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Folgóre da san Gimignano e Cenne da la Chitarra

Il soprannome di Giacomo di Michele, Folgóre (<fulgore) ossia ‘splendore’, testimonia la fama che egli godeva come poeta nel suo tempo, tanto che è presente nei documenti senesi fin dal 1295. Nato intorno al 1270-1280, di lui rimangono scarse notizie biografiche. Sappiamo però che fu fante nell’esercito contro Pistoia nel 1305 e l’anno successivo prestò due giornate di servizio militare durante l’elezione della magistratura comunale dei Nove. Risulta già morto prima nel 1332227, come riporta un documento dell’Archivio di San Gimignano nel quale sono menzionati i suoi eredi («heredes domini Folgoris»228). Le testimonianze conservate sono quindi molto scarse, ma, attraverso la produzione poetica, è possibile desumere il periodo di maggiore operosità letteraria, ossia il secondo decennio del XIV secolo: la collana della Semana è, infatti, anteriore al 1308 e i sonetti politici sono stati scritti tra il 1313 e il 1317. Il corpus poetico di Folgóre consta di due collane, quella dei Mesi e della Settimana, di quattro sonetti politici e altrettanti componimenti scritti in occasione della vestizione di un ignoto cavaliere. Dalla sua produzione è facilmente ipotizzabile che fosse un uomo di corte e che gravitasse nell’orbita delle famiglie nobili senesi e sangimignanesi, tanto che nelle sue corone celebra la vita conviviale delle corti.

Dunque l’opera di Folgóre non può essere inserita nel canone della poesia giocosa, sebbene la maggior parte dei critici lo abbia fatto. I suoi sonetti, esclusi

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Precisamente la morte di Folgóre è da collocare tra il 1317 e il 1332, come spiegherò più avanti.

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quelli politici, che mostrano qualche traccia dei topoi comici, presentano i piaceri della vita cortese; per di più i metri sfruttati sono i due generi provenzali del plazer

(Corona dei mesi) e del souhait (Corone della semana): il primo consiste in

un’enumerazione di situazioni piacevoli e di desideri; il secondo è, come scrive Michelangelo Picone, una «descrizione irreale di una felicità quasi edonistica»229. Oltre che per il metro, Folgóre si allontana dai canoni comici anche per l’argomento: la celebrazione dei piaceri, in modo così fantasioso, non era consuetudine dei modi poetici dei comici, come spiega Marco Berisso:

l’appartenenza al repertorio della poesia “comica” è più un’abitudine critica che un dato realmente verificabile nella sostanza dei suoi sonetti. Per la sua corona dedicata ai mesi dell’anno […] si è anche parlato di “realismo borghese”, seppure in senso lato: e di nuovo, però, l’etichetta risultava comunque sfuocata, data semmai la verificabile dimensione onirica dei “doni” folgoriani, catalogo di situazioni e oggetti piacevoli offerti alla jeunesse dorèè della Siena tra il Due e il Trecento. Di fatto Folgore, recuperando il genere provenzale del plazer, si riagganciava piuttosto ad una tradizione aulica230.

Ma la dimostrazione più evidente dell’estraneità di Folgóre alla poesia comica è proprio il ribaltamento giocoso della sua Corona dei Mesi da parte di Cenne (<Bencivenni) da la Chiatarra: aretino, di professione giullare come suggerisce l’epiteto ‘dalla chitarra’231

. Non conosciamo la data di nascita, ma sappiamo che era vivo nel 1332 poiché il suo nome compare in un documento conservato nell’Archivio di Arezzo («presentibus cenne olim […] qui dicitur alias cenne da la chitarra»232) e

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Il giuoco della vita bella, M. Picone, in Il giuoco della bella vita. Folgore da san Gimignano, Città di San Gimignano, 1998, p. 10.

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M. Berisso, Poesia comica del Medioevo italiano, cit., p. 258.

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L’epiteto «da la chitarra» indica lo strumento che egli utilizzava durante le sue esibizioni, appunto la chitarra.

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risulta già morto nel 1336 poiché, sempre nello stesso documento, sono nominati i suoi eredi. La produzione poetica di Cenne consiste solo nella risposta alla Corona

dei mesi di Folgóre, non esistono altre testimonianze letterarie; per di più i soli due

codici manoscritti che lo trasmettono – il Barberiano lat. 3953 e il Chigiano L. IV. 131- posizionano i suoi scritti di seguito a quelli del poeta sangimignanese, dimostrando, così, la dipendenza da tale poeta.

