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"Vitoperato più ch'anch'uom non fue": spunti e riflessioni sulla poesia comica medievale.

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A mio padre, che da molto manca, ma è e sarà sempre nel mio cuore: una brava persona che mi ha insegnato ad avere rispetto per sé stessi e per gli altri

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INDICE

INTRODUZIONE p.1

CAPITOLO I Il comico: genere letterario difficile

1.1. Problemi di definizione p.5

1.2 La libertà del genere giocoso p. 10

1.2.1 Il comico dall’epoca classica al Medioevo p. 11

1.2.2 O tu che leggi udirai un nuovo ludo p. 12

1.3 Considerazioni preliminari p. 26

CAPITOLO II Rustico Filippi, il Barbuto

2.1. Il ghibellino aveste per garzone: un esempio della velenosa passione

politica medievale p.31

2.2. La povertà come semplice habitus poetico p.46

2.3. A voi Chierma so dire una manovella: oscenità, ironia e parodia p.50

2.4 La sessualità: risorsa politica e sociale p.60

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CAPITOLO III Un altro comico senese: Meo dei Tolomei

3.1. Il vituperium: strumento di denuncia personale p.70

3.2 La miseria come vergogna poetica p.85

3.3 Die si vi dea ʼl buon dì, Domine Deo!: la ridicola descriptio del fratello p.94

3.4 L’accusa di omosessualità: arma di riscatto sociale p.100

3.5 Lingua e stile: espressione di una profondità poetica p.101

CAPITOLO IV Una Corona per due: Folgóre da San Gimignano e Cenne da la

chitarra

4.1 La delicata vena politica di Folgóre p.111

4.2 Avarizia le gente ha preso l’amo: la predica del poeta senese p.119

4.3 La speranza di Folgóre e il pessimismo di Cenne p.120

4.4 Il millantar di Folgóre e lo stile parodico di Cenne p.129

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CAPITOLO V Immanuel romano: un’eccezione comica

5.1 Viva chi vince, ch’io so’ di sua parte!: l’opportunismo giocoso p.137

5.2 La tradizione della frottola p.141

5.2.1 Le frottole di Petrarca e di Immanuel a confronto p.147

5.3 Una novità poetica: E sì del Gran Cano poria novellare p.151

5.4 Il sarcasmo di Immanuel: espressione di una morale sfrontata p. 162

5.5 Bis, bis, bis, bisbidis p. 167

CAPITOLO VI L’universo del genere comico

6.1 Il vituperium: arma politica e sociale p. 180

6.2 La miseria come espressione poetica p. 194

6.3 Le sfumature del comico p. 201

6.3.1 L’umorismo di Immanuel p.204

6.3.2 Due modi giocosi: parodia e caricatura p.208

6.4 La sessualità nel genere comico medievale p.214

6.5 Lingua e stile comico p.218

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6.5.2 Forme metriche provenzaleggianti p.225

6.6. Lo stile giocoso p.229

6.6.1 L’organizzazione del sonetto p.232

CONCLUSIONI p.238

Bibliografia p.240

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Introduzione

La mia ricerca prende avvio dall’interesse per la poesia medievale e, in particolare, dall’ammirazione nei confronti di Cecco Angiolieri. Dopo essermi avvicinata al suo

corpus poetico, ho voluto analizzare più da vicino il genere comico medievale,

interessandomi dunque ai poeti cosiddetti “minori”: ho deciso così di proporre una selezione tra questi, scegliendo quelli, a mio avviso, più emblematici sulla varia natura del comico letterario medievale. Tali poeti sono: Rustico Filippi, Meo dei Tolomei, Folgóre da San Gimignano, Cenne da la chitarra, e Immanuel romano, i quali saranno analizzati sia a livello di contenuto sia a livello stilistico; per ognuno di essi, ho cercato di considerare tutto il rispettivo corpus poetico.

Tali poeti non stati scelti solo per un gusto personale, ma perché essi rappresentano differenti sfumature di questo genere: Rustico può essere considerato l’iniziatore del genere, Meo invece rappresenta un’altra possibilità della poesia comica senese e dimostra dunque che Cecco non è l’unico poeta di questa città ad aver sperimentato tale genere. Inoltre ho scelto Folgóre e Cenne per dimostrare che il comico è andato incontro a profondi problemi di interpretazione. Infine la scelta di Immanuel è stata causata dalla particolarità della sua poesia sia per le scelte metriche e contenutistiche sia per una ragione geografica; infatti, tutti i poeti fin qui analizzati sono toscani, e quindi ho ritenuto doveroso inserire un poeta al di fuori di tali confini, cercando dunque di confutare, almeno in parte, l’idea che la poesia comica medievale sia solo toscana, senza rilevanti esempi al di fuori di tale ambiente.

Si tratta quindi di una ricerca volta ad approfondire il comico medievale, cercando di distinguere le varie prassi giocose; infatti, dopo l’approfondimento delle

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opere dei singoli autori citati, cercherò di mostrare come la loro comicità non sia identica, bensì creata attraverso diversi iter giocosi: sarcasmo, ironia, parodia e caricatura rappresentano le principali modalità espressive e non tutti i poeti li sfruttano con la stessa intensità.

La ricerca consterà di sei capitoli, i quali comporranno una sorta di percorso sul canone comico medievale: inizialmente saranno posti i problemi interpretativi generali, in seguito lo studio e l’analisi dei singoli poeti permetteranno di focalizzare tali difficoltà e di chiarire le personalità di ciascun autore scelto. Si tratta quindi di una ricerca volta principalmente a chiarire i punti chiave del comico medievale, cercando, per quanto si può, di tracciare dei confini teorici, poiché come per ogni altro genere, e soprattutto per questo, non è sempre possibile definire i limiti di un canone. Infine ho stabilito alcuni argomenti-chiave, quali il modo del vituperium, il denaro, ironia-parodia-doppio senso e lingua-stile. Essi permettono, come vedremo, di comprendere quali tra i cinque è più aderente alla tradizione del genere e chi, invece, se ne allontana per esplorare una strada del tutto nuova, rimanendo comunque all’interno dei confini comici.

Nonostante abbia distinto i vari tipi di modalità espressive (ironia, sarcasmo, parodia, caricatura) nel corso dei capitoli dedicati ai poeti, ho deciso di sfruttare indistintamente i vari termini, sebbene, come vedremo, rappresentino diversi livelli di comicità. Dunque, la distinzione ha lo scopo di mostrare la diversa comicità di ognuno di questi rimatori, ma nel corso di tali capitoli ho cercato di mettere in primo piano la loro poesia e le loro personalità.

In conclusione, si tratta di uno studio volto a comprendere il rapporto dei singoli rimatori con gli argomenti considerati tradizionali del genere e allo stesso

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tempo a chiarire il concetto di comicità medievale, poiché esso è il punto centrale di tale canone letterario ed è quello che ha creato i maggiori problemi di interpretazione critica.

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Capitolo I

Il comico: genere letterario difficile

Il genere comico ha una lunga tradizione nella letteratura latina e italiana ma ancora oggi i critici si domandano in cosa consista la sua natura; la difficoltà è doppia per la poesia giocosa trecentesca, poiché essa presenta una grande varietà di temi e di modi poetici. Il problema quindi si aggrava ulteriormente per tale genere, tanto che non esiste ancora una definizione precisa che lo descriva; per di più alcuni tra questi poeti tradizionalmente inclusi nel canone si allontanano dai topoi comici medievali, come Folgòre da San Gimignano. Per comprendere tale difficoltà è sufficiente pensare alla sua dipendenza dalla poesia aulica, rispetto alla quale esso si trova sempre in posizione subalterna; infatti non esistono codici che tramandano testi giocosi, all’opposto della poesia cortese. Per i poeti comici quindi, oltre al problema della varietà dei temi, è presente anche la difficoltà di etichettarli: per lungo tempo essi sono stati considerati dalla critica come semplici, e quindi superficiali, rimatori autobiografici. La loro produzione dunque si fonderebbe esclusivamente sulle vicende personali, senza alcun contributo poetico, come scrisse Benedetto Croce:

Molti sonetti, o altri componimenti di diversa forma, che abbondano nel sec. XIV, sebbene siano stati chiamati «realistici», meglio si potrebbero raccogliere sotto il nome di confessioni o confidenze o dichiarazioni autobiografiche: con che non si vuol dire che dessero sempre verace ed esatta biografia, ma che erano conformi a quel che i loro autori credevano in sé medesimi, o rispondeva al modo in cui ad essi piaceva1.

