccio, precisamente nella novella VIII, nella quale si raccontano le beffe che si fanno, a vicenda, marito e moglie. Lo Zeppa è stato tradito dalla consorte con il suo migliore amico, Spinelloccio di Tavena, e per vendetta ricambia lo sgarro, seducendo la moglie di lui, mentre l’amico assiste alla scena perché rinchiuso dentro una cassa da Mino. Si può supporre che lo Zeppa protagonista di questa novella sia proprio il fratello di Meo: Innanzitutto per il

148

Mino lo Zeppa, fratello maggiore di Meo e quindi figlio di Simone dei Tolomei, abitò nel Terzo di Camollia, fu podestà a Massa di Maremma, ambasciatore per la corte papale. Assunse poi il ruolo di podestà di San Gimignano, di Rimini, di Viterbo. Dal 1307 non abbiamo più traccia di lui.

149

76

riferimento biografico; infatti, sappiamo che Mino abitò in Camollia150, come scritto anche dal Boccaccio

(

«[…] l’uno ebbe nome Spinelloccio di Tavena e l’altro ebbe nome Zeppa di Mino, ed amenduni eran vicini a casa in Camollia151»). Inoltre, nell’opera boccacciana sono presenti altri personaggi senesi, tra cui Cecco Angiolieri e Cecco di Fortarriggo Piccolomini152; risulta, così, sicura l’identità dello Zeppa.

Il soprannome Zeppa non rende in modo chiaro cosa volesse indicare della persona; è plausibile pensare che suggerisse l’ottusità del personaggio, considerato che la voce zeppa, anche oggi, indica un pezzo di legno qualsiasi, non rifinito, utile come riempitivo o rialzo, dunque senza valore. Potrebbe, quindi, rappresentare la stoltezza di Mino. Quella riguardante la stupidità del fratello è fra le constatazioni più frequenti nel corpus poetico di Meo, come nel sonetto Quando ʼl Zeppa entra ʼn

santo usa dire:

«Die si vi dea ʼl buon dì, Domine Deo!» E sì·ssi segna che quasi a morire Fa ciascun’om che vede l’atto seo. E suo’ peccati dice sì, ch’udire Li può ciascun, non che gli oda Iddeo: cantando n’esc’ ed è omai giudeo. Nel su’ segnar fa dritt’atti di pazza, chè il dito si dà talor ne l’occhio,

e per ciò campa ch’alcun non l’ammazza. Forse ch’è riguardato per Capocchio O per ch’a Branca diè tal d’una mazza,

150

Rione di Siena.

151

G. Boccaccio, Decameron, (a cura) M. Marti, BUR, Milano, 2009, p. 558.

152

Cecco Angiolieri e Cecco di Fortarriggo Piccolimini sono protagonisti della IV novella della nona giornata; il tema è libero. La IV novella racconta come Fortariggo, dopo aver perso i suoi soldi e quelli di Cecco, lo inganni e derubi, lasciandolo in .camiscia.

77 che ben ve sta uma’ dicer finocchio153

.

L’esempio appena citato ci mostra uno tra i più efficaci ritratti di Mino: la sua figura è descritta attraverso i suoi gesti e le sue movenze. Ne viene evidenziata la stupidità, già nell’incipit, nel quale Mino entra in chiesa e rivolge uno stravagante saluto al Cristo, apostrofato come fosse una persona qualunque, risultando quindi comico e un po’ irriverente (ma anche paradossale): “Dio vi dia il buon giorno!” (v. 2). A ciò segue il momento della confessione: egli urla i propri peccati, tanto che tutti i presenti li odono (Li può ciascun, non che gli oda Iddeo) e infine fa un grottesco segno della croce. Egli è talmente goffo, secondo Meo, che s’infila un dito nell’occhio. Le movenze ridicole di Mino sono descritte passo passo; la stupidità del fratello è tale che solo la pazzia che egli mostra lo salva dall’aggressione dei presenti (per ciò campa ch’alcun non l’ammazza). La descrizione dei gesti del fratello si svolge per undici versi; la chiusa, al contrario di altri sonetti, è aspra e si approssima all’osceno. Le accuse muovono su un doppio binario: quello della profanazione e quello della stupidità. L’insistenza durante il componimento prepara alla battuta finale, nella quale lo Zeppa è accusato di essere un falsario (forse ch’è riguardato per

Capocchio) e di essere un sodomita (O per ch’a Branca diè tal d’una mazza, / che ben ve sta uma’ dicer finocchio154

). Capocchio fu un noto falsario senese, ricordato

anche da Dante: «si· che la faccia mia ben ti risponda: /sì vedrai ch’io son l’ombra di

Capocchio[…]155» (Inferno, XXIX, vv. 135-136) e ben riflette l’animo da contraffattore di Mino. La seconda accusa è fra le più oscene, dato che il poeta incolpa il fratello di essere omosessuale e di aver avuto questo tipo di rapporto con il

153

M. Berisso, La poesia comica del Medioevo italiano, cit., pp. 234-235.

154

O per ch’a Branca diè tal d’una mazza,/ che ben ve sta uma’ dicer finocchio può essere parafrasato così: “ O il branca che lo percosse con una certa mazza, che è ormai giusto chiamarlo finocchio”.

155

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Branca, che fu un noto cittadino senese e podestà in varie città toscane, identificato nella persona di Branca Maconi. L’ingiuria è svolta inizialmente attraverso una perifrasi, per poi essere più esplicita nel verso finale: che ben ve sta uma’ dicer

finocchio.

Le accuse rivolte a Mino non si fermano alla stoltezza o balordaggine, il poeta lo descrive come un vigliacco che si dà spesso alla fuga. Queste ingiurie sono, come già accennato in precedenza, tipiche di un’epoca nella quale i principali valori di riferimento della sua società erano l’onore ed il coraggio; pertanto risultavano fra le offese più gravi che si potessero rivolgere. Inoltre, è necessario ricordare che si assiste al vituperium specifico di vigliaccheria trionfa, soprattutto, nel momento in cui gli attacchi sono mossi da ragioni politiche o economiche, come nel caso dei sonetti di Meo. Nel Trecento si possono citare vari esempi di ingiurie sulla codardia dell’avversario, come i componimenti di Pieraccio Tedaldi, altro poeta giocoso:

«colla coda fra le gambe già fuggir / lo veggo, in ver' Verona seguitato156». La

frequenza di tali accuse è confermata anche dalle parole di Franco Suitner:

Il motivo della paura fisica, della vigliaccheria, era evidentemente il più tradizionale nella poesia politica, ma è dai poeti giocosi è trasferito alla piccola dimensione dell’attacco personale cittadino. L’accusa muove spesso dai grandi principi dell’universo ideologico del Medio Evo. È una accusa buona per ogni dimensione, l’attacco a una nazione, a una città, a una parte politica, ma anche più semplicemente all’antipatico vicino di casa, alla macchietta cittadina. È questa l’operazione propria della poesia burlesca. […] La incredibile pavidità di Mino detto lo Zeppa è il motivo su cui quasi ossessivamente insiste Meo dei Tolomei nella sua satira del fratello. […] Dove l’accusa di codardia è personale e risponde alla spicciola cronaca cittadina […]157

.

156

A.F. Massera, Sonetti burleschi e realistici, vol. II, Laterza, Bari, 1920, p. 45.

157

F. Suitner, Dante e la poesia satirica del suo tempo, in “Letture classensi”, vol. dodicesimo, Longo

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