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Allo scopo di comprendere meglio il ruolo infermieristico nell’ambito domiciliare in relazione alla situazione delle figlie curanti, ho intervistato tre infermieri con un’ampia esperienza lavorativa nelle cure domiciliari. Sono emersi molti elementi interessanti che hanno contribuito a fornire un profilo di competenze e capacità specifiche che il curante dovrebbe impiegare nella sua pratica quotidiana. Su tutte è emersa in particolare una competenza, quella di promotore della salute, o meglio “Health Advocate” (KFH - Conferenza dei Rettori delle Scuole Universitarie Svizzere, 2011), facente parte del profilo dell’infermiere SUP. Difatti, come descritto nel documento appena citato e come riferito dai colleghi intervistati, il principale dovere dell’infermiere domiciliare è quello di promuovere la salute dell’utente ma anche del famigliare curante. Per questa ragione un professionista attento lavora soprattutto sulle risorse del famigliare per garantirne la salute, invece che prendere in considerazione solo i limiti:

“...noi siamo abituati ad agire sui limiti. C’è un problema, malattia, entriamo, facciamo questo. Noi dobbiamo fare anche quello, forse soprattutto quello, ma in maniera altrettanto attenta e performante dobbiamo agire sulle risorse, sulla parte sana del malato. La parte sana del malato è quella che riguarda la sua parte sana e le risorse che devono essere salvaguardate. Per cui se tu non agisci sulla parte sana, fai un lavoro di curante a metà.” (Marco, 2016).

Lavorare quindi sulle potenzialità e non solo a partire dalle mancanze; ciò è stato esplicitato chiaramente da tutti gli infermieri come principio chiave nella presa a carico dei famigliari. Questo significa quindi considerare i famigliari come risorse, per cui il lavoro dell’infermiere dovrebbe essere quello di rinforzarli dove necessario, sia a livello emotivo che pratico, per prevenire conseguenze negative legate al burden eccessivo (Cossette et al., 1995) che possano ledere l’utente e i suoi famigliari. Considerando infatti che i famigliari curanti rappresentano un importante bacino di fornitori di cure ai propri cari, far sì che entrambi gli attori rimangano a casa il più a lungo possibile è interesse di tutti (Associazione ticinese dei famigliari curanti, 2013). Christian pone l’accento sul fatto che, dato che gli effetti di una prevenzione non sempre possono essere quantificati e monetizzati, la tendenza è quella di concentrarsi sugli atti di prevenzione secondaria e terziaria, tralasciando quindi delle risorse importanti.

Qui di seguito vengono esposte alcune ipotesi di interventi atte a favorire la promozione della salute dei famigliari curanti (in generale) elaborati anche a partire dalle interviste effettuate agli infermieri Christian, Marco e Elena (i nomi sono stati modificati allo scopo di tutelare la privacy degli intervistati).

4.1 Costruzione di una relazione terapeutica efficace

¨ Cominciare fin da subito a costruire una relazione con i caregiver di riferimento: porsi come referente per la presa a carico non solo dell’utente ma anche dei famigliari è un primo passo per permettere all’infermiere di costruire un rapporto terapeutico efficace, che idealmente dovrebbe diventare un punto privilegiato di ascolto attivo e accoglienza del famigliare. Già il semplice fatto di domandare al parente come sta permette, nella maggior parte dei casi, di aprire un canale di comunicazione.

¨ Favorire dei momenti di comunicazione privilegiati con i famigliari, magari ritagliando del tempo anche dalle prestazioni fornite all’utente. Come esposto nel lavoro di Rini (2012), nell’instaurare un colloquio efficace con i famigliari è importante guardare una serie di fattori come il setting, il tempo, ecc., di modo che la persona possa esprimersi liberamente. Allo stato attuale nel nostro cantone momenti dedicati esclusivamente ai famigliari non sono previsti nelle prestazioni infermieristiche (a

43 parte le prestazioni di consulenza specialistica), però è opinione degli infermieri intervistati che qualora ce ne sia il bisogno, si possa e si debba ritagliare del tempo dalla prestazione all’utente per dedicarla all’ascolto e alla promozione della salute del caregiver. Dato che l’obiettivo comune è quello di mantenere sia l’utente che il caregiver il più a lungo in salute possibile, si tratta di un investimento a buon rendere, in molti casi.

¨ Far passare dei messaggi specifici:

o “Non vivere per la persona ma con la persona”: tutti gli infermieri intervistati si dicono s’accordo sul fatto che il messaggio più importante che deve giungere al famigliare è il fatto che, anche se si assiste e talvolta si convive con una persona bisognosa, quest’ultima non deve diventare il centro e il motivo della propria esistenza, anche perché prima o poi non ci sarà più, mentre la vita del parente deve continuare.

o “Conservare e distribuire le energie”: dal momento che frequentemente si tratta di un impegno a lungo termine, è essenziale che il famigliare non disperda inutilmente le proprie energie. Sia Christian che Marco utilizzano l’espressione del “non bruciarsi”, come eloquente metafora sulla necessità di risparmiarsi e riposarsi dove possibile.

o “Imparare a delegare”: un altro insegnamento importante riguarda la capacità di delegare a terzi, sia che appartengano alla rete formale che a quella informale. A dire Di Christian capita talvolta che il caregiver si senta in dovere di addossarsi tutti i compiti e i doveri su sé stesso, faticando quindi a “lasciar andare” e a distribuire gli oneri su più persone.