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Dunque, l’opinione di Croce è chiara: la poesia giocosa medievale si basa esclusivamente sul lamento e sulla descrizione della loro biografia reale o fittizia; probabilmente su tale pensiero avrà influito anche la volontà dei poeti comici di creare componimenti comprensibili anche ai lettori non eruditi2, ma la riflessione crociana rimane comunque inesatta. Nonostante la componente biografica e l’intenzione popolare siano diffusi nella maggior parte dei poeti giocosi, essi vanno oltre questi superficiali elementi per attribuire al genere comico un aspetto originale; piuttosto presentano una profonda visione della realtà e della società medievale.

La poesia giocosa medievale dunque subì gravi problemi di interpretazione: da una parte, infatti, alcuni critici intravidero in essa solo una confessione biografica e dall’altra simili testi furono considerati lontani dalla dignità letteraria attribuita ad altri generi poetici; probabilmente avrà contribuito anche la teoria degli stili di Dante, di cui scriverò più avanti. Sebbene sia complicato “confinare” rigidamente il genere comico medievale, per la sua profonda eterogeneità, rimane comunque utile tenere presente che ogni movimento letterario, compreso quindi il comico trecentesco, è accompagnato da un movimento di spirito e di atteggiamento che complica inesorabilmente la sua definizione. Tali motivi, però, non sono sufficienti per relegare i sonetti giocosi nell’ambito limitato della poesia biografica o di quella di “bassa dignità letteraria” poiché, come scrive Previtera: «l’eccellenza di un prodotto artistico non sta nella sua regolarità o conformità al modello, ma nella vita spirituale che vi circola dentro»3.

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L’intenzione popolare di tali poeti influì sicuramente sul giudizio critico, poiché rivolgendo i loro sonetti a un pubblico più ampio, essi furono “costretti” a sfruttare un linguaggio e uno stile inevitabilmente più basso, rispetto a quello della poesia aulica.

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1.1 Problemi di definizione

La difficoltà di etichettare il genere comico risulta evidente nella varietà di definizioni presenti: ancora oggi non esiste una definizione univoca, ma si trovano una serie di etichette diverse, le quali privilegiano uno o l’altro aspetto. Ogni sintetica descrizione dimostra che il focus del critico si è concentrato solo su una componente (realistica e giocosa, ad esempio), ma non mostra la completezza della poetica comica medievale e quindi è plausibile solo in parte. Nonostante tale problema riguardi solo l’aspetto nominalistico, e quindi possa essere solo una questione superficiale, in realtà esso intacca anche l’essenza stessa del genere poiché, proponendo così tante definizioni diverse, aumenta la confusione sulla natura del genere. Definizioni come “sonetti burleschi e realistici”, “giocosi”, “comico-realistici” mostrano una frantumazione interna, che non riguarda solo la definizione stessa, ma anche l’oggetto della poesia comica, poiché sfruttando l’una o l’altra etichetta si vuole evidenziare l’aspetto stilistico principale. Il problema della terminologia riguarda quindi anche la concezione stessa del canone, e non è solo un problema di definizione, ma si tratta anche di una questione di critica letteraria; non tutti i critici, però, concordano sulla rilevaza di tale problema, come Marti: «Non ha importanza questa frantumazione d’attributi, tipica di una ricerca in fieri, di fronte alla sostanziale unità del fenomeno. Noi abbiamo scelto gli aggettivi «giocoso» a indicare gli spiriti, e «comico» a precisare lo stile di questa letteratura»4. Dunque, secondo Marti la diversità nella terminologia non incide sullo studio del genere, poiché non si tratta di un problema di chiarezza nei confronti dell’oggetto poetico, ma solo di una superficiale questione di etichette. Sebbene egli proponga in tali

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termini la questione5, riconosce, almeno in parte, la sua natura profonda, poiché divide lo «spirito» dallo «stile», come se ci fosse quindi una discordanza tra le due componenti. È chiaro che il problema di definizione non riguarda solo il saggio di Marti (Cultura e stile nei poeti giocosi al tempo di Dante), ma anche le antologie più note di tale genere, come quella di Massera, intitolata, appunto, I sonetti burleschi e

realistici, oppure quella di Vitale (“comico-realistica”); si mostra quindi

un’insicurezza di fondo nello studio del genere. D’altronde la tendenza principale della critica è delineare un determinato genere letterario attraverso i propri soggetti/oggetti poetici e lo stile, ma nel caso del comico tale iter non è possibile, poiché esso presenta una forte varietà di temi e di modi e, quindi, risulta pressoché impossibile effettuare una limitazione in base a questo tipo di riflessione. Nonostante la profonda eterogeneità si trovano una serie di motivi fissi, ma sono comunque trattati secondo modi diversi che dipendono dalla singola personalità poetica, creando quindi varie sfumature dello stesso tema.

Tali motivi quindi mostrano un sostanziale disagio nei confronti di un genere che non si definisce in modo immediato, ma che, al contrario, mostra profonde varianti poiché ognuno dei poeti filtra la propria visione della realtà, come scrive Berisso:

L’impressione è che tante variazioni nominalistiche celino un sostanziale disagio degli studiosi verso un oggetto che si definisce più per quello che non è (non è poesia lirica amorosa) che per quello che è. Certo esiste un insieme di motivi e temi ricorrenti che, partendo già dalla tarda classicità, attraversano la produzione poetica mediolatina per sfociare nelle varie letteratura romanze individuandone, come disse di nuovo Marti, il carattere europeistico: […] Ma va

5

Ho citato solo il saggio, peraltro fondamentale per lo studio del genere, di Marti poiché egli, sebbene inconsapevolmente, mette in luce il problema più grave nello studio del genere comico, ossia la discrepanza tra l’oggetto poetico e lo stile di tali rimatori.

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8 aggiunto, che tali motivi non sono frequentati con la stessa intensità da tutti gli autori comici e, nello stesso tempo, non esauriscono quanto effettivamente da essi praticato6.

Tale problema prende avvio dalla disputa tra Pirandello e Alessandro D’Ancona7

:il primo, riprendendo la definizione di «Cecco Angiolieri, poeta umorista» proposta dal secondo8, afferma che non trovò i motivi per definirlo in tale modo e quindi l’etichetta del D’Ancona, secondo Pirandello, era inesatta, poiché è molto difficile definire l’umorismo e risulta ancor più difficile attribuirlo al più noto poeta del comico medievale. Per di più lo stesso D’Ancona scrive che «sarebbe molto impacciato» se avesse dovuto fornire la definizione di umorismo, poiché si tratta di un concetto che può avere numerose varianti ed è quindi molto complicato assegnarlo a un singolo poeta.

Il problema della definizione del genere, dunque, inizia dal loro confronto: da una parte D’Ancona, il quale cerca di riattualizzare il poeta senese proponendo un’analisi approfondita della sua produzione, dall’altra Pirandello, il quale mette in dubbio la sua riflessione e, dunque, anche la categoria proposta per Cecco. Rimane anche in questo caso al centro del problema la questione sulla natura del comico medievale, poiché solo dopo aver chiarito tale natura si potrà comprendere quale sia la definizione più adatta per il genere. Nonostante l’aspra critica di Pirandello nei confronti delle riflessioni del professore pisano, altri critici si sono accordati a quest’ultimo, come Giuseppe Finzi e Luigi Valmeggi, i quali in Tavole

storico-bibliografiche della letteratura italiana, definiscono «umoristici» non solo Cecco,

6

M. Berisso, La poesia comica del Medioevo italiano, BUR, 2011, pp. 10-11.

7

Pirandello risponde alle teorie di D’ancona nel saggio Cecco Angiolieri. Un preteso poeta umorista.

8Alessandro D’Ancona definisce Cecco “poeta umorista” nel saggio Cecco Angiolieri. Poeta umorista

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ma anche Folgóre e Cenne9. Si tratta dunque di una spiegazione superficiale, poiché non si possono racchiudere sotto la stessa definizione tre personalità poetiche così diverse; Pirandello perciò ritiene le definizioni “umorista” e “burlesco” inadeguate, non solo per la poesia angiolieresca, ma anche per le altre poetiche, poiché non rappresentano i componimenti di nessuno dei tre rimatori. Per di più il concetto di umorismo è moderno e perciò poco applicabile alla poesia di Cecco, e il burlesco non può nemmeno essere preso in considerazione poiché ne limita il potenziale poetico, sebbene tale elemento sia comunque presente. Mi riferisco anche all’antologia di Massera, che intitola, appunto, la propria raccolta Sonetti burleschi e realistici.

