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Immanuel romano o Manoello giudeo298, figlio del Rabbi Salomone dell’illustre famiglia dei Sifronide, nacque a Roma intorno al 1265. Sappiamo che condusse una vita errabonda: da Roma, luogo di nascita, si spostò in varie città dell’Italia centrale quali Fabriano, Perugia, Ancona e infine si stabilì a Verona alla corte di Cangrande della Scala. Morì però a Fermo sicuramente prima del 1331, dove era ospite di un suo antico protettore.

La sua produzione poetica è abbastanza ricca e variegata; l’opera, sicuramente più nota, è il Makhabberoth: poema in lingua ebraica, diviso in ventotto sezioni, l’ultima delle quali imita la Commedia dantesca, poiché racconta la visione dell’Inferno e del Paradiso che egli visitò grazie alla guida del profeta Daniele. Le altre sezioni invece sviluppano temi e motivi novellistici. L’imitazione delle due cantiche dantesche può far pensare che egli fosse in rapporto diretto con Dante, che tra l’altro come lui visse diverse anni a Verona, ma su questo non c’è la certezza: il componimento Io, che trassi che lagrime dal profondo, nel quale piange la sua morte, è in risposta al sonetto Due lumi son di nuovo spenti al mondo di Bosone da Gubbio299, nel quale quest’ultimo si unisce a Immanuel nel dolore per la morte del Sommo Poeta e, forse, della moglie di Immanuel300: «Piange la mente mia che già

298

L’epiteto Manoello giudeo si trova nel ms. Casanatense 433 e nel Barberiano lat. 3953, i quali riportano la produzione poetica comica.

299

Bosone da Gubbio fu un politico eugubino, della sua produzione letteraria restano solo alcune notizie frammentarie: fu autore di un Capitolo a compendio della Divina Commedia e dell’Aventuroso Ciciliano, una sorta di romanzo in volgare.

300

Non è certo che la figura femminile dal bel viso giocondo fosse la moglie di Immanuel; la consorte del poeta, probabilmente, era sempre in vita nel momento di scrittura del sonetto, per cui il riferimento indicherebbe un’ignota giovane donna, come scrive anche Giorgio Battistoni, riprendendo la tesi del Cassuto: «Se, infatti, nel 1321 la moglie di Immanuello, com’era risultato, era ancora in vita, la donna morta […] doveva essere una imprecisata donna molto cara a Manoello, ma, comunque, non sua moglie». Cfr. G. Battistoni, Dante, Verona e la cultura ebraica, Giuntina, Firenze, 2004, p. 45.

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ride / Di quel che di saper toccava il fondo […] / Pianga la tua del bel viso giocondo / Di cui tua lingua tanto ben dicea […] / et pianga dunque Manoel giudeo». Per di più

Io, che trassi che lagrime dal profondo è anonimo nei codici manoscritti, perciò la

paternità di tale componimento resta incerta. È possibile dunque che sia solo una testimonianza dell’ammirazione di Immanuel nei confronti di Dante e non, quindi, un “componimento in morte di un amico”. Tra l’altro la stima del poeta romano è già visibile nell’imitazione della Commedia, quindi tale sonetto, a mio avviso, la conferma. Nonostante il dubbio sulla paternità del componimento è chiaro come il sonetto di Immanuel sia più concreto rispetto a quello di Bosone e quindi più attinente alla poetica giocosa: il primo piange lacrime vere e il suo dolore è quindi reale. La materialità del sonetto è legata allo stile di Immanuel: egli è lontano dagli astrattismi della poetica aulica, come scrive anche Giorgio Battistoni: «In quel sonetto, Immanuello contrappunterà alla mente di Bosone e alla sua vetta (intelletto e pianto intellettuale), un pianto fisico, vere «lagrime», ancorate alla parte o sede più acconcia dell’ amor sensibile […]»301

.

Oltre al citato sonetto, Immanuel scrisse altri tre componimenti di argomento diverso e una frottola, di cui parlerò più avanti. Sebbene non sia tra i poeti comici più famosi, egli fu un compositore versatile e dotto, come dimostra il suo lungo peregrinare, durante il quale fu ospitato da banchieri e signori ebrei. Fu inoltre in contatto con i letterati ebrei del suo tempo, come il provenzale Kalonymos e il poeta Giuda siciliano.

