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Di famiglia ghibellina, Rustico Filippi (o di Filippo), soprannominato il Barbuto49, nasce a Firenze intorno al 1230-1240. Conosciamo solo l’attività letteraria e le amicizie poetiche: il profilo storico, infatti, è povero di notizie biografiche. Tale mancanza è colmata però dalle testimonianze letterarie: fu destinatario del sonetto

Segnori udite strano malificio di Iacopo da Lèona e del Favolello di Brunetto Latini.

Il primo imita i toni giocosi del Filippi, ma su questo tornerò più avanti. Il secondo è un poemetto in volgare sull’amicizia, che Brunetto gli dedica: «Or che ch’io penso o dico, / a te mi torno, amico, / Rustico di Filippo, / di cui faccio mio ceppo»50. Nell’epigrafe del Favolello si trova anche traccia dell’ammirazione del poeta Pallamidesse Bellindote51: «ché ʼl buon Palamidesso / mi dice, ed hol creduto, / che se’ ʼn cima saluto / ond’io me n’alegrai52

». Nell’opera di Brunetto, Rustico è elogiato

come creatore del nuovo trovato poetico poiché considerato l’iniziatore della poesia giocosa in volgare; è plausibile pensare che il fino amico caro del Tesoretto sia proprio Rustico, alla luce dell’ammirazione espressa dal Notaio nel Favolello. Queste due tracce sono già sufficienti per mostrare la notorietà del poeta, ma egli intrattenne rapporti, oltre che con Brunetto e Iacopo, anche con Bondie Dietaiuti53. Rustico, infatti, gli inviò il sonetto Due cavalier valenti d’un paraggio sulla questione d’Amore, nel quale s’interrogava sulla superiorità amorosa fra il chierico o

49

Vd. Segnori, udite strano malificio di Iacopo da Lèona di cui scriverò più avanti.

50

Cit. contenuta in Rustico Filippi. Sonetti satirici e giocosi, (a cura di) S. Buzzetti Gallarati, Carocci, Roma, 2005, p.19.

51

Pallamidesse Bellindote: figlio di Bellindote del Perfetto, nato probabilmente intorno al 1260, da una famiglia popolare arricchita con l’attività bancaria, muore nel 1310 circa. È citato nel Favolello (v. 154), nel componimento Tanto m’abonda matera di Monte Andrea ( v. 151).

52

Cit. contenuta in Rustico Filippi. Sonetti satirici e giocosi, cit., p. 20.

53

Bondie Dietaiuti: nato prima della metà del secolo XIII, forse a Firenze; fu autore di un piccolo corpus poetico.

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e il cavaliere. Infine Francesco da Barberino54, nei suoi Documenti d’amore, ricorda il rimatore giocoso, inserendolo nella tradizione poetica misogina: «Quid enim Rusticus Barbutus […] nituntur cotidie ut auctoritares que faciant contra esa exquirant et eorum fame detrahant et honori […]»55

. Le attestazioni letterarie sono la traccia della partecipazione di Rustico all’ambiente culturale e della considerazione ricevuta da parte degli altri rimatori, non solo come autore di poesie auliche, ma anche come caposcuola del genere comico.

Le poche notizie biografiche del poeta riguardano i figli di Rustico: Lapo, Lippo, Guccio e Cantino. Dai documenti dell’archivio storico fiorentino sappiamo che uno di loro, Lapo, fece parte del popolo di Santa Maria Novella: «Lapus filius Rustechi, populi S. Marie in campo»56 (atto del 1291), perciò è desumibile che anche il prade ne facesse parte. Inoltre dalla biografia della prole è possibile suppore anche la data della morte; è certo, infatti, che i figli Guccio e Lippo furono banditi da Firenze nel 131357 e il poeta, probabilmente, era già morto, come risulta dal quodam che precede il suo nome nel bando: «fuit confessos se […] habuisse a Lippo

quondam Rustici Philippi […]et Guccio eius fratre».