Nonostante le discussioni intorno alla terminologia, i poeti giocosi medievali si dimostrarono rimatori con profonde conoscenze letterarie che intrapresero una via alternativa alla poesia aulica; d’altronde entrambe le poetiche erano previste dalle

Artes dictandi medievali e rappresentavano due aspetti chiave della società

medievale: da una parte quella dei “chierici” e dall’altra quella dei “laici”. È chiaro che tale divisione può essere accolta solo in parte, poiché non si tratta di una divisione netta; rimane certo che il poeta comico rappresenta un rimatore più aderente alla realtà, lontano dunque dagli astrattismi della poesia aulica, come scrive Nino Borsellino: «Si trova davanti a due porte di ingresso alla letteratura: la porta del comico e quella del tragico, che per il momento separano le due culture dei chierici e dei laici, se non proprio le due società»10.

La definizione, a mio avviso, più adeguata è «comico», poiché è l’unica che rappresenta la vasta gamma di temi e modi di questo genere e quindi abbraccia tutte

9

«Umoristici: Cecco Angiolieri, Cene della chitarra, Folgore da San Gimignano». Vd. G. Finzi- L. Valeggi, Tavole storico- bibliografiche della letteratura italiana, Ermanno Loescher editore, Torino, 1889, p. 6

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le diverse sfumature; d’altronde si potrebbe ritenere adatta anche quella di Vitale, ossia «comico-realistico», ma, ancora una volta, si prende come spunto un solo aspetto della poetica: la realtà contingente è un aspetto sviluppato dalla maggior parte di tali rimatori, ma non è presente con la stessa intensità di argomento, come vedremo nei capitoli successivi11. Solo alcuni di essi si ispirano alla realtà comunale, basti pensare alla diversa visione borghese di Rustico e di Meo. Dunque è più corretto proporre l’attributo «comico» che, sebbene possa apparire generico e superficiale, rappresenta la totalità della varietà tematica, non focalizzandosi solo su un aspetto.

1.2 La libertà del genere giocoso

Dopo aver posto la questione nominalistica, è necessario comprendere la concezione del comico nel Medioevo: esso rappresentava la libertà di oltrepassare le rigide imposizioni dell’epoca, date dalla religione e dalla politica, ma presenti anche nella stessa poesia, la quale, erede della tradizione latina, rispettava regole fisse. All’opposto, il genere comico presupponeva il superamento di tali norme; ciò non significa che i rimatori giocosi ignorassero i topoi della lirica cortese, anzi, essi erano profondi conoscitori di questo tipo di poesia, ma decisero comunque di ribaltare tali imposizioni, dando voce agli istinti più autentici dell’animo umano. Dunque, pur ispirandosi alla poesia aulica, essi riuscirono a creare un genere che potesse rappresentare la fallibilità umana, i rancori personali o che suscitasse il semplice

11

La realtà presentata da Rustico, Meo o Immanuel non è assolutamente identica, sebbene esso sia topos della poesia comica, non può essere considerato una base solida per creare un’esaustiva definizione del genere. Si potrebbe dire che Immanuel, ad esempio, non s’ispira nemmeno alla sua realtà, se non nella frottola che è comunque filtrata dal suo personale punto di vista stilistico o ancora Folgòre e Cenne: il primo si concentra su una realtà sognante e visionaria, il secondo, nonostante alcuni richiami realistici, propone solo il controcanto della Corona folgoriana.

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divertimento. Non si tratta di una poesia superficiale, poiché essi, come vedremo, riuscirono a cogliere la crisi della società cavalleresca e cortese, offrendo una visione inedita della società medievale, sebbene spesso esagerata e parodica.

La poesia comica medievale nasce nello stesso momento della poesia aulica: allo stile sublime di quest’ultima si accompagna quello giocoso dell’altro genere. Si tratta, come vedremo, di una poesia variegata per toni e immagini utilizzate; tali rimatori si ispirarono alla realtà comunale e borghese e, proprio in seno a tale società, essi svilupparono un genere parallelo a quello cortese. Lo stile comico, dunque, si oppone a quello tragico, il quale si esprime nel linguaggio alto e nei temi elevati e sceglie la sublimazione e dell’astrazione filosofica; invece quello giocoso preferisce un linguaggio “basso” e popolare, prendendo spunto dalla quotidianità. Tale opposizione è di natura soprattutto stilistica, poiché sarebbe errato considerare tale genere come il semplice e superficiale ribaltamento speculare di quello sublime, considerato anche il fatto che alcuni dei poeti giocosi scrivono versi “tragici” e viceversa.

Dunque il comico medievale mette in luce difetti, scandali e opposizioni politiche che spesso non producono il divertimento nei lettori; la natura del comico, dunque, sta nell’esplorazione dell’interiorità umana senza sublimazioni, perciò non consiste solo nel diletto del lettore, ma rappresenta anche la percezione di una realtà degradata e di una società ormai in crisi. Il comico ha una duplice versione: da una parte diverte e dall’altra terrorizza, ed è, in questo caso, sfruttato come arma politica o personale.

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1.2.1 Il comico dall’epoca classica al Medioevo

Il termine “comico”, come oggi lo intendiamo, non corrisponde a quello usato dai rimatori del Trecento; il concetto di comicità fu elaborato in epoca classica, allorché fu stabilita l’esistenza di tre stili in relazione alla materia trattata: sublime (grave), elegiaco (medio) e comico (umile). Dunque lo stile umile è il più basso dei tre, ed è caratterizzato dall’adozione di espressioni colloquiali e da uno scarso grado di elaborazione stilistica, e ha come scopo principale quello di informare e di denunciare.

Tale distinzione giungerà fino al Medioevo e non riguarderà solo il rapporto tra la forma e il genere letterario, ma si amplierà anche ad altri ambiti come il rango sociale dei personaggi e i tipi di antroponimi. La nuova distinzione tra gli stili sono presente anche nella nota Rota Vergilii, la quale esemplifica la teoria degli stili e ha come punti di riferimento l’Eneide, le Georgiche e le Bucoliche, assunte come modelli dei tre generi: la prima è il modello dello stylus gravis, la seconda dello

stylus mediocris, infine la terza di quello humilis. In tale tavola i tre stili sono

classificati, oltre che per il livello linguistico-teorico e lo status dei personaggi, anche per gli antroponimi e gli animali presenti, tanto che, ad esempio, lo humilis stylus è distinto dagli altri per la presenza nei componimenti di ovis (percora), fagus (faggio),

pascua (prato) o pastor ociosus (pastore in riposo) e per i nomi Tityrus e Melibeus.

Nell’epoca medievale però tale distinzione, pur rimanendo in vigore, fu meno rigida, tanto che Dante pratica contemporaneamente tutti i generi, basti pensare alla

Commedia12.

12

Come già detto, Dante sperimentò entrambi i registri nella Commedia, ma questo non fu il primo caso di contaminazione, come scrive Auerbach, è presente anche nei componimenti cristiani di San Francesco: «All’inizio del secolo XIII appare in Italia una figura che personifica in modo esemplare la

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1.2.2 O tu che leggi udirai un nuovo ludo

Dante esprime la propria riflessione linguistica nel De vulgari eloquentia13, nel quale intende definire i fondamenti della nuova letteratura in volgare, attraverso l’analisi della materia poetica e delle tecniche metriche: il primo libro è dedicato alla dimostrazione della nobiltà del volgare illustre, il quale sarebbe superiore al latino poiché è una lingua naturale che si apprende dalla nascita, senza studio. Il secondo invece è volto a designare gli usi possibili del volgare illustre e la forma più adeguata ad esso, la quale è il metro della canzone: essa deve essere composta secondo regole ben precise, come il verso da usare, che deve essere l’endecasillabo. Il terzo libro, invece, doveva essere dedicato agli usi del volgare in prosa e infine il quarto allo stile comico, ma tale opera non fu mai terminata; probabilmente il poeta la lasciò incompiuta per dedicarsi alla scrittura della Commedia.