In questo capitolo intendo trattare sia la poesia di Folgóre sia quella di Cenne: del primo sarà analizzata la parte della produzione che più si avvicina ai modi della poesia comica, mentre del secondo mi concentrerò sul ribaltamento poetico della

Corona dei Mesi.

4.1 La delicata vena politica di Folgóre

L’invettiva poetica non è presente nel corpus di Cenne poiché, parodiando esclusivamente la Corona dei mesi di Folgòre, non si riscontrano elementi che possano essere ricondotti al modo del vituperium, sebbene la caricatura poetica comporti un attacco nei confronti della società cavalleresca e quindi un intento polemico, lo scopo principale del poeta aretino rimane comunque la parodia.

È possibile invece analizzare la tecnica del vituperium nel corpus politico di Folgòre, costituito da quattro sonetti legati alle sconfitte guelfe e al crescente potere degli avversari ghibellini. Si tratta di componimenti scritti tra il 1313 e il 1317, cioè nel periodo in cui Ugoccione della Faggiola233, condottiero ghibellino, s’impadronì

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Uguccione della Faggiuola: nato nella zona di Urbino-Pesaro intorno al 1250. Fu nominato podestà di Arezzo (1292) e nel 1313 fu riconosciuto capo dei ghibellini da Enrico VII. Combatté, quindi, contro i guelfi, prima in Romagna e poi in Toscana, conquistando Pisa e Lucca; nonostante l’iniziale

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di Pisa e poi di Lucca, sconfiggendo i guelfi toscani. Tali sonetti segnano la fine della produzione folgoriana, come si ricava dalla datazione poiché dopo tale data non abbiamo più notizie del poeta. Inoltre mostrano la viva partecipazione del poeta agli avvenimenti dei comuni toscani durante il tentativo di conquista da parte dei ghibellini. Il poeta si scaglia sia contro la propria fazione, che non ha saputo fronteggiare gli avversari, sia contro il condottiero ghibellino.

In Più che lichisati, siete ch’ermellini, Folgóre si rivolge ai nobili pisani, ne deride i costumi effeminati e la superbia: «conti pisan cavalieri e donzelli, / e per istudio de’ vostri cappelli / credete vantaggiare i fiorentini / e franchi fate stare i ghibellini234». Tale componimento è da collocare prima dell’avvento di Uguccione, poiché il poeta accusa i pisani di non preoccuparsi a sufficienza delle minacce presenti. Folgóre si mostra rancoroso nei loro confronti e non accetta la loro oziosità, tanto che il sonetto si chiude così: «[…] se Folgóre abbia cosa che gli piaccia, / siate voi contro a tutti li foresi235». L’invettiva è precisa e puntuale, egli non formula accuse generiche, bensì inserisce dettagli reali («valenti sempre come lepre in caccia») e riferimenti a passati eventi storici («[…] in mare ai genovesi»). Il primo potrebbe avere un doppio senso: potrebbe riferirsi alla capacità di scappare dei pisani di fronte ai nemici, come fa la lepre durante la battuta di caccia, e sarebbe quindi un’allusione alla loro codardia, ma è anche un palese riferimento alle insegne pisane, le quali avevano come emblema, appunto, tale animale. L’espressione, a mio avviso, indica entrambi gli aspetti: in vari passi del componimento, Folgóre allude alla loro paura e l’indicazione allo stemma di Pisa conferisce un’accezione realistica alla terzina. Il secondo, invece, è un’allusione alla battaglia della Meloria (1285), nella

conquista, le due città si ribellarono, portando alla fuga di Uguccione che si rifugiò a Vicenza, dove vi morì intorno al 1319.

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Folgore da San Gimignano, Sonetti, (a cura) G. Caravaggi, Einaudi editore, Torino, 1965, p. 61.

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quale i pisani subirono una grave sconfitta a opera della Repubblica di Genova: il poeta ricorda tale conflitto per spronarli a reagire alle minacce dei ghibellini. Il componimento si snoda quindi fra aspre critiche e richiami a fatti reali, creando così un sonetto vicino alla tecnica del vituperium; è chiaro che in questo componimento, il rancore del poeta non è palese come avviene in altri rimatori giocosi, ma traspare, comunque, dai suddetti dettagli. Il poeta rimane lontano dai velenosi, e a volte triviali, attacchi politici del genere comico; si tratta, almeno in questo caso, di un sonetto piuttosto mite, ma che ben mostra la viva presenza di Folgóre nella politica del tempo. Il tono pacato del componimento è dovuto al fatto che Uguccione della Faggiola ancora non aveva messo in atto il tentativo egemonico per conto dei ghibellini; la minaccia era sì presente, ma non ancora in atto, perciò lo scopo del poeta era quello di mettere in allerta i comuni guelfi e non di scagliarsi contro i nemici.

