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Alla luce delle interviste eseguite con le figlie curanti, sempre tenendo conto delle piccole dimensioni del campione analizzato, si può notare che la maggior parte degli elementi illustrati dalla letteratura riguardo alla figura e ai vissuti della figlia curante, siano stati confermati. Le donne hanno riferito più o meno le medesime problematiche negli stessi ambiti: la necessità di dividersi tra famiglia d’origine e famiglia propria, le difficoltà e talvolta modifiche nell’ambito lavorativo e il quasi inevitabile momento di “crollo” che la maggior parte di loro ha affrontato. Si tratta di elementi importanti, che ancora una volta sembrano rientrare nel concetto di “generazione sandwich” espresso da Perrig-Chiello (2015).

Nonostante gli ambiti molto diversificati da cui provengono le donne intervistate, risalta la ricorrenza di vissuti e esperienze molto simili tra loro. Le espressioni forti utilizzate dalle figlie sembrano dare ancora maggiore risonanza dell’impatto che un’esperienza di cura può avere sulle loro vite e sul loro modo di essere, sia in modo negativo che positivo.

Se da una parte le testimonianze possono indicare un vissuto a tratti di malessere, d’altra parte alcune donne hanno riferito un arricchimento interiore, un vissuto di cura che è diventato insegnamento per la vita e occasione di crescita.

Gli elementi più discordanti sembrano però essere legati al loro rapporto con i servizi di assistenza e cura a domicilio (SACD) e la figura infermieristica, sebbene le signore si siano appoggiate a diverse associazioni in Ticino.

Difatti, confrontando le interviste eseguite agli infermieri rispetto a quelle sottoposte alle figlie curanti, sono emerse alcune discrepanze. Ad esempio Simona che racconta di come gli infermieri apparissero passivi nei suoi confronti e che si attivassero solo in caso di richiesta esplicita da parte sua, quando la situazione era già molto instabile. Oppure Claudia, che riferisce che nella sua prima esperienza di collaborazione con una SACD pubblica del territorio, gli operatori non fossero assolutamente inclini a personalizzare il loro piano assistenziale in relazione alle esigenze della madre. Se poi si considera il fatto che, sempre secondo quanto esposto dalle figlie, la loro figura di riferimento in caso di disagio personale in molti casi sia stato il medico curante, sembra far passare in secondo piano la figura infermieristica, sebbene sia emerso dalle precedenti interviste ai colleghi che a loro avviso sarebbero gli infermieri a dover essere i primari referenti della rete e dei famigliari curanti.

Dal punto di vista degli infermieri intervistati, la situazione delle figlie curanti non sembra venir rilevata più critica rispetto a quella di altre figure famigliari; in particolare due intervistati su tre non ritengono che la situazione di queste figlie e dei caregiver in generale siano particolarmente critiche in Ticino, sebbene ammettano che talvolta le crisi e il rischio di burden sussistano. Marco, appartenente ancora a un altro servizio domiciliare, racconta una realtà più problematica e pone fortemente l’accento sulla necessità di promuovere la salute e prevenire eventuali burnout dei famigliari curanti, sempre però senza addurre una maggiore incidenza nelle figlie curanti, rispetto agli altri membri famigliari. Christian invece riconosce una maggiore tendenza al ruolo di famigliare curante e rischio di burden propria della figura femminile, ancora una volta però senza riconoscere una reale differenza tra moglie e figlia. Tuttavia è importante specificare che, come hanno fatto notare tutti gli operatori interpellati, ogni situazione è diversa e come tale va gestita tenendo conto della sua unicità.

47 Per cui se da un lato soprattutto le interviste con le figlie curanti hanno confermato gran parte degli elementi esposti dalla letteratura, dall’altro si osserva una maggiore eterogeneità delle percezioni degli infermieri in merito all’argomento e agli interventi indicati. Personalmente, ciò mi ha piuttosto sorpreso, poiché mi aspettavo che anch’essi avrebbero rilevato una maggiore vulnerabilità e particolarità delle figlie curanti, rispetto al loro ruolo.

Questo dato mi porta a riflettere su elementi che inizialmente non avevo preso in considerazione.

Innanzitutto, dal momento che i dati in merito hanno rilevato una maggioranza di figlie che si assumono il ruolo di caregiver, rispetto a altri membri famigliari, come mai le percezioni degli infermieri intervistati sono così differenti l’una dal’altra? Si tratta di una percezione errata o di un’effettiva variazione del fenomeno sul nostro territorio? Purtroppo nessuna di questa ipotesi può essere attualmente verificata, dato che, come ribadito prima, il campione è molto piccolo e quindi di difficile generalizzazione.