301

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5.1 Viva chi vince, ch’io so’ di sua parte!: l’opportunismo giocoso

Immanuel sviluppa in modo personale la tecnica del vituperium, adottata anche da altri rimatori comici. Le sue invettive, soprattutto nei confronti dell’Amore, sono però distanti dai velenosi attacchi, tipici della poesia giocosa. Egli preferisce affidarsi a un «bonario, pingue ed epicureo naturalismo»302, come lo definisce Mario Marti; basti leggere il sonetto Amore non lesse mai l’Avemaria, nel quale il poeta descrive la forza dell’Amore con tratti peculiari della propria personalità. Esso è infatti sentito come una forza naturale ed è considerato un tiranno che agisce in modo incontrollato al di fuori del sentimento religioso e morale: «Amor non lesse mai l’avemaria, / Amor non lesse mai legge né fede, / Amore è un cor che non ode né vede / e non sa mai che misura sia. / Amor è pura signoria / che sol si ferma in voler ciò che chiede, / Amor fa com’ pianeto, che provvede / e sempre retra sé per ogni via»303

. Già dalle due quartine, è chiara la lontananza di Immanuel sia dalla concezione aulica sia, in parte, da quella comica: il poeta, all’opposto degli stilnovisti, non accetta le imposizioni del sentimento amoroso. Per di più il sostantivo misura (v. 4), noto per essere uno degli attributi dell’amante cortese, è utilizzato dal poeta per prendere le distanze dall’Amore. Inoltre non ricalca nemmeno la visione concreta e materialista dei giocosi: Immanuel non racconta un episodio della propria biografia o descrive rapporti carnali304 come fanno altri poeti comici, ma tratta dell’Amore come forza naturale e di come esso influenzi l’uomo in generale.

Egli dunque prende le distanze dalla visione giocosa dell’Amore, mantenendo sempre la polemica nei suoi confronti; esso, considerato come «signoria», è descritto

302

M. Marti, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di Dante, cit., p. 175.

303

M. Berisso, La poesia comica del Medioevo italiano, cit, p. 251.

304

Basti pensare a Chierma, una prostituta, cui Rustico offre le proprie prestanze sessuali nel sonetto A voi Chierma so dire una novella o ai vari componimenti dell’Angiolieri su Becchina (-Becchina mia!- Cecco nol ti confesso oppure –Becchin’amor!- che vuo’, falso tradito?).

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anche in –Chi è questo signor tanto nomato- di Pieraccio Tedaldi305, nel quale il poeta dialoga appunto con l’Amore: «che dà altrui dolcezza ed amarore? / -Egli è un nome che si chiama Amore, / il quale ha signoria sopr’ogni stato. / - Egli è un animal proporzionato, / che gusti e dorma ed abbia in sé sentore?-»306. In entrambi i componimenti l’Amore è descritto come una forza in grado di ingannare l’animo umano: in quello di Immanuel, però, il poeta descrive le azioni del sentimento amoroso, creando dei legami con contesti generalmente estranei -religione e axstronomia- a tale impulso; invece in quello di Tedaldi il poeta instaura un dialogo, dando una «definizione nominalistica in conformità ai recenti sviluppi della filosofia scolastica»307, come scrive Marti. Sebbene entrambi i sonetti riaffermino nell’ultima terzina la potenza dell’Amore, sono strutturati in modo diverso: Immanuel nelle due quartine spiega la sua superiorità e nelle terzine denuncia il suo «gentil orgoglio» per poi riaffermare, comunque, la sua potenza («Amor fa quello di che più mi doglio, / né per incanti suo gentil orgoglio, / né per tema digiunt’è perch’i’ giostri» vv. 12-14). All’opposto di –Chi è questo signor tanto nomato-, nel quale Tedaldi dialoga con l’Amore senza mai criticarlo e ugualmente a Amore non lesse mai l’Avemaria, il poeta nell’ultima terzina si arrende alla sua forza («-Dirottelo in due versi brevemente: / Amor è quel signor che ci sostiene, / e senz’Amor non si può far niente-. vv. 12-14»).

Sebbene in tale sonetto Immanuel celebri la potenza soprannaturale dell’Amore308

, egli potrebbe anche polemizzare velatamente nei confronti della discussione sul sentimento amoroso, già, in fondo, espressa dal sostantivo misura: infatti, la lingua si pone su un piano medio e quindi non adatto al tema affrontato,

305

Vd. capitolo su Meo dei Tolomei.