Nonostante le scarse informazioni biografiche, abbiamo molte notizie sulle poesie: il corpus di Rustico consta di cinquantotto sonetti suddivisi perfettamente in ventinove cortesi e altrettanti comici. Essi sono tramandati dal ms. Vaticano Latino 3973 e dal Vaticano Latino 4823, gemello del primo. I citati codici non sono gli unici: i sonetti I’ aggio inteso che sanza core e Due cavalier valenti d’un paraggio

54

Francesco da Barberino: nato a Barberino val d’Elsa intorno al 1264 da una nobile famiglia. Fu autore di due opere didascaliche: Documenti d’Amore e Reggimento e costumi di donna.

55

Cit. contenuta in Rimatori comico realistici del Due e Trecento, (a cura di) di M. Vitale, vol. I, UTET, Torino, 1956, p. 104.

56

Cit. contenuta in Rustico Filippi. Sonetti satirici e giocosi, cit., p. 19.

57

I figli Guccio e Lippo erano ghibellini come il padre; furono esiliati da Firenze quando Arrigo VII discese in Italia nel 1313.

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sono trasmessi anche dal Vaticano Latino 3214, dal Chigiano L. VIII 305 e dal Magliabechiano VII. 1040. Per la produzione giocosa è plausibile parlare di “Canzoniere”: tali componimenti riassumono l’attività comica del poeta, e anche se non presentano un preciso sviluppo narrativo, all’interno vi sono alcuni cicli poetici strutturati attorno a uno stesso tema e/o personaggio, di cui scriverò più avanti. Inoltre, nella raccolta sono presenti alcune costanti quali la derisione, l’allusività e la volgarità, che conferiscono un aspetto uniforme al piccolo canzoniere. Per di più alcuni critici, come Gianfranco Contini58, hanno pubblicato a parte la produzione giocosa, riconoscendo la natura omogenea del corpus. Pier Vincenzo Mengaldo, invece, che ha pubblicato la raccolta nella sua interezza, individua la compattezza solo la sezione amorosa:

All’accusata uniformità monotonale dello stile corrisponde la concentrata limitazione tematica: il piccolo canzoniere cortese di Rustico s’aggira tutto il cerchio dei pochi motivi più essenziali e canonici dell’omaggio e specialmente della malinconia e frustrazione amorosa […] il che comporta fra l’altro la forte riduzione, rispetto ai precedessores, di tutto il bagaglio di topoi culturali […]. Rustico predilige, non solo nei sonetti ‘tragici’, l’armonizzazione della serie di rime per assonanza e/o consonanza […]59

Mengaldo si riferisce solo alla produzione cortese, ma il suo pensiero può valere anche per quella giocosa; come già accennato, sono presenti una serie di “punti fissi” che riguardano il tema e lo stile che tratterò in seguito.

58

Vd. Poeti del Duecento, (a cura) G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960.

59

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2.1 Il ghibellino aveste per garzone un esempio della velenosa passione politica medievale

I vituperia di Rustico esplorano le possibilità dell’invettiva satirica. Egli compone sia attacchi personali, sia politici, creando, in alcuni casi, dei veri e propri cicli attorno allo stesso protagonista. Si tratta, in entrambi i casi, di invettive da ambientare in un contesto ben preciso, ossia quello fiorentino; infatti, il poeta s’ispira alle cronache cittadine o ai pettegolezzi.

La vena politica in Rustico è molto accesa: egli era un fervente ghibellino, quindi i vituperia politici si scagliano contro i guelfi, come mostra il sonetto A voi

che ne andaste per paura: «Sicuramente potete tornare: / da ch’è’ ci è dirizzata la

ventura, / ormai potete guerra inconinzare. / E’ più non vi bisogna stare a dura, / da che nonn·è chi vi scomunicare: / ma ben lo vi tenete ʼn sciagura / che non avete più cagion che dare. / Ma so bene, se Carlo fosse morto, /che voi ci trovereste ancor cagione; / però dal papa nonn-ho gran conforto»60. I destinatari del sonetto sono,