Anche Dante distingue tre stili: tragico, comico ed elegiaco. Il primo è legato alla scelta della canzone, il metro più degno nella poesia, e del volgare illustre; il secondo, invece, deve essere sviluppato attraverso un livello linguistico più basso, ossia quello mediocre; infine il terzo è degno solo del volgare umile. È chiaro dunque che lo stile tragico è quello dotato della più profonda nobiltà e quindi deve trattare di salvezza, amore e virtù: «Si tragice canenda videntur, tunc assumendum est vulgare illustre, et per consequens cantione, ligare. Si vero comice, tunc quandoque mediocre

fusione di sublimis e humilis, […]; si tratta di san Francesco d’Assisi». Vd. E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, vol. I, Einaudi, Torino, 2000, pp. 177-178.

13Il De vulgari fu concepito come uno spazio autonomo. Dante lo dedicò allo studio della lingua e

alle nuove letterature. Esso, secondo i progetti del poeta, avrebbe dovuto essere di quattro libri, ma il poeta scrisse solo i primi due; il primo è articolato in diciannove capitoli, il secondo invece di quattordici.

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quandoque humile vulgare sumantur: et huius discretionem in quarto huius reservamus ostendere. Si autem elegiace, solum humile oportet nos sumere»14.

Dante sperimenta sia lo stile tragico sia quello comico: quest’ultimo nella tenzone con Forese Donati, la quale è costituita da tre sonetti del poeta fiorentino (Chi udisse tossir la malfatata, Ben ti faranno il nodo Salamone e Bicci novel,

figliuol di non so cui) e altrettanti del secondo (L’altra notte mi venne una gran tosse, Va’ rivesti San Gal prima che dichi e Ben so che fosti figliuol d’Alaghieri).

Tale tenzone consiste in una serie di accuse diffamatorie: si tratta, probabilmente, di un gioco letterario sul genere della lirica satirica e quindi non è necessario presupporre un litigio o qualche rancore personale fra i due, dato che è provato che i due fossero amici: Forese, infatti, faceva parte della famiglia dei Donati, ossia la stessa di Gemma, la moglie di Dante. Peraltro lo scambio dei sonetti è sperimentato anche con Cecco Angiolieri, di cui resta solo la risposta del poeta senese, ma si comprende comunque che anche tra loro si rivolsero una serie di battute infamanti; ma al sonetto di Cecco Dante Alleghier, s’i’ son buon begolardo, Dante non rispose15. Sebbene, in questo caso, le testimonianze siano scarse, mostrano come il poeta fiorentino non disdegni il modo della burla e dello scherzo, tipico della poesia giocosa medievale. Nella tenzone tra Dante e Forese sono presenti molti elementi tipici della poesia giocosa medievale, come le accuse infamanti, per esempio quella di vigliaccheria. Tale denuncia è, infatti, tipica dei sonetti giocosi dei “nostri” rimatori; è frequente in tali componimenti poiché appartiene pienamente alla visione

14

[Con tragedia indico lo stile superiore, con commedia quello inferiore, con elegia lo stile degli infelici. Se si deve usare la forma tragica, allora si deve ricorrere al volgare illustre e per conseguenza si deve comporre la canzone. Se la forma comica, si può usare un volgare mediocre o un volgare umile: mi riservo di dimostrare, nel quarto libro, quali criteri di distinzione siano da usare. Infine, se si deve usare la forma elegiaca, bisogna ricorrere solo al volgare umile]. Vd. D. Alighieri, De vulgari eloquentia, Mondadori, Milano, 1990, pp. 88-89.

15

Al sonetto di Cecco, Dante non rispose, ma le accuse del poeta senese non rimasero inosservate, tanto che il giudice Guelfo Taviani ribatté a ogni sua critica per difendere il “Sommo poeta”.

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del mondo medievale. Per di più Dante in questi sonetti ricorda il prossimo cronologicamente Rustico Filippi, poiché anch’egli si serve dell’attacco verbale e di un lessico fortemente incisivo, tanto che arriva fino all’allusione oscena16

. Si tratta dunque, come nel caso del precursore del genere comico, di componimenti strettamente legati alla realtà contemporanea, basti pensare ai frequenti riferimenti alla presunta povertà di Forese, come in Ben ti faranno il nodo Salamone: «Bicci novello, e petti delle starne / ma peggio fia la lonza del castrone / chè ‘l cuoi farà vendetta della carne»17. Tale tenzone, dunque, si configura come una serie di botta e risposta, in cui Forese riesce in modo adeguato a replicare, sebbene questi sonetti siano l’unica testimonianza rimasta della produzione poetica dell’amico di Dante. Da questi pochi accenni si comprende che la tenzone ricalca i modi tipici del genere comico, tanto che sono presenti denunce di miseria da entrambi le parti e ambiguità oscene, come notava Giorgio Petrocchi: «la ricchezza dei giuochi realistici, la corposità della natura letteraria della contentiones e dei vituperia, l’accumulo d’un lessico greve, licenzioso, sfrenato nella sua stessa goduta libertà di misurarsi con l’avversario, non meno provveduto di lui, sulla strada della contumelia verbale»18

.Per di più sono presenti motivi comuni tra questo scambio di sonetti e la poesia giocosa medievale: il motivo del disinteresse a trovare un accordo da parte di Forese, in Ben

so che fosti figliuol d’Alleghieri («se tagliato n’avess’uno a quartieri / di pace non

dove’ aver tal fretta»), si trova anche nel componimento di Meo dei Tolomei Par

Die, Min Zeppa, or son giunte le tue («e tu com’uom che no·n volesti piue / non

ch’una pace n’hai fatto, ma otto»); da notare che tali espressioni si ritrovano nella medesima posizione, ossia all’inizio della seconda quartina (vv. 5-6), poiché

16Basti pensare all’allusione dantesca riguardo alla dubbia paternità di Forese nel sonetto Bicci novel,

figliuol di non so cui ( vv. 1-2).

17

M. Berisso, La poesia comica del Medioevo italiano, cit., pp. 66.

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16

entrambe sono utili ai due poeti per rimarcare la pigrizia dei rispettivi oggetti di polemica. Inoltre l’adesione dantesca ai modelli comici medievale è presente anche nel sonetto di dubbia attribuzione Sennuccio, la tua poca personuzza19, che riporta,

tra l’altro, le rime peculiari dei moduli giocosi, ossia <–uzzo> e <-uzza>.

Già da questi pochi accenni si comprende come Dante non disprezzi lo stile comico; sicuramente tale sperimentazione giocosa sarà stata causata dalla lettura delle rime comiche di Guinizzelli, Cavalcanti e Rustico. Nonostante la sua riflessione linguistica, egli sperimenta lo stile comico con un impegno simile a quello delle rime stilnovistiche; resta comunque certo che solo in certi ambiti Dante sfrutta lo stile giocoso, non è, quindi, la sua un’adesione completa, ma si tratta a mio avviso solo di una sperimentazione. Sebbene gli esempi dello stile comico siano in netta minoranza rispetto a quelli aulici, egli dà prova della sua ammirazione per tale genere, come scrisse Petrocchi:

Insomma Dante si cimenta anche in questo campo, e lo fa con tanto impegno, con una così profonda ammirazione per il lessico di tono basso, persino un certo gusto dell’osceno e del licenzioso quale s’addice ai componimenti dello stile elegiaco, da far ben presto rapidi passi anche questa direzione, così che si possa affermare senza tema di smentite che tra i realistici tardo-duecenteschi l’Alighieri è in primissima posizione, così come tra i poeti del Dolce Stile20.

Nonostante la netta divisione degli stili che propone nel De vulgari, egli non la rispetta, ma crea una sorta di mosaico stilistico: scrive le rime per Beatrice nella Vita

Nuova e nello stesso tempo sperimenta il genere comico nel “battibecco” con Forese.

Inoltre è da considerare che Dante faceva parte sia della società letteraria sia di quella pubblica medievale, e quindi da una parte aveva a che fare con un pubblico

19Si tratta di un dubbio sonetto, tanto che non tutti i critici sono d’accordo sulla paternità di Dante,

poiché l’unica testimonianza di tale attribuzione è nella rubrica del ms. Chigiano L IV 131 che, tra l’altro, è anche l’unico codice che lo tramanda.