306

M. Marti, Poeti giocosi al tempo di Dante, cit., p. 718.

307

Ivi.

308

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come scrive Carmelo Previtera: «L’autore esalta la forza soprannaturale di Amore, ma ha un tono così discorsivo e prosastico che potrebbe far sospettare qualche velata intenzione parodistica di tutte le discussioni psicologiche […] sulla natura dell’Amore»309.A questa concezione amorosa corrisponde l’ideale di una vita spesa tra i godimenti del senso, come si legge in In steso non mi conosco, ogn’om oda, nel quale il poeta celebra una moralità libera, indirizzata solo ai piaceri mondani, e per questo motivo, nelle quartine, rinuncia alla passione politica: «che l’esser proprio si è ghibellino: / e ʼn Roma so’ Colonnes’ ed Ursino310

/ e piaceme se l’uno er l’altro ha loda. / Ed in Toscana parte guelfa goda, / in Romagna so’ ciò ch’è Zappettino311

. / Mal giudeo sono io, non saracino, / ver’ li cristiani non drizzo la proda»312. L’adesione spontanea ai godimenti della vita non include perciò la partecipazione politica: si tratta di un’eccezione nella poesia giocosa, poiché quasi tutti i rimatori, pur restando fedeli all’ideale di vita godereccia313, non rinunciano all’intervento alla vita comunale, quindi Immanuel non rientra, almeno in questo caso, nell’atteggiamento “tradizionale” di tale genere.

Sebbene in questo sonetto il poeta prenda le distanze dalle vicende politiche, però, non diminuisce l’intento scandalistico; il poeta in questo modo crea imbarazzo poiché, in un’epoca storica nella quale era fondamentale la partecipazione politica per ottenere rispetto, Immanuel non solo decide di allontanarsi, ma si dichiara sia dell’uno sia dell’altro partito (v. 3): è, quindi, volutamente opportunista. Il comportamento proposto da Immanuel risulta doppiamente diffamatorio: da un lato,

309 C. Previtera, La poesia giocosa e l’umorismo, cit., p. 163.

310« […] so’ Colonnes’ ed Ursino»: “sono partigiano quanto dei Colonna quanto degli Orsini”, ossia

non combatto né per l’una né per l’altra. Colonna e Orsini erano due famiglie rivali nella Roma medievale, rispettivamente ghibellini e guelfi.

311

Zeppettino: Ciapettino degli Uberti, famoso comandante ghibellino della Romagna (zona tradizionalmente filo-imperiale).

312

M. Berisso, La poesia comica del Medioevo italiano, cit., p. 252.

313

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egli ignora le rivalità politiche e dall’altro decide di nominare esplicitamente due famiglie romane –Colonna e Orsini-, prendendo quindi in giro i rappresentanti romani dei due partiti politici. Non si tratta solo di un caso sporadico nella sua produzione poetica, tale atteggiamento è ribadito in varie occasioni come nel sonetto

Se San Pietro e San Paul da l’una, nel quale riafferma la sua estraneità alle fazioni:

«Guelfo né ghibellin, nero né bianco; / a chi piace il color, quel se nel porte, / che ferirò da coda e starò franco. / E mio compar tradimento stia forte, / ch’i’ di voltar mai non mi trovo manco / e aitar ciascun che vince infin a morte»314. Le terzine sono quindi fondate su un gioco letterario iperbolico che potrebbe rispecchiare un’ideale di vita tranquilla lontana dai fatti politici, come scrive anche Maurizio Vitale: «[…] è l’esaltazione sottilmente ironica e concettualmente smodata dell’opportunismo più smaccato […] che trovava forse nella vita reale del poeta la sua rispondenza in un ideale desiderio di esistenza quieta e spensierata, in mezzo a tanti rivolgimenti politici»315. I due sonetti In steso non mi conosco, ogn’om oda e Se San Pietro e san

Paul da l’un parte, a mio avviso, si presentano simmetrici; infatti, entrambi

presentano gli stessi argomenti, ossia la politica e la religione. Nel primo il poeta nelle quartine affronta la politica per poi passare alla religione nelle terzine, invece il secondo componimento si svolge all’opposto. È chiaro che questi due sonetti siano legati, Immanuel mostra due aspetti fondamentali della sua poetica, ma, come già detto, il suo scopo è lo scandalo e quindi dichiarandosi opportunista, si rappresenta infame, poiché l’onore e il coraggio erano valori imprescindibili per la vita sociale, e quindi dichiararsi in tal modo era come ammettere di essere miserabile.