¨ Non dare troppe informazioni tutte insieme, in particolare all’inizio della presa a carico; considerando infatti il delicato momento di transizione, talvolta vissuto come vero e proprio lutto della perdita della normalità, l’infermiere deve considerare il fatto che molte delle informazioni trasmesse andranno perse. Per questa ragione, redigere dei documenti scritti e facilmente comprensibili può rappresentare una utile risorsa a cui sia l’operatore che il famigliare potranno attingere durante tutto il percorso di cura. Un esempio è il libretto di “tutti per uno, uno per tutti” (ABAD - Associazione bellinzonese per l’assistenza e cura a domicilio, 2014) che fornisce in modo chiaro informazioni su misure di sgravio e altre associazioni a cui affidarsi in caso bisogno.

4.2 Valutazione costante dello stato di salute mentale e fisica del famigliare

¨ Effettuare un assessment famigliare specifico all’inizio del percorso di cura: raccogliere più informazioni possibili aiuta ad avere un quadro più completo della situazione e a redigere un piano di cura più individualizzato. Marco pone l’accento su questo punto, in quanto la presa di coscienza di storia famigliare, relazioni interpersonali, potenzialità e limiti aiuta il professionista a indirizzare meglio il suo intervento e se necessario ad attingere a altre risorse di rete.

¨ Riconoscere i primi segni psichici e fisici di cedimento: i curanti dovrebbero, quando si presenta l’occasione, avere un occhio di riguardo anche nei confronti dei caregiver; domandare semplicemente “come stai?” può essere un mezzo importante per aiutarli ad aprirsi e a comunicare all’operatore eventuali dubbi e problemi. Molto spesso, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, alcuni disturbi di natura fisica possono comporre un primo segnale di allarme di cedimento del famigliare. Sebbene il tempo disponibile per ogni visita sia limitato e da dedicare all’utente, una minima osservazione sullo stato psicofisico dei famigliari potrebbe permettere un riconoscimento precoce di un eventuale burnout.

44 ¨ Valutare quali sono le aspettative e i bisogni del famigliare in merito alla cura; a dire di Christian, spesso le incomprensioni nascono anche a partire da aspettative e idee inadeguate rispetto alla cura. Indagare e discutere coi famigliari su quali siano le loro aspettative, specialmente all’inizio della presa a carico, può rafforzare l’alleanza terapeutica e evitare incomprensioni future.

¨ Sottoporre regolarmente un questionario e/o un colloquio per individuare i bisogni e il burden dei caregiver; secondo Marco, il fatto di avvalersi di uno strumento di valutazione standardizzato ad esempio del burden del caregiver, aiuta l’équipe ad avere una visione più oggettiva e a creare un piano di cura con obiettivi comuni. Il fatto invece di fare capo alla sensibilità singola degli operatori, rischia di portare poca chiarezza e coesione nello stabilire il piano assistenziale. Un esempio di scala è quello precedentemente citato nel lavoro di Rini (2012), nel capitolo “il concetto di burden e burnout”.

¨ Quando necessario, coinvolgere più persone nella valutazione di una situazione: secondo Christian, nei casi in cui ci sia poca chiarezza per quel che riguarda la situazione famigliare o di cura, può essere utile coinvolgere un secondo curante per avere un altro punto di vista oggettivo.

4.3 Erogazione di supporto emotivo e pratico

¨ Sensibilizzare le figlie curanti e gli altri caregiver a sfruttare anche la risorsa degli infermieri in caso di bisogno: dalle interviste è emerso che in caso di sensazione di difficoltà, le figlie si rivolgono prevalentemente al medico curante. Molto spesso infatti non sono consapevoli del fatto che la presa a carico dell’infermiere domiciliare dovrebbe includere anche la rete informale dell’utente; per questa ragione, sia all’inizio che nel corso del rapporto di cura, informare i famigliari su questa mansione dell’infermiere può essere utile, poiché così facendo l’operatore entra a far parte delle risorse esterne a disposizione della persona. Oltre a ciò, al contrario del medico di famiglia, può darsi che l’infermiere possa avere un quadro più completo della situazione, in modo da poter fornire al caregiver dei consigli pertinenti e realistici.