20

(22)

17

che apprezzava, forse, solo le rime del Dolce Stile e dall’altra con un pubblico che, pur gradendo le rime stilnovistiche, non disdegnava sonetti licenziosi e vituperia. Alcuni critici, quali Petrocchi, Contini e Pernicone, individuano nella velenosità della tenzone con Forese l’effetto della morte di Beatrice: è come se il poeta, dopo la scomparsa dell’amata, vivesse una sorta di «traviamento» letterario21

; dunque la sperimentazione giocosa, almeno nello scambio dei sonetti con l’amico, sarebbe da ricondurre a tale crisi emotiva. Il poeta intenzionalmente avrebbe lasciato la solennità delle rime stilnovistiche per cimentarsi in componimenti più “leggeri”, come se il genere comico fosse una manifestazione della crisi del poeta; il comico permetteva a Dante di allontanarsi dall’idealizzazione di Beatrice e di distendere l’animo poetico22. È dunque una crisi del Dante poeta e uomo: da una parte il poeta vede sgretolarsi tutte le certezze del Dolce Stil Nuovo e dell’altra è presente il dolore umano per la morte dell’amata. In seguito credo, però, che il poeta compredesse le potenzialità di tale genere, che gli permetteva di rendere con maggior incisività la realtà e l’individuo. Nonostante tale crisi sia, a mio avviso, totale, ossia includa tutti gli aspetti della vita poetica e umana di Dante, i vari critici hanno individuato solo una singola causa per l’avvicinamento al comico del poeta: ad esempio, Luigi Pietrobono quella religiosa, Francesco Maggini una «deviazione dell’ordine amoroso»23. Il «traviamento» rappresenta la volontà di ricercare una poesia più aderente alla realtà e dunque l’intenzione di allontanarsi dagli astrattismi della poesia aulica. Per di più la presenza di una crisi, successiva alla morte di Beatrice, è dichiarata dallo stesso poeta nel Purgatorio, dove si legge (e a parlare è Beatrice):

21

La definizione è di Petrocchi, il quale ne parla nell’opera citata sopra.

22

La crisi poetica e umana è stata notata da Petrocchi, il quale scrive: «nel traviamento una follia filosofica- teologica, trova più piena giustificazione in quanto il traviamento è immesso in una crisi che minacciava di disgregare il Dante poeta, […] disimpegnare il Dante politico davanti ai grandi fatti che s’andavano producendo in Firenze con gli ordinamenti di Giustizia, ma soprattutto allontanare l’animo dai temi della loda a lui congeniali». Vd. G. Petrocchi, Vita di Dante, cit., p. 32.

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18

«Si tosto come in su la soglia fui / di mia seconda etade e mutai vita, / questi si tolse a me, e diessi altrui»24 (XXX, vv. 124-126). In tale terzina Dante afferma che dopo la morte dell’amata avrebbe lasciato la strada divina, ossia quella tracciata da Beatrice, per dedicarsi a una più materiale, indicata da un’altra donna (altrui), già annunciata nella Vita Nuova; è chiaro dunque che in quel momento preciso egli si allontanò dalla religiosità per dedicarsi a una poesia più materiale e quindi a quella comica. È probabile dunque che egli intendesse con altrui (‘altra donna’) un nuovo tipo di poesia, come Beatrice rappresentava la poesia aulica. In questo passo è difficile dire se egli intendesse passione carnale oppure letteraria, resta comunque certo che si allontanò dai versi tragici per dedicarsi a un tipo di poesia più affine alla sua persona almeno in quel momento, come scrive Anna Maria Chiavacci Leonardi: «significa che egli lasciò la via che conduce a Dio, quella segnata da Beatrice, per seguire altre attrattive, terrene e ingannevoli, come i versi seguenti dichiarano. Se si tratti di passione dei sensi o dell’intelletto – traviamento morale, o intellettuale, come si dice – è questione ancora discussa, e forse irrisolvibile in senso univoco»25

. Nonostante la difficoltà nell’individuare la reale natura della crisi, resta certo che egli cambiò la propria visione poetica, o come scrive lo stesso poeta: «mutai vita».

Tali motivi non escludono, come già detto, che Dante si impegni nella tenzone come nelle rime tragiche, anzi egli, attraverso le scelte lessicali, nobilita il

vituperio con giochi stilistici e ambigui modi di dire. È chiaro che tali modi erano

presenti anche nella produzione comica di Rustico, ma la rilevanza poetica di Dante all’epoca contribuì a innalzare tale genere, sebbene il suo iniziatore avesse inserito prima questi elementi, tanto da segnare la strada del modo dell’attacco personale che di seguito Cecco Angiolieri avrebbe percorso per intero.

24

D. Alighieri, Purgatorio, (a cura) A. M. Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano, 1994, p. 899.

25

(24)

19

È palese una profonda contestualità letteraria, che sarà poi alla base, almeno sotto questo punto di vista, della Commedia, la quale presenterà un “riepilogo comico” dei topoi della poesia giocosa toscana e dunque della tenzone con Forese. Il comico delle Origini è caratterizzato da una palese asprezza, erede della tradizione giullaresca provenzale, tanto che la maggior parte dei componimenti si apre, come vedremo, con un richiamo verso il pubblico-lettore, e così anche Dante, il quale sollecita la sua attenzione: «O tu che leggi, udirai un nuovo ludo»26 (XXII, v. 118). È un appello al lettore per prepararlo alla tensione dell’episodio: i dieci diavoli si allontanano dal barattiere e così Barbariccia (diavolo) allenta la stretta su Ciampòlo (dannato), il quale ne approfitta per nascondersi dentro la pece. L’incipit della terzina è già di per sé comico, ma la comicità è anche nello stesso episodio, poiché i diavoli si sono fatti scappare il dannato, il quale si è dimostrato superiore a loro, perlomeno in malizia, come scrisse Francesco De Sanctis: «L’uomo non può ingannare un altro uomo, ma non può ficcarla al diavolo, per il diavolo nel senso poetico è lui stesso, la sua coscienza che risponde con un’alta risata a’ suoi sofismi e gli fa il contro- sillogismo»27.

D’altronde Dante aveva avvisato il lettore che l’episodio finale avrebbe mostrato una “nuova maniera” poetica, e infatti è fondato soprattutto sulla burla, rivelata anche dalla stessa espressione «nuovo ludo», poiché da una parte rivela la forma insolita e imprevista e dall’altra mantiene una certa letterarietà attraverso il latinismo ludo che mostra l’interesse letterario del poeta. Per di più questi si mostra divertito dalla scena a cui assiste, pur mantenendosi a una certa distanza sia dal dannato sia dai diavoli; dunque racconta la vicenda come uno spettatore esterno senza alcuna partecipazione

26

Dante e Virgilio si trovano nel VIII cerchio (VI bolgia) dove sono puniti i barattieri, i quali sono immersi nella pece bollente e, se provano a fuggire, vengono catturati dai diavoli. Vd. D. Alighieri, Commedia. Inferno, (a cura) G. Inglese, p. 253.

27

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20

affettiva. Del resto tutto il canto è basato su un’impostazione comica, simile a quella dei sonetti giocosi trecenteschi, come mostra tra l’altro la frequenza delle similitudini animalesche sparse in tutto il canto. I dannati sono descritti attraverso paragoni zoomorfi, che ne attestano la crescente degradazione: Ciampòlo assomiglia a una nutria quando si getta nella pece, i barattieri sono paragonati ai delfini. Tale confronto allude, a mio avviso, alla nota furbizia delle prime e dunque all’intelligenza dei secondi28

, tanto che Dante li descrive come delfini che nuotano nella pece: «Come i delfini, quando fanno segno / a’ marinar con l’arco della schiena / ch’e’ s’argomentin di campar lor legno, / talor così, ad alleggiar la pena, / mostrav’alcun de’ peccatori il dosso […]»29

. Il confronto dei dannati con gli animali è, come vedremo, frequente nella poesia giocosa e sarà uno dei motivi chiave della poesia di Rustico, il quale lo sfrutterà per infamare i suoi avversari30, come scrive Borsellino: «Il metro su cui valutarlo è il tenzonismo di Malebolge, che è peraltro una dismisura. In basso ci sono le mosse di scomposto duellante di un Rustico Filippi, che pure forniva prova di un’altra virtù giullaresca, quella della caricatura zoomorfa che, frenata da un gusto più divertito e meno risentito dell’osservazione, avrebbe potuto popolare una variegata fattoria fiorentina degli animali»31.

