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Analisi delle specie legnose e del loro stato di conservazione

L’architettura della nave A

4.2 Analisi delle specie legnose e del loro stato di conservazione

4.2.1

Le analisi

Malgrado il lungo periodo intercorso tra l’affondamento e la scoperta della nave A, l’ininterrotta permanenza dei legni al di sotto del limite della falda acquifera e la quasi totale mancanza di ossigeno hanno consentito una conservazione straordinaria di questi elementi di natura organica.

Dopo il 1998, come si è visto241, la nave è passata attraverso diverse fasi di scavo e

ricopertura che hanno reso necessario analizzare lo stato di conservazione dei legni in

238 Uno stucco con proprietà collanti. 239 MOTT 1991, pp. 4-10.

240 Per la rappresentazione in 3D si ringrazia Roberto Coppola. 241 Cfr. paragrafo 1.2.

ottica di un restauro conservativo con il fine dell’esposizione permanente dell’imbarcazione.

Il legno, nel suo stato di massima imbibizione242, nonostante apparisse in uno stato tale

da leggere agilmente la struttura dello scafo, manifestava l’effetto del degrado subito nel tempo; infatti si presentava con una consistenza spugnosa243 e una certa facilità alla

rottura.

Le prime analisi (figura 45) furono eseguite dall’allora Soprintendenza Archeologica della Toscana con il CNR-INVALSA sulle porzioni di scafo messe alla luce prima della campagna SeARCH del 2006.

Sono stati prelevati dei campioni, nella maniera meno invasiva possibile, rappresentativi di tutta la porzione di scafo interessata.

Le analisi effettuate, che hanno seguito le linee guida UNI 11205:2007 e UNI 11118:2004, hanno consentito di identificare le specie legnose delle varie parti di scafo, di valutarne il deterioramento, in termini di determinazione degli agenti di degrado ed entità del danno, e di individuare la caratterizzazione chimica e fisica del legno. Inoltre, si è cercato di definire la componente inorganica del legno archeologico, con il preciso scopo di verificare la presenza di ioni ferro, che risultano essere un potenziale fattore di degrado subaereo del materiale244.

Analisi micromorfologica: consente di identificare le specie legnose (o almeno il loro

raggruppamento botanico superiore) e di determinare quali furono gli agenti biotici di degrado e quale danno hanno apportato. Viene effettuata attraverso l’osservazione al microscopio ottico a trasmissione di sezioni di legno sottili245 da confrontare poi con le

raccolte specialistiche in testi e database.

I risultati hanno mostrato come il fasciame della nave A sia stato realizzato in legno di conifera, precisamente quello di pino marittimo (Pinus pinaster Aiton) e le ordinate in 242 Con legno imbibito si indica il legno in cui il tenore idrico è superiore al punto di saturazione delle fibre.

Lo stato di massima imbibizione del legno archeologico si ha quando il tessuto legnoso non è più in grado di contenere ulteriore acqua libera. Materiali di questo genere al momento del ritrovamento sono in una condizione di sostanziale equilibrio con l’ambiente circostante, ma questo equilibrio viene perturbato, creando una situazione di stress, quando si inizia una procedura di scavo. Per tutte le procedure di recupero e restauro si veda PETRIAGGI 2010, pp. 27-30.

243 Quello che è accaduto è un degrado che ha portato alla perdita di massa e quindi all’aumento della

porosità e della permeabilità, fino ad arrivare alla condizione di massima imbibizione d’acqua.

244 GIACHI, ET. AL. 2009, pp. 2-3.

245 Realizzate tramite taglio manuale del campione secondo le direzioni trasversale, longitudinale radiale e

legni di latifoglie, principalmente di quercia (Quercus sp. caducifolia), alcune in legno di olmo (Ulmus sp.), noce (Juglans regia L.) e frassino (Fraxinus cf. excelsior). Anche il paramezzale analizzato è risultato essere in quercia.

L’osservazione microscopica ha inoltre permesso di individuare la presenza di agenti biotici deteriogeni quali funghi della carie soffice e batteri. Tali attacchi hanno reso lo stato di conservazione del legno fortemente compromesso, soprattutto per i campioni di legno di latifoglia (olmo e noce in primis), mentre la quercia, più robusta, è risultata avere una struttura cellulare degradata a un livello intermedio246.

Caratterizzazione chimica legni: consente di valutare l’ammontare residuo delle

componenti chimiche strutturali (emicellulosa, cellulosa e lignina247) delle pareti

cellulari248. Per comprende l’entità di degrado del legno imbibito si può ottenere una stima

efficace e rapida attraverso la valutazione del rapporto tra olocellulosa (la somma di emicellulosa e cellulosa) e lignina249, ma soprattutto è opportuno guardare al confronto

tra quest’ultimo rapporto e quello ottenuto per un legno omologo non degradato.