appunto, i guelfi, fuggiti da Firenze dopo la sconfitta di Monteaperti (1260) e pronti a tornare dopo la disfatta di Manfredi e dei ghibellini a Benevento (1266): è possibile quindi collocare il componimento intorno al 1266, visto il riferimento a tale battaglia. Il sonetto prende di mira la codardia degli avversari, i quali scapparono dopo la sconfitta, ma furono pronti a tornare, dopo la loro vittoria, arroganti e aggressivi. Rustico prende in esame sia la vigliaccheria sia l’arroganza dei guelfi: nelle due quartine li incoraggia a tornare poiché il pericolo è scomparso, alludendo così alla loro paura. Tali inviti sono chiaramente ironici, poiché il poeta non ha alcun desiderio che essi tornino. Nelle terzine ipotizza che se fosse morto Carlo d’Angiò — fautore della vittoria a Benevento — i guelfi avrebbero trovato, comunque, ragione

60

33

per criticarlo, perché sono vili e faziosi. È menzionato anche il Papa, che accusa di usare la scomunica come condanna politica.

Il componimento si snoda attraverso un’alternanza di consigli ironici e accuse infamanti che mostrano lo scopo del poeta, peraltro già comprensibile dal v. 1, nel quale si rivolge direttamente ai guelfi tramite il deittico-vocativo A voi che apre il sonetto in modo molto efficace, ciò è confermato anche dalle parole di Enzo Quaglio:

La vigoria polemica di Rustico si esprime in questo sonetto tra i più celebri del genere politico dall’apostrofe iniziale (A voi), efficacemente atteggiata alla sfida, alla sprezzante rinuncia alla discussione (v. 12), che sottolinea la cieca partigianeria degli avversari, in un susseguirsi concreto e incalzante di consigli ironici, di comandi taglienti, di sfide profetiche. È una violenza verbale sapientissima, infuocata perché tutta dati e fatti […]. Il sapore beffardo della vendetta è nell’incitazione del guelfo sconfitto, che senza paura ricorda ai Ghibellini le antiche disgrazie e li coinvolge ironicamente insieme al papa nell’accusa di vigliaccheria e faziosità61.

Secondo la successione poetica dei suddetti codici, il sonetto è il decimo della sezione comica; esso poteva, forse, far parte di una serie di sonetti satirici-politici che per la maggior parte sono andati perduti. A voi che ne andaste per paura rimane, comunque, legato ad altri due sonetti: A voi, messer Iacopo comare e Fastel, messer

fastidio de la cazza. Entrambi si riferiscono alla politica del tempo: essi muovono

accuse sia ai ghibellini sia ai guelfi. Il primo si riferisce, appunto, a un certo Iacopo, di cui è impossibile l’identificazione: potrebbe essere o Iacopo Rusticucci (citato da

61

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Dante nell’Inferno62

) o Iacopo di Attaviano, padre di un Acerbo, citato in alcuni sonetti di Rustico; o ancora potrebbe essere identificato con Iacopo da Lèona. Chiunque sia, era sicuramente un ghibellino, accusato dal poeta di essere un vigliacco e di aver simpatizzato con i guelfi: «Rustico, s’acomanda fedelmente, / e dice, se vendetta avete a fare, / ch’è’ la farà di buon cuore lealmente. / Ma piaceriagli forte che ʼl parlare / e·rider vostro fosse men sovente / […] / Ma troppo siete conto di Fastello»63. In questo sonetto, Rustico mostra la pusillanimità di Iacopo che, pur facendo parte della fazione ghibellina come il poeta, non si è comportato con lealtà e non ha cercato la vendetta nei confronti degli avversari. Non deve stupire che Rustico, pur essendo ghibellino, critichi la propria fazione, anzi, ciò conferma la sua accesa vena politica.