Già da questi elementi è plausibile ritenere la materia comica della Commedia non come una sollecitazione del riso, bensì come una rappresentazione dell’infamia dei dannati, tanto che essa si trova in tutte e dieci le bolge, ossia in quei cerchi dove sono rinchiusi i peccatori che Dante disprezza di più. Si tratta, dunque, non di un “comico che fa ridere”, ma di una descrizione dei contenuti ignobili presenti in questi

28

«L’accostamento può essere stato suggerito dall’astuzia che è loro propria, come l’intelligenza, si sa, è peculiare di questi cetacei». Vd. ID., La Divina Commedia, (a cura) A. Marchi, Mondadori, Varese, Milano, p. 236.

29

ID, Commedia. Inferno, cit., pp. 147-148.

30

Vd. cap. Rustico Filippi, il Barbuto.

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canti; come nella tenzone, ma in modi sicuramente più aspri, il poeta riprende il modo del botta e risposta e della descrizione espressiva delle pene, basti pensare all’acceso dialogo tra Simone e maestro Adamo nel canto XXX, in cui sono puniti i falsari. La loro conversazione ha le sembianze della tenzone di Dante con Forese, ma si presenta molto più triviale e volgare ed è resa ancora più espressiva da una cornice moralmente degradata: «“S’io dissi falso, e tu falsasti il conio; - / disse Sinone – e son qui per un fallo, / e tu per più ch’alcun altro demonio!” / “Ricorditi, spergiuro, del cavallo, - rispuose quel ch’avea infiata l’epa- e sieti reo che tutto il mondo sallo!” “E te sia rea la sete on ti criepa!- / disse il grieco / la lingua e l’acqua marcia / che ‘l ventre innanzi agli occhi sì t’assiepa!” »32. Essi si presentano nella loro naturalezza e dunque possono essere rappresentati senza alcun filtro, come la caricatura o la parodia; si tratta in questo caso di una comicità grottesca, «della più bassa lega»33. Qui il dialogo fra i due dannati ricorda le battute incisive di Rustico; entrambi, infatti, si esprimono in versi dal ritmo incalzante, nonostante si tratti di due contesti diversi (Inferno e realtà comunale). Sebbene tale dialogo ricordi anche quelli dei sonetti di Meo e di Cecco, credo che il modello sia stato Rustico: innanzitutto per una ragione cronologica, poiché i due poeti senesi sono contemporanei di Dante e sebbene egli avesse scambiato sonetti con l’Angiolieri non credo possibile l’eventualità che Dante avesse letto tutto il suo canzoniere. Per di più l’esempio di Rustico è visibile anche nella descrizione del fetore che emana la dannata Taide (canto XVIII), la quale è descritta esclusivamente attraverso sensazioni olfattive, come accade nel componimento di Rustico Ne la stia par esser un leone, di cui parlerò nel relativo capitolo34. Tutta l’orribile descriptio della donna adotta la maniera giocosa: «di quella sozza e scapigliata fante / che là graffia con l’unghie

32

D. Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp. 341-342.

33

F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cit., p. 207.

34

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merdose, / e or s’accoscia e ora è in piedi stante. / Taïd’è la puttana […]» (vv. 130-133). Raffigurandola come sporca e arruffata, Dante ne dà un’immagine tangibile, come accadde per Lutieri nel sonetto citato, ma gli scopi poetici sono chiaramente diversi: da una parte la descrizione di Dante è un monito per condannare la falsa lusinga, dall’altra la rappresentazione di Rustico è solo per diletto del pubblico e non ha quindi nessun intento morale.

Dunque la comicità dell’Inferno dantesco è concentrata soprattutto nelle Malebolge: i dannati qui rinchiusi si dimostrano ridicoli nei loro gesti e per di più sembrano ignorare la natura dei peccati commessi. Il riso nasce dunque dall’incoscienza dei dannati nei confronti dei loro peccati, essi non si rendono conto della gravità di questi ultimi e non provano vergogna, dunque sono essi stessi che si fanno la caricatura, rendendosi ridicoli agli occhi di Dante. Egli d’altra parte prende solo atto delle loro movenze e atteggiamenti, tanto che i passi citati si mantiene sempre distante. Dalla comicità dantesca scaturisce un sentimento di profondo disgusto e ribrezzo, quindi l’ironia è solo un mezzo per mostrare l’abiezione dei peccatori e l’orrore del poeta, come accade anche a Vanni Fucci35

. Mastro Adamo e quest’ultimo mostrano i due estremi della comicità dantesca e quindi dei rispettivi vizi: il primo non ha avuto coscienza della propria miseria morale, invece Fucci ha avuto in vita la consapevolezza dei peccati commessi ma ha perseverato ed è quindi diventato per Dante un uomo bestiale36.

A mio avviso, l’esempio più efficace della comicità dantesca resta la rappresentazione del dannato Niccolò III rinchiuso nella III bolgia dell’VIII cerchio,

35

Vanni Fucci si trova nei canti XXIV e XXV dell’Inferno, dove sono raccolti i ladri. Il dannato alla vista del poeta gli si scaglia contro attraverso gesti e parole oscene: «Alla fine delle sue parole il ladro / le mani alzò con ambedue le fiche, / gridando: “ Togli, Dio, che te le squadro» (canto XXV, vv. 1-3).

36

«Mastro Adamo è come animale, senza coscienza della sua bassezza, Vanni Fucci ha avuto coscienza e l’ha soffocata; sono i due estremi della scala del vizio; l’uno non è mai salito fino all’uomo; l’altro è passato per l’uomo ed è ricaduto nella bestia. Si sente bestia, e si pone come tipo bestiale». Vd. F. De Sanctis, Storia della letteratura, cit., p. 208.

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23

ossia quella dei simoniaci. Il colloquio fra i due è ispirato a un tono di burla e di scherzo, tanto che il dannato crede che Dante sia Bonifacio VIII; il reale protagonista del canto, dunque, è introdotto attraverso l’equivoco: «Ed el gridò: “Sé tu già costì ritto? / Sé già costì ritto, Bonifazio?”. / […] Allor Virgilio disse: “Digli tosto: / Non son colui, non son colui che credi!”». (vv. 52-61). Lo scherno è rafforzato dal fatto che alle domande rivolte da Niccolò III il poeta non risponde, ma restando confuso dalle sue parole; solo all’esortazione di Virgilio egli dichiara la propria identità, deludendo, forse, il peccatore. In questo caso non si tratta di una comicità generica, bensì di una forma più alta e complessa, ossia il sarcasmo: nel momento in cui la caricatura e l’ironia muoiono, esse si evolvono nella forma più “nobile” del sarcasmo. Ciò avviene quando le reazioni del poeta non cadono nel riso o nel divertimento, ma esplodono nella collera o nella confusione, come accade al momento in cui Niccolò III pronuncia quelle parole; infatti, inizialmente Dante si mostra adirato con lui per aver nominato il papa da lui più disprezzato37, tanto che egli si rivolge con il tu al dannato; infine la velenosa ironia si trasforma nel più pungente sarcasmo, come mostra la stoccata finale nella conversazione con Niccolò: «e guarda ben la mal tolta moneta ch’esser / ti fece contra Carlo ardito» (vv. 98-99). Non è certo un caso che Dante decida di inserire qui un modo comico più complesso; si tratta di un tentativo ben riuscito di rappresentare l’ambiente degradato dei dannati, così come si riscontra nei componimenti dei poeti trecenteschi. Lo stile giocoso permette anche, attraverso il contrasto tra la depravazione dell’ambiente e la sacralità della figura pontificia, di rafforzare la rappresentazione orrifica. Inoltre, l’opposizione fra l’orrore dei dannati e l’ironia permette di rendere tangibile e concreta la scena di cui il poeta è testimone.

37

«Tal mi fec’io, quai son color che stanno, / per non intender ciò ch’è lor risposto, quasi scornati, e rispondere non sanno» (canto XIX, vv. 57-59).