L’autorappresentazione lo colloca in uno spazio particolare della poesia comica; in quasi tutti i rimatori, la politica assume una posizione di rilievo e

314

M. Berisso, La poesia comica del Medioevo italiano, cit., p. 254-255.

315

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dichiarare una vivace vena politica era uno degli scopi principali. Non sappiamo se Immanuel fosse davvero così intollerante politicamente o se al contrario partecipasse alle vicende storiche della propria epoca, ma di questo scriverò più avanti.

5.2 La tradizione della frottola

Prima di analizzare la frottola di Immanuel, è necessario fare un piccolo excursus sulla tradizione di questo particolare metro per comprendere come il poeta l’abbia interpretato.

Tale metro fa parte del repertorio della ‘poesia-spettacolo cortigiana’; fu definito da Antonio da Tempo, il quale, però, rifiutò il vocabolo di “frottola” e propose motus confectus, ossia ‘moto confetto’, per descriverne l’andamento musicale. La definizione di frottola sembrava al Da Tempo applicabile solo ai «verba rusticorum et aliarum personarum nullam perfectam sententiam continetia», ossia ‘discorsi dei rustici e di altre persone, senza nessun pensiero comune’316

. Motus

confectus non ebbe, però, molta fortuna e così la voce ‘frottola’ definì il genere in

modo definitivo. A livello metrico, essa è caratterizzata da versi di misura variabile e da una serie regolare di rime consecutive, ad esempio a coppie o secondo lo schema AABBCCDD. Le rime sono anche l’unico elemento di scansione metrica, e sono disposte appunto secondo gruppi regolari. Il sistema rimico ha anche la funzione di accordare le articolazioni del discorso che, nella maggior parte dei casi, procede con varie divagazioni e salti logici, cioè quello che Paolo Orvieto definisce «non senso relativo»; l’aggancio avviene spesso all’interno di una serie rimica, ovvero una frase termina con una tal rima e il verso seguente riprende quella precedente, sempre

316

141

Orvieto chiama questo effetto: «rima mnemonica». Tale fenomeno è presente anche nel primo autentico esempio di motus confectus, ossia in Zà fo chi disse di Antonio da Ferrara, nel quale le rime si susseguono quasi sempre in gruppi di tre, come si evince dall’incipit: «per quello ch’io sentisse, / e anche scrisse / de quello ch’io dirò, / se no me vergognerò, / ch’ el no è pur mo’ de prima, / che se diga per rima / de chi sta in cima / e de chi trabuca, / bem che l’un se peluca / e mettesse in la zuca / el calavrone, / l’altro è Salamone, / Ettore e Sansone / perch’el sta de sovra»317

. Le prime stanze mostrano come le rime, esterne e interne, procedano secondo lo schema AAABBCCCDDDEEE e, quindi, si tratta di uno schema rimico regolare.

Uno degli esempi più noti di frottola è comunque Dio voglia che ben vada, seguito a breve distanza dal componimento O tu che leggi di Fazio degli Uberti, databile intorno al 1336. La storia della frottola poi si prolunga fino a Pietro Aretino con la frottola Vobis, brigate del 1527, che ha un forte carattere moraleggiante. Misura libera e rime a coppie, oltre ad essere presenti in tali componimenti, sono anche nella frottola Venite in danza, o gente amorosa di Leon Batista Alberti, nel quale leggiamo: «non tenete ascosa, / le dolze fiammetta, / che sí ben s’assetta / in alma gentile; / né sia uom tanto vile / che se gli accadde amare / stia a sognare, / e aspetti -bene faremo- / che per venire allo stremo»318. È chiaro quindi che questi elementi divennero tipici di tale metro.

Secondo alcuni critici, quali Orvieto, Pancheri e Spongano, è necessario distinguere la frottola in giullaresca e letteraria secondo una classificazione, però, più contenutistica che metrica. La prima si caratterizza per uno schema «capriccioso e

317

Vd. P.G.Beltrami, La metrica italiana, cit., p. 336.