In Eo ti lodo, Dio, e non ti adoro, l’attacco del poeta è più aspro e partecipato: la feroce critica si rivolge contro i ghibellini e contro Ugoccione. I toni si fanno blasfemi, come dimostra l’incipit: «E non ti lodo, Dio, e non ti adoro, / e non ti prego, e non ti rengrazio, / e non ti servo: ch’eo ne son più sazio / che l’anime di stare in purgatorio»236, il quale è una parafrasi sarcastica della preghiera Gloria («Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te […]»). La blasfemia è resa con maggior incisività attraverso le negazioni polisindetiche che dimostrano la voluta profanazione religiosa. Alla base di tali modi sta la partecipazione del poeta agli eventi politici; infatti, Folgóre si dimostra legato alla realtà cittadina, come mostrano anche i versi successivi: «perché tu hai messi i guelfi a tal martoro / ch’i ghibellini ne fan beffe e strazio; / e se Ugoccion ti comandasse il dazio / tu li

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pagheresti senza perentoro. / Ed hanti certo sí ben conosciuto / tolto t’han San Martino ed Altopasso / e San Michele e ʼl tesor ch’hai perduto.»237

Il sonetto è rivolto a Dio, ma l’oggetto di polemica restano i ghibellini e i pisani che, sebbene nell’altro sonetto - Più che lichisati, siete ch’ermellini- fossero incoraggiati a fronteggiare Ugoccione, ora fanno parte dei nemici poiché, ormai, sotto il controllo dei ghibellini.

L’attinenza alla cronaca politica è quindi completa: non si tratta di accuse causate solo dall’opposizione ideologica (guelfi-ghibellini), ma sono fondate su fatti storici e per ciò tali versi non sono una mera esplosione di partigianeria municipalistica, come dimostra anche la frequenza di toponimi (San Martino, Altopasso238 e San Michele) , i quali sono i nomi delle roccaforti, prima dei lucchesi guelfi, e all’altezza di tale sonetto, ormai conquistate dai ghibellini pisani. L’attacco politico, come scrive Mario Marti, «rientra nelle modulazioni realistiche più diffuse della poesia politica […]»; l’incipit blasfemo, l’amaro sarcasmo e le indicazioni geografiche fanno parte dei moduli più classici del vituperium politico, basti pensare agli attacchi politici di Rustico239.

La passione politica di Folgóre si riversa in Guelfi, per fare lo scudo delle reni, nel quale il poeta, rivolgendosi ai guelfi, li accusa di codardia, essendo scappati di fronte ai ghibellini: «avete fatti i conigli leoni / e per ferir sí forte di speroni / tenendo vòlti verso i freni. / E tal perisce in malvagi terreni / che vincerebbe a dar con gli spontoni240; / fatto avete le pùpule falconi, / sí par che ʼl vento ve ne porti e meni»241. La rappresentazione della vigliaccheria guelfa è resa attraverso due immagini: i

237 Ivi. 238

Altopasso: toponimo medievale per Altopascio, paese nei dintorni di Lucca.

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Vd. Cap. Rustico Filippi

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Spontoni: <spuntone. Il verso si parafrasa così: “che vincerebbe con spade piccole e corte”. Il riferimento è ancora una volta alla codardia dei guelfi.

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guelfi, avendo condotto una politica rinunciataria nei confronti degli avversari, hanno permesso che essi, tradizionalmente conigli e pùpule242, diventassero leoni e falconi.

I ghibellini sono riusciti a conquistare alcune città solo grazie al comportamento vigliacco dei guelfi, altrimenti sarebbero rimasti vili, come erano sempre stati. Nelle quartine, quindi, l’attacco di Folgóre è su un doppio binario: il bersaglio principale è la propria fazione, ma, al tempo stesso, lo sono anche i ghibellini poiché, sebbene si dimostrino forti e coraggiosi grazie alle varie conquiste, nella loro natura restano dei «conigli». Nelle terzine la polemica è ancora più amara; i guelfi s’inchinano davanti agli avversari e si dichiarano colpevoli di non aver vendicato i loro morti: «Però vi do conseglio che facciate / di quelle del pregiato re Roberto, / e rendetevi in colpa e perdonate. / Con Pisa ha fatto pace, quest’è certo; / non cura delle carni malfatate / che son remase a’ lupi in quel deserto»243

. I guelfi prendano ad esempio Roberto d’Angiò, che, nonostante avesse perduto il fratello (Ludovico di Tolosa) e il nipote a causa dei ghibellini, firmò la pace con loro; attraverso il riferimento al re angioino244, il poeta accusa, oltre che di codardia, anche di faziosità il proprio partito.