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24

Dante dunque sfrutta tutti i livelli di comicità, ma solo quando il suo riso si trasforma in rabbia egli dà prova di un sarcasmo più pungente e velenoso, come scrive Borsellino:

La rassegna desanctisiana dei peccatori di frode mette in evidenza tutti i gradi del comico, dal sozzo Taide al tenzonismo plebeo di mastro Adamo al buffonesco dei barattieri fino al sublime di Vanni Fucci […], passando per l’ironia […]. In questo dramma Dante non può calarsi fino in fondo, nemmeno “lungo il pendio dell’ingiuria” quando inveisce contro Niccolò III. La sua trincea è il sarcasmo, che però “non deve rimanere nel particolare e nel personale”, ma “purificare e consumare se stesso”, farsi “voce di verità, espressione impersonale della coscienza”. Perciò il comico delle Malebolge “è posto ed è sciolto”, vive quando Dante se ne libera, “mutato il riso in collera”.38

Dunque è in questi canti che Dante mette in pratica lo stile giocoso sperimentato nella tenzone con Forese; in minor misura esso è presente nel

Purgatorio e nel Paradiso, ma si tratta di una comicità soprattutto stilistica e non

correlata al contenuto, come accadeva invece nell’Inferno. Nella seconda cantica della Commedia ritorna, come già per la dannata Taide, l’eco di Rustico; infatti, la peccatrice, apparsagli in visione, è annunciata per il fetore che emana: «L’altra prendea, e dinanzi l’apria / fendendo i drappi, / e mostravami ‘l ventre; / quel mi svegliò col puzzo che n’uscia»39

(XIX, vv. 31-33). I modi sono quindi realistici e rappresentano i fatti senza alcuna attenuazione, descrivendo perciò la cruda realtà, tanto che il fetore risveglia il poeta dal sonno che prima lo aveva colto. Ancora una volta dunque, il poeta sceglie di descrivere il peccatore attraverso il fetore; d’altronde esso, sia nell’immaginario biblico e poi in quello medievale, era un indizio del peccato ed è per tale motivo che Dante lo sfrutta a più riprese, tanto che è Virgilio a scoprire la donna poiché, incarnando l’umana ragione, è l’unico in grado di svelare

38

N. Borsellino, La tradizione del comico, cit., p. 30.

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l’inganno del peccato. I modi comici del poeta sono dunque espliciti, e sono rafforzati dal contrasto con la precedente terzina che, invece, ha un tono elevato40. È un contrasto che permette al poeta di mettere in risalto sia l’una sia l’altra modalità comica.

Lo stile giocoso dantesco non si limita solo alla descrizione di immagini comiche, quali il fetore e la degradazione morale dei dannati, ma si mostra anche nello sviluppo di sentenze morali attraverso immagini di grande concretezza, come nel caso di «non v’accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla / che vola a la giustizia sanza schermi?»41. Si tratta di una terzina (vv. 124-126) del canto X del Purgatorio, nella quale Dante, riprendendo la metafora di Sant’Agostino, trasmette l’immagine che tutti gli uomini sono bruchi che diventano farfalle solo grazie a Dio42. È evidente il contrasto tra l’immagine morale e lo stile; infatti esso si configura come il sermo humilis, lo stile delle Sacre Scritture. Dante lo sfrutta per rendere subito comprensibile la propria posizione morale, per di più il contrasto rafforza la spiritualità della rappresentazione. L’uso del sermo humilis è presente anche nelle parole di Beatrice nel canto XXVII del Paradiso: «Ben fiorisce ne li uomini il volere / ma la pioggia continüa converte / in bozzacchioni le sosine vere»43, anche in questo caso Dante s’ispira all’immagine del profeta Isaia44

. In tale terzina è forse ancor più evidente la dissonanza tra stile e contenuto, basti considerare la voce

bozzacchione che, come scrive Chiavacci Leonardi, indica «il frutto gonfio e

marcito. Così ancora un proverbio toscano: “quando piove la domenica di Passione, ogni susina va in bozzicchione”. Il termine è parso a molti sconvenire al parlare di

40

«Ancor non era sua bocca rinchiusa, / quand’una donna apparve sante e presta / lunghesso me per far colei confusa». Vd. Ibidem, p. 560.

41

Ibidem, p. 311.

42

Agostino, a differenza di Dante, proponeva l’immagine da verme ad angelo:«omnes homines de carne nascentes, quid sunt nisi vermes? Et de vermibus [Deus] angelos facit». Vd. Ivi.

43

ID, Commedia. Paradiso, (a cura) A.M. Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano, 1994, p. 759.

44

(31)

26

Beatrice […] così questo forte vocabolo esprime, secondo il modello biblico, il peso del male»45. In questo passo il contrasto è doppio: nella terzina parla Beatrice (la personificazione dell’elevazione spirituale), ma è evidente lo stile basso sfruttato dal poeta. Tale esempio non rappresenta il primo caso di voci dialettali inerite in un contesto morale alto, basti considerare anche le parole di San Pietro sempre nello stesso canto: «fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza; onde ʼl perverso / che cadde di qua su, là giù si placa»46. Da questi vocaboli nasce il contrasto che sarà il filo conduttore di tutto il canto; le parole di San Pietro -cloaca e

puzza- sono tra le più forti e mostrano come il poeta, ancora una volta, s’ispiri al

linguaggio biblico. L’aspra sentenza del Santo permette, ancora una volta, di creare un profondo conflitto fra il contesto e il linguaggio.

Tali esempi mostrano due modalità diverse di stile comico: nella prima, quella dell’Inferno, lo stile è lo specchio della immoralità dei dannati, tanto che è presente nelle Malebolge, nelle quali sono rinchiusi i peccatori più disprezzati da Dante; al contrario, gli esempi del Purgatorio e del Paradiso sono mirati rispettivamente all’esaltazione del monito morale (canto X, vv. 124-126) o al contrasto tra la spiritualità dell’ambiente (canto XXVII, vv. 123-126) e le parole del Santo (canto XXVII, vv. 25-27) . Si tratta dunque di due modi diversi: nel primo Dante si adegua allo squallore dei peccatori, nel secondo egli sfrutta uno stile umile sia per ricalcare i modi biblici sia per rafforzare i moniti morali.

45

D. Alighieri, Commedia. Paradiso, cit., p. 759.

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1.3 Considerazioni preliminari

Ho voluto compiere questo piccolo excursus nella comicità dantesca per far comprendere come i poeti giocosi medievali abbiano sviluppato tendenze già presenti nella letteratura delle Origini, dando, però, un contributo inedito. D’altronde, come vedremo, il comico medievale avrà diverse modalità: dallo stile all’organizzazione del contesto e dei vari argomenti. È necessario dunque considerare la profonda eterogeneità, prima di affrontate tale canone, poiché solo ammettendo tale diversità è possibile coglierne il senso profondo. Nei prossimi capitoli affronterò cinque diversi poeti, poiché ognuno di essi rappresenta una sfumatura differente del comico medievale e quindi nell’insieme rendono chiara la varietà del genere. Proprio l’eterogeneità tematica e stilistica è stata, forse, il problema critico principale, poiché non ha permesso di studiare oggettivamente questi rimatori; dunque alcuni di essi sono stati considerati giocosi pur non essendolo o la loro comicità è stata considerata di uguale natura a quella degli altri e questo è chiaramente impensabile: non è esatto considerare uguale, o anche simile, l’ironia di Rustico con quella di Immanuel o la politica affrontata dal poeta fiorentino con quella di Folgòre.

Cercherò dunque di offrire delle risposte ad alcuni interrogativi quali, ad esempio, la definizione del genere47 oppure gli elementi chiave che permettono di delineare il comico medievale. Il problema, però, non è solo circoscritto al canone letterario, ma riguarda anche il comico come espressione umana, poiché esso consta di infinite varietà in relazione alla biografia e all’epoca storica: è infatti legato al contesto storico e dunque l’ironia medievale non può essere uguale a quella

47

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cinquecentesca, ottocentesca o contemporanea48. Un elemento certo è che il comico, considerato come manifestazione dell’individuo, ha l’obiettivo di approfondire la realtà circostante e offrirne un punto di vista trasversale che oltrepassa la visione comune e dominante, come accade per il genere comico medievale: esso propose un’alternativa alla poesia aulica dando, forse, una rappresentazione più autentica della fallibilità umana.

48

Un esempio efficace in tal senso saranno le accuse rivolte dai poeti comici medievali che rispecchieranno i loro usi sociali.

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Capitolo II

Rustico Filippi, il Barbuto

Di famiglia ghibellina, Rustico Filippi (o di Filippo), soprannominato il Barbuto49, nasce a Firenze intorno al 1230-1240. Conosciamo solo l’attività letteraria e le amicizie poetiche: il profilo storico, infatti, è povero di notizie biografiche. Tale mancanza è colmata però dalle testimonianze letterarie: fu destinatario del sonetto

Segnori udite strano malificio di Iacopo da Lèona e del Favolello di Brunetto Latini.