Le analisi sui legni della nave A hanno evidenziato la perdita della componente polisaccaridica strutturale (cioè l’olocellulosa), per cui resta un materiale costituito principalmente da lignina, quasi totalmente amorfo e decoeso, con un’elevata porosità e un alto contenuto d’acqua.

Se ne ottiene che i legni presentano un degrado molto pronunciato, l’olocellulosa residua era al massimo il 20% dell’originale nei campioni di pino e molto più bassa (addirittura all’8%) nei legni di latifoglia (quercia, noce e olmo)250.

Caratterizzazione fisica legni: consente di valutare le proprietà fisiche attuali (densità,

contenuto d’acqua, ritiri dimensionali) confrontate con quelle dello stesso legno non degradato. Dai campioni prelevati sono stati ottenuti provini prismatici di cui sono stati

246 REMOTTI 2012, pp. 27-30.

247 Per maggiori informazioni sulle caratteristiche del legno e il suo impiego in archeologia si veda

GJELSTRUP BJÖRDAL, ET. AL. 2011.

248 Le metodologie seguite per le analisi delle componenti chimiche sono le stesse utilizzate per il legno

fresco, visto che in questo caso si trattava di legno archeologico dalla limitata disponibilità sono state prese opportune modifiche.

249 Proprio per il fatto che solitamente, in un contesto del genere, il contenuto di lignina viene considerato

invariato col degrado, il rapporto olocellulosa/lignina viene valutato come indice rappresentativo dello stato di conservazione dei reperti. GIACHI, ET. AL. 2009, pp. 7-8.

misurati peso e volume allo stato massimo di imbibizione d’acqua. Successivamente questi provini sono stati essiccati gradualmente e quindi misurati nuovamente per calcolare i parametri fisici diagnostici dati dalla differenza tra i valori prima e dopo. Le analisi hanno quindi evidenziato come il degrado sia molto pronunciato, infatti, per quasi tutti i campioni i valori del parametro MWC (massimo contenuto d’acqua) sono superiori a 450% e a questi corrispondono valori di densità residua del legno tra 21 e 35%, arrivando fino al 46%, significando che il legno dell’imbarcazione, nonostante la diversità delle specie legnose e nel livello di degrado, in media abbia perso più della metà della propria “sostanza”.

È da notare, inoltre, come malgrado la quasi totale perdita della componente polisaccaridica, il legno archeologico imbibito risulti essere notevolmente più igroscopico251 del legno non degradato. I valori di EMC (contenuto di umidità

all’equilibrio) dei campioni archeologici variano, infatti, dal 17 al 22% circa. Il dato suggerisce che la lignina, seppure i suoi valori siano vicini a quelli del legno fresco, abbia comunque subito delle trasformazioni a livello molecolare, per cui è stata indotta la formazione di gruppi igroscopici252.

Caratterizzazione componente inorganica legni: consente di verificare la presenza di ioni

di ferro che potrebbero innescare un degrado subaereo. La componente inorganica del legno viene espressa come il valore delle ceneri, residui delle calcinazioni, nell’analisi chimica, normalmente molto più alto nel legno archeologico rispetto a quello del legno fresco253. Attraverso microanalisi a dispersione di energia collegate al microscopico

elettronico a scansione, diffrattometria a raggi X e spettroscopia infrarossa si sono rilevate differenze sensibili tra i campioni essiccati e quelli calcinati. Tale difformità sembrerebbe riconducibile alla più facile rilevazione delle fasi inorganiche, una volta eliminata la componente organica. Nei campioni di legno sono presenti Si e Al, i quali insieme a K, Mg, Ti e parte di Na e Ca sono da ricondurre alla componente terrosa depositata nel legno dall’acqua circolante nell’ambiente di giacitura. Oltre a quelli appena elencati, si ritrovano come componenti maggiori Ca, Fe e S riconducibili alla presenza di calcite

251 Cioè maggiormente capace di assorbire le molecole d’acqua. 252 REMOTTI 2012, pp. 31-32.

253 Questo poiché è possibile un’infiltrazione di sedimento all’interno della porosità delle cellule legnose,

oppure per la presenza di ossidi o sali insolubili di deposizione secondaria derivanti dall’ossidazione degli oggetti metallici o dalla cristallizzazione, dopo l’essicazione dei legni, di sali trasportati dall’acqua che permea il terreno di giacitura.

(CaCO3 trigonale), gesso (CaSO4.2H2O) ed ossidi di ferro cristallini (Fe2O3) o amorfi;

inoltre, come componenti minoritari, compaiono P, Cl e parte di Na: di cui non è stata identificata l’origine.