Successivo al suddetto sonetto (1317 circa) è Così faceste voi o guerra o pace: il poeta raccoglie tutta la sua frustrazione, già espressa in Guelfi, per fare lo scudo

delle reni. Folgóre, colpito dalla viltà del proprio partito, attacca di nuovo i guelfi che

ormai sono divisi e pieni di traditori: «guelfi, sí come siete in devesione, / ché in voi non regna ponto di ragione, / lo mal pur cresce e ʼl ben s’ammorta e tace. / E l’uno contro l’altro isguarda e spiace / lo suo essere e stato e condizione; / fra voi regna il

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Pùpula < upupa, uccello dal volo lento e dal canto monotono, simbolo di debolezza nell’immaginario medievale.

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Folgore da San Gimignano, Sonetti, cit., p. 64.

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«Nel detto anno 1317 […] pace fu fatta dal re Roberto a’ Pisani e Lucchesi, e simigliante la fece fare […] a tutta la lega guelfa di Toscana. E con tutto che per gli guelfi malvolentieri si facesse […] dando biasimo al re Roberto di viltà […]». Vd. G. Villani, Cronica, IX, 82.

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pugliese e ʼl Ganellone245

, / e ciascun soffia nel fuoco penace»246. Folgóre sferza l’inerzia dei propri “compagni” che, ormai sconfitti in varie battaglie, sono invidiosi l’uno dell’altro, ma, al contrario del precedente sonetto, la vena polemica è meno forte poiché lascia spazio all’intento morale, tanto che le due terzine mostrano la pietà del poeta nel ricordare le vittime guelfe che non sono state vendicate: «Non vi ricorda di Montecatini, / come le moglie e le madri dolenti / fan vedovaggio per i ghibellini? / E babbi, frati, figluoli e parenti, / e chi amasse bene i suoi vicini, / combatterebbe ancora a stretti denti».247 L’irritazione lascia spazio al dolore del poeta, cui aggiunge un’annotazione morale («lo mal pur cresce e ʼl ben s’ammorta e tace»).

I vituperia di Folgóre presentano rimandi religiosi che raramente sono una bestemmia o profanazione, ma sono sfruttati per dare maggior incisività ai suoi attacchi, svolgono quindi la funzione di esempio o metafora. Solo nell’incipit di Eo

non ti lodo, Dio, e non ti adoro è presente una voluta blasfemia; sempre nello stesso

sonetto è presente un altro riferimento religioso («che l’anime di stare in purgatorio»), il quale, però, non vuole essere offensivo, ma rendere, con maggior chiarezza, la viltà degli avversari; oppure in Guelfi, per fare lo scudo delle reni, al v. 11 (« e rendetevi in colpa e perdonate»), al v. 14 ( «[…] a’ lupi in quel deserto»). In tali versi egli inserisce queste citazioni per rendere più diretto il sonetto poiché le espressioni religiose erano comprese da tutti, e quindi inserirle, rendeva subito chiara la natura degli avversari e l’intento poetico. Folgòre dimostra dunque una certa sapienza nell’ambito “sacro”, come scrive anche Marcello Ciccuto che parla di

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Il verso «fra voi regna il pugliese e il Ganellone» indica, secondo il poeta, la presenza di traditori all’interno del partito guelfo: infatti, l’epiteto pugliese si riferisce al tradimento del conte Riccardo di Caserta, già citato così nell’Inferno dantesco (canto XXVIII, vv. 16-17). Gannellone (Gano di Manganza) fu anch’egli un traditore nel ciclo carolingio, poiché, tra l’altro, causò la morte del figliastro Rolando.

246 Folgore da San Gimignano, Sonetti, cit., p. 63. 247

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«competenza folgoriana in materia agiografica-ecclesiale anche al di fuori delle sue più celebri corone […]»248. Nella maggior parte degli altri rimatori giocosi, se erano presenti rimandi religiosi, lo erano solo in funzione della profanazione o della bestemmia, basti pensare ai sonetti di Cecco Angiolieri o a quelli di Meo dei Tolomei249.

La struttura poetica dei vituperia politici è la stessa: nelle quartine, il poeta si scaglia contro i bersagli di polemica con aspri attacchi, mentre nelle terzine fa rapidi accenni agli eventi storici (basti pensare alle due terzine di Più che lischati siete

ch’ermellini e Eo non ti lodo, Dio, e non ti adoro) che sono la causa degli attacchi.