Il secondo componimento (Fastel, messer fastidio de la cazza) è indirizzato con probabilità a Iacopo, già protagonista del precedente sonetto, dato che è descritta la figura di Fastello (già citato guelfo e amico di Iacopo). Egli è rappresentato come una persona astuta, arrogante e soprattutto pettegola: «Dibassa i ghebellini a dismisura, / e tutto il giorno arringa in su la piazza / e dice che gli tiene ʼn aventura»64. Rustico riesce, attraverso i ritratti di Iacopo e Fastello, a mostrare le mancanze di entrambi i partiti; per quanto riguarda A voi, messer Iacopo comare, egli attacca solo il singolo personaggio. Negli altri due sonetti, invece, Rustico attacca prima i guelfi come partito e poi si concentra sulla singola persona, dimostrando la fondatezza, tramite la figura di Fastello, delle accuse rivolte nell’altro componimento.

62

«[…] Iacopo Rusticucci, Arrigo e ‘l Mosca[…]» (canto VI, v. 80); «[…]Iacopo Rusticucci fui […]» (canto XVI, v. 44).

63

R. Filippi, Sonetti, cit., p. 23.

64

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Tali sonetti si presentano come un trittico, in quanto si caratterizzano, oltre che per il tema in comune, anche per alcuni legami intertestuali: al v. 14 di A voi che ne

andaste per paura leggiamo «ch’l ghibellino aveste per garzone»; questa espressione

è un allusione a Iacopo, protagonista di A voi, messer Iacopo comare: il poeta accusa i guelfi di sfruttare Iacopo per i loro interessi. Inoltre due dei sonetti (A voi che ne

andaste per paura e A voi, messer Iacopo comare) iniziano con l’apostrofe a voi: il

primo indica i guelfi, invece il secondo i due protagonisti (Iacopo e Fastello).

La relazione è confermata anche dal sistema rimico; infatti, sia in Fastel,

messer della cazza, sia in A voi che ne andaste per paura è presente la rima <-ura>.

Questa è abbastanza comune nella poesia comica poiché trasmette, attraverso l’asprezza del suono, la velenosità del vituperium; infatti, in entrambi, è solo nelle quartine cioè nel punto in cui il poeta descrive le due figure:

Fastel, messer fastidio della cazza65, dibassa i ghebellini a dismisura, e tutto il giorno aringa in su la piazza e dice ch’eʼ gli tiene ʼn aventura. E chi ʼl contende, nel viso gli sprazza velen, che v’è mischiato altra sozzura, e sí la notte come ʼl dí schiamazza. Or Dio ci menovasse che sciagura!66 […]

A voi, che ve ne andaste per paura: sicuramente potete tornare; da ch’eʼ ci è drizzata la ventura, ormai potete guerra inconizare. Eʼ più non vi bisogna stare a dura,, da che nonn·è chi vi scomunicare: ma ben lo vi tenete ʼn isciagura che non avete più cagion che dare. […]

Notiamo che le parole con rima in <–ura> non sono le stesse, tranne che nel caso di

sciagura/isciagura, che in entrambi i sonetti è nella stessa posizione, ossia nella

seconda quartina, rispettivamente al v. 7 e al v. 8. Tale voce, a mio avviso, è una sorta di didascalia dei protagonisti (Fastello e i guelfi): il poeta, così, racchiude il proprio rancore in una sola parola, fissando, in una sorta di finale provvisorio, la descrizione, dato che nelle successive terzine, Rustico inserisce i propri commenti:

65

«Fastidio della cazza»: signor rompiscatole. Potrebbe avere un doppio senso osceno, derivato dal sostantivo cazza, letteralmente‘ mestolo’; è possibile, quindi, che il poeta abbia voluto inserire una vistosa ambiguità.

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36 Ond’io ʼl ti fo sapere, dinanzi assai

Ch’a man vegni deʼ tuoʼ nemici guelfi, s’è temp’e se vendetta non ne fai. Ma tu n’avrai merzè, quando il vedrai. Fammi cotanto: togligli Montelfi, così di duol morir tosto il vedrai.