Sta di fatto che, secondo le informazioni raccolte con le figlie curanti, tre su sei di loro hanno percepito un limitato sostegno da parte degli infermieri, mentre d’altra parte cinque su sei delle interpellate, sebbene la maggior parte di loro si dica in ottimi rapporti con gli infermieri domiciliari, si sono tendenzialmente sempre di più rivolte al medico curante o ad altre figure esterne, in caso di necessità personale. Come giustamente dice Elena, ciò può essere anche legato al fatto che spesso il medico famigliare è una figura conosciuta da anni con cui si ha maggiore confidenza, e che quindi può indurre la persona ad aprirsi maggiormente nei suoi confronti.

Se però consideriamo il profilo elaborato direttamente a partire dalle affermazioni degli infermieri interpellati, dovrebbero essere quest’ultimi i referenti della rete anche per i famigliari curanti; ciò apre una serie di nuove riflessioni, sia sulla posizione che sul riconoscimento dell’infermiere a domicilio; quali sono dunque le possibilità?

Considerando che la maggior parte degli interventi proposti sopra sembrano comunque andare incontro anche alle necessità delle figlie curanti, ci sono alcuni accorgimenti che illustrerò di seguito che potrebbero aumentare la percezione della figlia di sentirsi accolta e sostenuta fin da subito, sempre tenendo conto del fatto che esiste un certo limite nel raggio d’azione dell’infermiere, poiché come descrive anche Marco, il professionista non può intervenire molto per ciò che riguarda le dinamiche intra- famigliari e l’ambito lavorativo, se non raccogliendo informazioni, accogliendo e fornendo supporto emotivo alla persona.

Un primo passo potrebbe essere che gli infermieri considerino fin da subito la figlia caregiver come elemento a rischio e per questa ragione valutino regolarmente la situazione (applicando gli interventi sopracitati) e, se possibile, le sottopongano periodicamente anche a questionari standardizzati per individuare il burden attuale. Considerando infatti la tendenza della donna ad assumersi frequentemente il carico della cura da sola, talvolta faticando nel chiedere aiuto alla rete informale (Cossette et al., 1995), l’infermiere, indirizzando maggiormente l’attenzione sul benessere ad esempio di una figlia curante, può rappresentare una valida risorsa nell’anticipare i bisogni e evidenziare il fatto che in caso di necessità, egli è disponibile anche per lei, oltre che per l’utente.

Come dice Marco, anche solo sei mesi per il caregiver in crisi possono sembrare un’eternità; meglio quindi prevenire, piuttosto che dover correre dopo ai ripari.

D’altra parte potrebbe essere inoltre interessante provare a informare e sensibilizzare maggiormente i famigliari e le figlie curanti sulle potenzialità legate a un’efficace

48 collaborazione con l’infermiere domiciliare, sempre nell’ottica di riconoscere e elaborare assieme un piano di cura completo che si prenda a carico in modo completo di tutta la famiglia.

Ci sarebbero inoltre molti spunti interessanti da considerare a partire dalla letteratura stessa, come l’introduzione delle figlie curanti ai servizi di counseling e educazione delle caregiver, misure di sostegno (la cui efficacia è stata a più riprese confermata) indicate per aiutare i famigliari curanti a trovare dei compromessi tra i propri bisogni psicologici e fisici e tra quelli della persona assistita, contribuendo così a migliorare la loro relazione (Chen, Hedrick & Young, 2010).

Anche il fatto di frequentare un gruppo di supporto o una classe di counseling può contribuire a prevenire il burnout, poiché queste persone impiegano del tempo per concentrarsi anche su cose positive invece di disperderlo soffermandosi esclusivamente sugli aspetti negativi (Chen, Hedrick & Young, 2010).

Tali misure vengono già impiegate da diversi anni anche negli Stati Uniti, dove hanno prodotto in molti casi degli outcome positivi quali riduzione dello stress e della sensazione di sovraccarico, contemporaneamente ad un aumento del benessere psicologico percepito (Chen Y.M., Hedrick S.C., Young H. M., 2010).

Christian fornisce inoltre un elemento molto interessante relativo al ruolo infermieristico, suggerendo il fatto che se l’infermiere potesse acquisire una maggiore autonomia e indipendenza professionale all’interno delle prestazioni di cura quotidiane, tale valorizzazione potrebbe giovare anche alla sua considerazione da parte dei caregiver informali, portando a una maggiore fiducia nei suoi confronti.