Tale struttura poetica è confermata anche dalle parole di Giovanni Caravaggi:

Questo gruppo compatto di sonetti […] appare a sua volta saldamente costruito secondo le linee ben definite; quartine e terzine vi svolgono ancora un ruolo complementare, le prime condensando con plastica incisività non più i doni magnifici, bensì le invettive brucianti; le altre creando più vaste prospettive temporali, con rapidi cenni agli avvenimenti storici che stanno alla base dell’intera composizione250

.

I sonetti politici di Folgóre, quindi, sono componimenti circolari. In ogni sonetto politico, il poeta sente la necessità di motivare il suo attacco per far comprendere al lettore le ragioni dei vituperia. Per tali motivi i suoi sonetti non sono solo “semplici” attacchi politici, ma sono invettive causate da fatti storici. È impossibile sapere se Folgóre avrebbe scritto comunque tali sonetti, senza le conquiste di Uguccione della Faggiola e dei ghibellini; sicuramente lo spunto poetico gli fu dato da questi eventi

248

Folgore laico, M. Ciccuto, in Il giuoco della bella vita. Folgore da san Gimignano, cit., p. 47.

249

Basti pensare al sonetto dell’Angiolieri S’i’ fosse foco, arderei ‘l mondo, nel quale leggiamo: «s’i fosse Dio, mandereil en profondo / s’i’ fosse papa, sere’ allor giocondo, / chè tutti i cristiani imbrigherei» o a I’ son sì magro che quasi traluco del Tolomei: «Or mi rendesse del mi’ pur arquanto! / che tutti i tre en ben assottigliarmi / un Padre e Filio e Spirito santo».

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perché l’animo del poeta non era di natura aggressiva, come dimostra la Corona dei

mesi, nella quale mostra un’accentuata “gentilezza”.

Ai sonetti politici se ne aggiunge un altro, ossia Cortesia, cortesia, cortesia

chiamo: si tratta di un componimento dal gusto moraleggiante, nel quale il poeta si

lamenta della scomparsa, appunto, della Cortesia e denuncia la nascita di un nuovo valore, ossia l’avarizia. Sebbene faccia parte del corpus politico, lo tratterò nel paragrafo dedicato al tema del denaro.

Questi sonetti dimostrano come la poesia di Folgóre non contenga solo l’idealizzazione della convivialità, ma anche una viva partecipazione alla politica del tempo. Il corpus politico si avvicina ai modi giocosi dell’invettiva medievale, ma, a mio avviso, il modello del poeta fu il genere provenzale del sirventese251: un componimento, a volte musicato, originariamente rivolto al proprio sirven (signore) per celebrarne le gesta, ma nel corso del tempo divenuto un canto politico e di guerra252. Sebbene questo modo poetico sia all’origine dei vituperia politici dei “nostri” giocosi, di cui scriverò più avanti, i sonetti di Folgóre si dimostrano più vicini al genere provenzale che all’invettiva politica medievale. Come nel genere provenzale, non sono presenti parole particolarmente dispregiative o volgarità; le accuse sono lessicalmente più delicate, come in quelli di Folgóre253; invece negli altri

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«Un filone comico è presente nella lirica provenzale fin dal suo primo rappresentante, Guglielmo IX. Per quel che riguarda invece il bozzetto satirico o il vituperium infamante […] dobbiamo rivolgere la nostra attenzione soprattutto al sirventese. Il sirventese era in certa misura un genere buono per ogni uso». Cfr. F. Suitner, La poesia satirica e giocosa nell’età dei comuni, Editrice Antenore, Padova, 1973, p. 33.

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Sono noti i sirventesi dei trovatori provenzali come quelli di Bertran de Born, o di Marcabru. In Italia il genere ebbe fortuna intorno al XIII e XV secolo.

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Basti pensare alla prima stanza di Un sirventes farai novelh, plazen di Betran de Born: «anc mais no·n fis: no m’en tenra paors / qu’ieu non digua so qu’aug dir entre nos / dei nostro rei, que pert tan malamen / lai a Melhau, on solia tener / que·l coms li tolh, ses dreg et a gran tort; / e Marcelha li tohlt a gran soan / e Monpeslier li cuget tolr’antan». [Farò un nuovo sirventese piacevole come non ne ho mai fatti prima: la paura non mi tratterrà dal parlare di quello che sento dire tra di noi del nostro re,

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