La quantità di ferro risulta essere sempre elevata anche se i campioni interessati dalle analisi non presentavano chiodature.

In conclusione, queste prime analisi hanno messo in luce che i campioni prelevati dalla Nave A mostrano un diffuso attacco ad opera di organismi xilofagi, principalmente batteri di tipo ad erosione e a funghi della carie soffice. Il danno provocato è molto accentuato, come si è evidenziato guardando alle misure fisiche e chimiche, secondo le quali la componente polisaccaridica residua si aggira mediamente sotto il 10% ad esclusione del legno di pino che resiste in maniera migliore al degrado rispetto alle altre latifoglie presenti. La componente inorganica, misurata come residuo alla calcinazione, è, come spesso accade per questo tipo di legni, molto alta e valutabile attorno al 10% del peso totale. La presenza di ferro supera anche il 60% e derivava, all’origine, da ossidi variamente idrati accompagnati per lo più da calcite e solfati di calcio, anch’essi, variamente idrati e associati a calcite e gesso254.

Successivamente, tra il 2013 e il 2014, Cooperativa Archeologia con il CNR-IVALSA hanno firmato una convenzione per lo svolgimento di analisi sullo stato di conservazione dei manufatti lignei delle navi A e I, condotte con l’ausilio del “Laboratorio pH”, certificato Accredia.

254 REMOTTI 2012, pp. 31-33.

Figura 45: i risultati dell'analisi micromorfologica del 2005 (da REMOTTI 2012, p. 28).

Le analisi effettuate (figura 46) su nuovi campioni sono servite per: identificare la specie legnosa, classificare la morfologica del degrado, misurare il contenuto d’acqua, determinare la densità basale e quelle basale residua, analizzare la caratterizzazione chimica (compresa la misura del pH) e analizzare la frazione inorganica. Si tratta sostanzialmente delle stesse analisi effettuate negli anni precedenti e, infatti, sono stati utilizzati gli stessi metodi diagnostici sopra descritti.

Caratterizzazione morfologica: per i legni della nave A analizzati in questo secondo

momento è stata osservata un’elevata variabilità specifica. Da contesti simili si era visto che la quercia e le conifere non presentavano uno stato di conservazione particolarmente compromesso255, ma in questo caso il legno è in un pessimo stato di conservazione; i

collassi e gli schiacciamenti sono tali da far scomparire i lumi cellulari e rendere impossibile in due casi il riconoscimento, dovendosi fermare al livello di conifera o latifoglia.

Le specie legnose che si è riuscito a identificare riportano alle stesse varietà ritrovate nel precedente studio: quercia, olmo, noce, frassino, cipresso, pino marittimo e pino silvestre. Gli attacchi biotici, presumibilmente batterici, si sono potuti vedere in alcune sezioni sottili in cui le pareti cellulari si sono trasformate in una massa informe di materiale degradato del tutto incoerente rispetto al resto della struttura. In queste analisi si è inoltre visto che gli organismi detritivori (organismi invertebrati che si cibano di materiale organico in avanzato stato di decomposizione) sono probabilmente uno degli stadi finali della catena alimentare, proprio la loro attività sta ad indicare che il legno (o meglio, il prodotto dell’azione dei microrganismi che usualmente attaccano il legno archeologico imbibito) si sta avvicinando alla propria totale e definitiva distruzione biotica.

Caratterizzazione fisica: inizialmente sembrava che il contenuto d’acqua fosse

mediamente diminuito tra le due campagne di rilievi, mentre la densità basale residua fosse mediamente aumentata, in realtà la spiegazione di tale fenomeno256 è da ricercare

nelle analisi micromorfologiche, sopra illustrate, in cui si vede che la diffusa presenza di collassi e schiacciamenti dei lumi cellulare di molti dei campioni di quercia. Questi diffusi

255 Per le querce i tannini accentuano la durabilità del legno, mentre nelle conifere si ipotizza che sia la

particolare composizione della lignina a renderle più resistenti al degrado biotico.

256 Il che risulta fisicamente impossibile perché vorrebbe dire che il materiale avrebbe diminuito il suo

collassi e deformazioni hanno comportato l’espulsione dell’acqua dalle pareti cellulari, ma anche un aumento netto della densità apparente del materiale. Il risultato è di conseguenza una diminuzione del contenuto d’acqua effettivamente disponibile all’interno dei campioni e un aumento della sua densità basale.

Caratterizzazione chimica: per i legni di quercia e noce si è notato un lieve avanzamento

del livello di degrado chimico tra le due campagne di analisi con una perdita selettiva della frazione polisaccaridica. Questo fatto evidenzia come il materiale della Nave A, già abbastanza degradato nel 2005, ha continuato a degradarsi confermando le risultanze delle osservazioni micromorfologiche che hanno evidenziato la presenza di attacchi di origine biotica (ife fungine) e batterica e l’attività di organismi detritivori.