Il primo imita i toni giocosi del Filippi, ma su questo tornerò più avanti. Il secondo è un poemetto in volgare sull’amicizia, che Brunetto gli dedica: «Or che ch’io penso o dico, / a te mi torno, amico, / Rustico di Filippo, / di cui faccio mio ceppo»50. Nell’epigrafe del Favolello si trova anche traccia dell’ammirazione del poeta Pallamidesse Bellindote51: «ché ʼl buon Palamidesso / mi dice, ed hol creduto, / che se’ ʼn cima saluto / ond’io me n’alegrai52

». Nell’opera di Brunetto, Rustico è elogiato

come creatore del nuovo trovato poetico poiché considerato l’iniziatore della poesia giocosa in volgare; è plausibile pensare che il fino amico caro del Tesoretto sia proprio Rustico, alla luce dell’ammirazione espressa dal Notaio nel Favolello. Queste due tracce sono già sufficienti per mostrare la notorietà del poeta, ma egli intrattenne rapporti, oltre che con Brunetto e Iacopo, anche con Bondie Dietaiuti53. Rustico, infatti, gli inviò il sonetto Due cavalier valenti d’un paraggio sulla questione d’Amore, nel quale s’interrogava sulla superiorità amorosa fra il chierico o

49

Vd. Segnori, udite strano malificio di Iacopo da Lèona di cui scriverò più avanti.

50

Cit. contenuta in Rustico Filippi. Sonetti satirici e giocosi, (a cura di) S. Buzzetti Gallarati, Carocci, Roma, 2005, p.19.

51

Pallamidesse Bellindote: figlio di Bellindote del Perfetto, nato probabilmente intorno al 1260, da una famiglia popolare arricchita con l’attività bancaria, muore nel 1310 circa. È citato nel Favolello (v. 154), nel componimento Tanto m’abonda matera di Monte Andrea ( v. 151).

52

Cit. contenuta in Rustico Filippi. Sonetti satirici e giocosi, cit., p. 20.

53

Bondie Dietaiuti: nato prima della metà del secolo XIII, forse a Firenze; fu autore di un piccolo corpus poetico.

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30

e il cavaliere. Infine Francesco da Barberino54, nei suoi Documenti d’amore, ricorda il rimatore giocoso, inserendolo nella tradizione poetica misogina: «Quid enim Rusticus Barbutus […] nituntur cotidie ut auctoritares que faciant contra esa exquirant et eorum fame detrahant et honori […]»55

. Le attestazioni letterarie sono la traccia della partecipazione di Rustico all’ambiente culturale e della considerazione ricevuta da parte degli altri rimatori, non solo come autore di poesie auliche, ma anche come caposcuola del genere comico.

Le poche notizie biografiche del poeta riguardano i figli di Rustico: Lapo, Lippo, Guccio e Cantino. Dai documenti dell’archivio storico fiorentino sappiamo che uno di loro, Lapo, fece parte del popolo di Santa Maria Novella: «Lapus filius Rustechi, populi S. Marie in campo»56 (atto del 1291), perciò è desumibile che anche il prade ne facesse parte. Inoltre dalla biografia della prole è possibile suppore anche la data della morte; è certo, infatti, che i figli Guccio e Lippo furono banditi da Firenze nel 131357 e il poeta, probabilmente, era già morto, come risulta dal quodam che precede il suo nome nel bando: «fuit confessos se […] habuisse a Lippo

quondam Rustici Philippi […]et Guccio eius fratre».

Nonostante le scarse informazioni biografiche, abbiamo molte notizie sulle poesie: il corpus di Rustico consta di cinquantotto sonetti suddivisi perfettamente in ventinove cortesi e altrettanti comici. Essi sono tramandati dal ms. Vaticano Latino 3973 e dal Vaticano Latino 4823, gemello del primo. I citati codici non sono gli unici: i sonetti I’ aggio inteso che sanza core e Due cavalier valenti d’un paraggio

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Francesco da Barberino: nato a Barberino val d’Elsa intorno al 1264 da una nobile famiglia. Fu autore di due opere didascaliche: Documenti d’Amore e Reggimento e costumi di donna.

55

Cit. contenuta in Rimatori comico realistici del Due e Trecento, (a cura di) di M. Vitale, vol. I, UTET, Torino, 1956, p. 104.

56

Cit. contenuta in Rustico Filippi. Sonetti satirici e giocosi, cit., p. 19.

57

I figli Guccio e Lippo erano ghibellini come il padre; furono esiliati da Firenze quando Arrigo VII discese in Italia nel 1313.

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sono trasmessi anche dal Vaticano Latino 3214, dal Chigiano L. VIII 305 e dal Magliabechiano VII. 1040. Per la produzione giocosa è plausibile parlare di “Canzoniere”: tali componimenti riassumono l’attività comica del poeta, e anche se non presentano un preciso sviluppo narrativo, all’interno vi sono alcuni cicli poetici strutturati attorno a uno stesso tema e/o personaggio, di cui scriverò più avanti. Inoltre, nella raccolta sono presenti alcune costanti quali la derisione, l’allusività e la volgarità, che conferiscono un aspetto uniforme al piccolo canzoniere. Per di più alcuni critici, come Gianfranco Contini58, hanno pubblicato a parte la produzione giocosa, riconoscendo la natura omogenea del corpus. Pier Vincenzo Mengaldo, invece, che ha pubblicato la raccolta nella sua interezza, individua la compattezza solo la sezione amorosa:

All’accusata uniformità monotonale dello stile corrisponde la concentrata limitazione tematica: il piccolo canzoniere cortese di Rustico s’aggira tutto il cerchio dei pochi motivi più essenziali e canonici dell’omaggio e specialmente della malinconia e frustrazione amorosa […] il che comporta fra l’altro la forte riduzione, rispetto ai precedessores, di tutto il bagaglio di topoi culturali […]. Rustico predilige, non solo nei sonetti ‘tragici’, l’armonizzazione della serie di rime per assonanza e/o consonanza […]59

Mengaldo si riferisce solo alla produzione cortese, ma il suo pensiero può valere anche per quella giocosa; come già accennato, sono presenti una serie di “punti fissi” che riguardano il tema e lo stile che tratterò in seguito.

58

Vd. Poeti del Duecento, (a cura) G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960.

59

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2.1 Il ghibellino aveste per garzone un esempio della velenosa passione politica medievale

I vituperia di Rustico esplorano le possibilità dell’invettiva satirica. Egli compone sia attacchi personali, sia politici, creando, in alcuni casi, dei veri e propri cicli attorno allo stesso protagonista. Si tratta, in entrambi i casi, di invettive da ambientare in un contesto ben preciso, ossia quello fiorentino; infatti, il poeta s’ispira alle cronache cittadine o ai pettegolezzi.

La vena politica in Rustico è molto accesa: egli era un fervente ghibellino, quindi i vituperia politici si scagliano contro i guelfi, come mostra il sonetto A voi

che ne andaste per paura: «Sicuramente potete tornare: / da ch’è’ ci è dirizzata la

ventura, / ormai potete guerra inconinzare. / E’ più non vi bisogna stare a dura, / da che nonn·è chi vi scomunicare: / ma ben lo vi tenete ʼn sciagura / che non avete più cagion che dare. / Ma so bene, se Carlo fosse morto, /che voi ci trovereste ancor cagione; / però dal papa nonn-ho gran conforto»60. I destinatari del sonetto sono,

appunto, i guelfi, fuggiti da Firenze dopo la sconfitta di Monteaperti (1260) e pronti a tornare dopo la disfatta di Manfredi e dei ghibellini a Benevento (1266): è possibile quindi collocare il componimento intorno al 1266, visto il riferimento a tale battaglia. Il sonetto prende di mira la codardia degli avversari, i quali scapparono dopo la sconfitta, ma furono pronti a tornare, dopo la loro vittoria, arroganti e aggressivi. Rustico prende in esame sia la vigliaccheria sia l’arroganza dei guelfi: nelle due quartine li incoraggia a tornare poiché il pericolo è scomparso, alludendo così alla loro paura. Tali inviti sono chiaramente ironici, poiché il poeta non ha alcun desiderio che essi tornino. Nelle terzine ipotizza che se fosse morto Carlo d’Angiò — fautore della vittoria a Benevento — i guelfi avrebbero trovato, comunque, ragione

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