Ma so bene, se Carlo fosse morto, che voi ci trovereste ancor cagione; però del papa nonn·ho gran conforto. Ma io non voglio con voi stare a tenzone, ca·llungo temp’è ch’io ne fui acorto che ʼl ghibellino aveste per garzone.

La formulazione dei giudizi nelle terzine rende i componimenti circolari. I commenti, però, non sono della stessa natura: in Fastel, messer fastidio de la cazza è ironico e sarcastico. Nell’ultima terzina, inoltre, è presente un potenziale doppio senso (Montelfi), riferito al rapporto equivoco tra Iacopo e Fastello, ma su questo tornerò più avanti. Invece in A voi che ne andaste per paura si nota un profondo risentimento nei confronti dei guelfi; Rustico è astioso e sdegnato dal loro comportamento, come si legge al v. 12 («Ma io non voglio con voi stare a tenzone»). La sua irritazione esplode nelle terzine, all’opposto dell’altro componimento, nel quale il poeta si concentra sulla presa in giro, mostrando così il suo sarcasmo e meno la sua collera.

Questa struttura si ritrova anche nel sonetto A voi, messere Iacopo comare. Nelle quartine, descrive le azioni e gli atteggiamenti di Iacopo: «Ma piacergli forte che ʼl parlare / e·rider vostro fosse meno sovente, / ché male perdere uom, che guadagnare, / suole schifiare più la mala gente»67. Invece, nelle terzine, inserisce i propri giudizi:

E forte si crucciò di monna Nese quando sonetto udí di lei novello e credel dimostrat tosto palese. Ma troppo siete conto di Fastello, fino a tanto ch’egli ha danar da spese ond’eʼ si crede bene esser donzello. 68

67 R. Filippi, Sonetti, cit., p. 23. 68

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La natura di tale commento è molto simile a quello del sonetto Fastel, messer

fastidio de la cazza; anche in questo caso, si tratta di un giudizio di natura equivoca e

riguarda sempre la relazione tra i due protagonisti («Ma troppo conto di Fastello»). È palese il legame che intercorre fra i tre componimenti: il tema (la politica), le rime e, infine, la struttura del sonetto creano un intreccio di rimandi testuali che configurano i tre sonetti come un ciclo poetico.

Oltre al tema, Rustico crea delle sequenze poetiche attorno a dei personaggi. I

vituperia si configurano come delle vere e proprie unità narrative69: è il caso dei sonetti sull’Acerbo, ossia Volete udir vendetta smisurata, No riconoscete voi

l’Acerbo e Due donzei nuovi ha oggi in questa terra. L’identità dell’Acerbo è

difficile da stabilire: potrebbe trattarsi di uno dei due figli di Iacopo di messer Attaviano dell’Acerbo, i quali furono banditi da Firenze nel 1268 perché ghibellini. Il poeta affianca all’Acerbo altri personaggi quali la moglie, la cognata, il fratello, l’amico Guadagnino; concepisce intorno a lui una sorta di microcosmo che accompagna il protagonista nei vari componimenti.

In Volete veder vendetta smisurata sbeffeggia l’Acerbo come ideatore della vendetta nei confronti della moglie, colpevole di averlo tradito con Cambiuzzo, suo fratello. Egli a tale scopo decide di “servirsi” della cognata, ma, puzzando come la moglie, la vendetta non può essere realizzata. È un vituperium che si rivolge direttamente alle due cognate e indirettamente all’Acerbo, poiché non è riuscito a mettere in atto il suo piano ed è, quindi, una vendetta solo pianificata: «Dunque, ben n’anderà per quella via: / che ʼnmantenenente fue passato il duolo / ch’eʼ la

69

«[…] non mancano neppure in lui sonetti continuativi, come sarà poi caratteristica della vocazione implicitamente novellistica del “genere”»., cfr. R. Filippi, Sonetti, cit., p. 12.