318

142

mutabile»319, come nel componimento di Antonio da Ferrara che riprende a livello metrico il serventese; l’imitazione del genere provenzale è visibile anche in un altro esempio di frottola, ossia in Tant’aggio ardire e conoscenza di Ruggieri Apugliese. Si tratta a livello metrico di un serventese caudato320, composto da ottonari e novenari, mentre l’organizzazione del contenuto riprende l’andamento della frottola: i discorsi, infatti, procedano secondo salti logici. All’opposto, il secondo tipo è caratterizzato da un sistema metrico costante, come in quella di Immauel Romano, di cui parlerò più avanti.

Sebbene la frottola abbia delle caratteristiche ben definite, il termine è stato usato anche per indicare altri tipi di poesia, come la zingaresca: essa è affine alla frottola per la concatenazione delle rime, e fece parte, come il motus confectus, dalla poesia cortigiana. Alle sue origini era denominata ‘ode per la musica’, ma dal Cinquecento e dal Seicento tale metro fu usato come forma di poesia drammatica e teatrale e fu detta, appunto,’zingaresca’ poiché la protagonista divenne una zingara. Metricamente è affine a un serventese caudato poiché è composta da strofe di quattro versi ciascuna; il terzo e il quarto equivalgono a un endecasillabo con la rima al mezzo. Le analogie quindi con la frottola sono presenti, ma cambia l’organizzazione del contenuto: nel “nostro” metro, il discorso può essere disposto più liberamente e, infatti, si tratta di un genere considerato molto versatile, adatto a ogni tipo di argomento, all’opposto della zingaresca, la quale fu sfruttata solo come forma poetica drammatica.

319

Ibidem, p. 336.

320

Serventese caudato: forma metrica in strofe, composta da versi lunghi e un verso breve che fa da conclusione, il quale è in rima con i versi lunghi della strofa successiva. I primi, generalmente, sono ottonari o novenari, invece i secondi sono quadrisillabi e quinari. Crf. P.G.Beltrami, La metrica italiana, cit., p. 311.

143

La poesia giullaresca si allontana dalla frottola, almeno a livello metrico; quindi è necessario tenere presente che se pure il contenuto, per la maggior parte dei casi, è comico, il metro è aderente invece alla tradizione, come spiega anche Pietro Beltrami: «[…] tuttavia dal punto di vista di una descrizione metrica converrà distinguere la poesia giullaresca, in vari metri, dalla frottola, che può appartenere, ma non necessariamente, alla poesia giullaresca321».

Un’attenzione particolare spetta alla canzone-frottola Mai non vo’ più cantare di Petrarca. In questo paragrafo sarà analizzata solo la metrica, invece più avanti ne confronterò il contenuto con quella di Immanuel. Sebbene il componimento Mai non

vo’ più cantare rispetti lo schema metrico della canzone, ossia una forma metrica di

origine provenzale, composta da un numero variabile di stanze (< coblas, ossia strofe), le quali sono identiche per numero di versi e per sistema rimico, le rime al mezzo e la concatenazione del discorso rimandano alla frottola; anche il componimento di Petrarca presenta il divagare del discorso da un argomento all’altro e la costante ripercussione di rime:

Mai non vo’ più cantare com’io soleva Ch’altri no m’intendeva, ond’ebbi scorno; et puossi in bel soggiorno esser molesto. Il sempre sospirare nulla releva; già su per le l’Alpi neva d’ogni ‘ntorno; et già presso al giorno: ond’io son desto. Un acto dolce honesto è gentil cosa; et in donna amorosa anchor m’aggrada, che ‘n vista vada altera et disdegnosa, non superba et ritrosa:

Amor regge suo imperio senza spada.

321

144 Chi smarrita à la strada, torni indietro;

chi non à albergo, posisi in sul verde; chi non a l’auro, o ‘l perde,

spenga la sete sua con un bel vetro322.

Il testo di Petrarca ha esercitato una forte spinta normalizzatrice sullo schema della frottola; infatti, a partire da tale componimento, la frottola avrà delle strofe composte di settenari ed endecasillabi, con la rima al mezzo all’interno del secondo tipo di verso. Beltrami osserva, seguendo lo studio di Pancheri, che già nel componimento di Antonio da Tempo sono presenti tali caratteristiche: «almeno in 19 casi risulta possibile comporre endecasillabi con rima al mezzo dall’unione di due versi

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