¨ Fornire un punto di vista esterno alla persona, farle capire quando sta arrivando al limite: frequentemente capita che i famigliari, essendo talmente assorbiti e investiti dalla componente emotiva della cura, non si rendano conto del fatto che stiano giungendo al limite delle proprie risorse(Perrig-Chiello & Hutchison, 2010). Per questa ragione, a dire di Elena, quando l’infermiere in quanto figura esterna e professionale giunge a mettere lui stesso in guardia il parente sul fatto che stia andando troppo oltre alle sue capacità, egli contribuisce a esplicitare in alcuni casi una difficoltà già percepita dal caregiver, che in molti casi però prova vergogna nell’esprimere tale sentimento. Il rimando espresso dai curanti può generare un senso di accoglienza e ascolto e in parte di sgravio da una decisione difficile. A condizione però che ci sia un buon rapporto di fiducia pre-esistente.

¨ Eseguire dove necessario un’educazione terapeutica sui mezzi ausiliari e sulle risorse che potrebbero facilitare la vita dei famigliari: secondo Elena accade talvolta che i famigliari, essendo molto coinvolti emotivamente nella cura, possano perdere lucidità nel valutare situazioni e alternative, lasciandosi abbattere da difficoltà facilmente ovviabili grazie all’introduzione di piccoli accorgimenti pratici. È quindi compito dell’operatore riconoscere tempestivamente i bisogni della persona e utilizzare le proprie conoscenze per supplirvi (ad esempio con l’introduzione di mezzi ausiliari, insegnamenti di mobilizzazioni, ecc.).

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4.4 Rinforzo positivo della persona

¨ Rassicurare costantemente la persona sul suo operato: come emerso da alcune interviste effettuate alle figlie, quest’ultime in più di un caso riferiscono di aver tratto beneficio nell’essere rassicurate sulle modalità adottate per affrontare la situazione di cura. Anche secondo l’esperienza di Elena, è importante valorizzare il lavoro compiuto dai caregiver, che spesso si ritrovano a gestire problemi totalmente nuovi per loro, per cui dargli un feedback e rassicurarli contribuisce a far sì che si sentano capiti e sostenuti.

4.5 Informazione sulle misure di sgravio temporanee

¨ Stimolare la persona a prendersi del tempo per sé stessa: spesso le figlie se ne accorgono da sole, ma talvolta provano quasi vergogna a riferire questo bisogno, per cui può essere utile che esso venga esplicitato dal professionista. Secondo Christian già solo il tempo di una visita domiciliare può essere essenziale per permettere alla persona di “staccare”, anche solo per “fermarsi a guardare l’orizzonte”.

¨ Informare sulla possibilità di ricorrere ai servizi di sgravio presenti sul territorio: i servizi a disposizione dei famigliari nel nostro cantone sono presenti (ABAD, 2014), anche se non sempre sono molto conosciuti. Per questa ragione, gli infermieri possono essere una buona fonte primaria di informazioni su centri diurni, ricoveri transitori ecc., sempre nell’ottica di prevenire un eccessivo burden del famigliare a lungo termine.

Le ipotesi di intervento descritte in questo capitolo sono state formulate in generale, non specificando il sesso o il grado di parentela dei famigliari curanti poiché, al contrario dei dati che evidenziano una maggioranza di figlie in Ticino che assumono tale ruolo (Associazione ticinese dei famigliari curanti, 2013), gli infermieri incontrati hanno espresso opinioni contrastanti al riguardo, mettendo in risalto, in relazione alla propria esperienza professionale, anche altre figure quali coniugi o altri membri famigliari. Sebbene i curanti interpellati si siano ritrovati negli elementi emersi durante le interviste con le figlie curanti, non li attribuiscono esclusivamente a quest’ultime, per cui tali interventi, seppure applicabili nella maggior parte delle situazioni famigliari, non sono stati espressi in riferimento alla specificità della figura della figlia curante.

Nonostante ciò tutti gli infermieri interpellati riconoscono un cambiamento del modello famigliare, in particolare a partire dalla loro stessa generazione. Elena ricorda infatti che sua madre, come tante donne del suo tempo, aveva come preciso compito quello di occuparsi dei propri figli ma anche dei genitori anziani. Elena invece, seppur lavorando a tempo parziale, riferisce che probabilmente non avrebbe la possibilità di assistere i genitori allo stesso modo, come loro hanno fatto con i propri. Questa molteplicità di ruoli viene compensata in parte a suo dire, negli ultimi anni, dal potenziamento dei servizi domiciliari.

Risulta quindi che, a partire dalle interviste del piccolo campione di infermieri selezionato, le figlie non vengano considerate univocamente delle figure maggiormente a rischio di burnout rispetto agli altri membri famigliari. Ciò si distacca in parte da diversi ritrovati presenti sull’argomento, come esposto nel quadro teorico, così come dalle testimonianze delle donne intervistate, le quali hanno tutte riferito dei momenti di crisi durante il loro percorso di cura legato soprattutto alla difficoltà di destreggiarsi tra la propria famiglia e i genitori.

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