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dissoterrò, perché putia». L’ironia di Rustico è visibile fin dal nome del protagonista:

Acerbuzzo. Il suffisso <-uzzo>70, tipico della poesia comica, denota la funzione dispregiativa ed è indizio della derisione nei confronti del protagonista. Esso si ripete nel nome di Giovanuzzo (v. 4) e di Cambiuzzo (v. 8), benché condizionati dalla posizione in rima, confermando il tono sarcastico che il poeta attribuisce al sonetto. Pertanto l’Acerbo è descritto come una persona poco furba e misera, in quanto il suo stesso piano gli si ritorce contro e non risolve alcunché.

L’Acerbo è protagonista anche del componimento No riconoscete voi l’Acerbo: il poeta, qui, accenna a rapporti illeciti che egli avrebbe avuto con un ignoto compagno. Il sonetto è posto, quindi, sotto il segno dell’allusività, comune nei

vituperia di Rustico: «Del compagno nol dico, ché ʼl mi serbo, / ché troppo

arosserebbe ne la cera; / in pasto il tegno e tuttavia lo ʼnerbo, / ché verrà or con via maggior schiera».71 Nelle quartine il poeta si riferisce a una donna: monna leonessa (v. 9). L’epiteto è peggiorativo con un’accezione ironica: infatti, «monna» sta per “madonna” ed è chiaramente sarcastico, e «leonessa» alluderebbe alla puzza che emana («Sí gra·lezzo vi vien per la quintana»). È plausibile pensare che si tratti della moglie dell’Acerbo, poiché già nel precedente sonetto è descritta come una donna sporca. Inoltre il vituperium si snoda attraverso un gioco etimologico: il poeta, scherzando sul nome, afferma che la donna si è fatta da contessa a regina («fatta siete reina, di contessa»). La donna, probabilmente, si sarà chiamata Contessa (> Tessa); in questo modo Rustico sottolinea la povertà materiale e morale della donna.

70

La rima in <-uzzo>, come già scritto, è comune nella poesia comica. È anche presente in Chi vedesse Lucia par capuzzo di G. Guinizzelli e in Sennuccio, la tua poca personuzza / onde diʼ che deriva il desiuzzo: tenzone di Forese Donati a Dante.

71

39

Infine, l’Acerbo è attaccato in Due donzei nuovi ha oggi in questa terra. Il sonetto prende di mira i modi goffi e impacciati dei due giovani; infatti, non è protagonista solo Acerbo, ma anche Guadagnino. Essi vogliono sembrare due uomini maturi, ma atteggiandosi così si dimostrano ridicoli: «Questi due ci hanno messi a sí gran serra / che ne ripiace molto Bofantino; / e quinci si racorga, s’alcun ci erra, / che macine non son già di molino».72 L’identità dell’amico è molto difficile da stabilire, poiché il nome Guadagnino era abbastanza diffuso a Firenze, essendo ben augurante (< Guadagno); è possibile inoltre che Rustico lo abbia scelto per indicare la natura ambiziosa del giovane. L’attacco quindi si basa sulla descrizione dei loro comportamenti attraverso un climax di effetti iperbolici che rendono particolarmente velenoso il componimento.

I tre componimenti sono legati fra loro innanzitutto dal protagonista. L’Acerbo è descritto in vari contesti infamanti: dal tradimento della moglie (Volete veder

vendetta smisurata) a possibili rapporti illeciti (No riconoscete voi l’Acerbo, Due donzei nuovi ha oggi in questa terra). È evidente, quindi, lo scopo del poeta:

insultare il protagonista sotto diversi aspetti, creando delle invettive che si muovono su piani paralleli ma nello stesso tempo uniti. Inoltre, i tre sonetti, come nel trittico citato in precedenza, sono uniti dal sistema rimico: la rima <-ata>, presente nelle quartine del sonetto Volete veder vendetta smisurata, assuona, per identità della vocale tonica e dell’atona finale, con la rima <-ana> delle terzine del sonetto No

riconoscete voi l’Acerbo. Questo, a sua volta, si riallaccia a Due donzei nuovi ha oggi

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