Caratterizzazione componente inorganica: la determinazione quali-quantitativa della

frazione inorganica mostra un sedimento ricco di Ca, Fe e Mg (in proporzioni differenti) e una quantità rilevante di Mn, Al, K, Si e Na. Gli anioni più abbondanti sono risultati essere solfati e cloruri (anch’essi in proporzioni differenti), i quali indicano che il sedimento era costituito da alluminati o silico-alluminati, ma anche da solfati (di Ca e Mg) ed è stato possibile confermare la forte presenza di ferro.

L’identificazione delle essenze utilizzate per costruire la nave A trova corrispondenze sia con i racconti delle fonti antiche, sia con i numerosi relitti ritrovati e studiati.

Teofrasto, Vitruvio e Plinio sono gli autori antichi che ci hanno tramandato qualche informazione sul legname per la costruzione navale. Per il grande naturalista e l’architetto romano tutti i tipi di pino (marittimo, silvestre e nero) avevano come proprietà principali

la flessibilità e la durevolezza, ma si trattava anche degli alberi maggiormente reperibili in ambito Mediterraneo.

Teofrasto ci racconta maggiormente nello specifico che per le costruzioni navali, e in particolare per i mercantili, il pino era preferito (anche per le chiglie) perché resisteva meglio al degrado, tale autore sostiene inoltre che fosse meglio utilizzare il legno verde visto che si piegava più facilmente.

In generale quindi nella cantieristica navale si utilizzavano legni con una certa densità e una buona elasticità, ma l’elemento che serviva da discriminante per la scelta delle essenze era la provenienza. Legni duri e conifere erano i più reperibili in tutto il bacino del Mediterraneo e di conseguenza diventavano i legni usati in maggior misura257. La

provenienza dei legni è servita altresì a tentare di identificare la zona di costruzione di un’imbarcazione, ma i risultati ottenuti non sono soddisfacenti, almeno per le navi che si spostavano in mare, poiché quasi tutte le specie legnoso sono diffuse lungo le coste mediterranee e molto spesso i legni provenienti da relitti si trovano in così critico stato di conservazione che si riesce a risalire solamente al genere della pianta e non alla specie. Unicamente l’origine delle barche fluviali è agevole da localizzare poiché non si spostavano molto dalla loro area di costruzione258.

Tra autori antichi259 e studi sui legni dei relitti si è compreso che: per il fasciame si era

soliti usare il pino o l’abete (entrambi resistenti e leggeri, il primo veniva usato molto spesso per il fasciame dei mercantili e soprattutto per ricavarne la pece, il secondo era molto più diffuso in epoca antica rispetto ad adesso) o anche il cipresso (largamente diffuso nell’antichità ed estremamente durevole), per la chiglia normalmente si preferiva la quercia (maggiormente resistente alle sollecitazioni) oppure il pino, per le parti di collegamento come tenoni e cavicchi si preferivano legni duri e resistenti ad uno sforzo da taglio come l’olivo (più raro), il leccio (un legno duro e durevole), il pino e il frassino (che come l’olmo presentava buone caratteristiche meccaniche, soprattutto era elastico, ma di non facile lavorazione)260. Infine, per le ordinate si preferivano la quercia, il leccio,

l’olivo o il noce (utilizzato nelle zone dove era facilmente reperibile)261.

257 STRAUSS 2007, pp. 89-91.

258 GIACHI, ET. AL. 2017, pp. 182-183.

259 È noto come Teofrasto nella sua Historia Plantarum (V, 7, 3) menzioni abete, pino e cedri come le

migliori essenze per costruire una nave, mentre ritenga il platano il legno peggiore, perché marcisce facilmente. SALVIAT 1978, pp. 258-262.

260 Per le caratteristiche fisiche delle varie specie legnose e il loro utilizzo nell’architettura antica si veda

ANTICO GALLINA 2011 e STEFFY, 2012, pp. 256-259.

Dalle analisi sui legni della nave A si evince che l’imbarcazione naufragata a San Rossore rientrava nella tipologia comune delle navi onerarie di epoca romana262, compaiono quasi

tutti i legni usati abitualmente per le imbarcazioni263 e inoltre si tratta delle specie

maggiormente diffuse lungo tutto il Mare Nostrum264 quindi non si possono fare ipotesi

sull’origine della nave partendo dal legno in cui era costruita.

4.2.2

I restauri

Dopo aver compreso lo stato di conservazione dei legni si è proceduto al loro restauro. Si è scelto265 di utilizzare la Kauramina, brevetto BASF, che è una a base di melammina e

formaldeide solubile in acqua a temperatura ambiente, addizionata con trietanolammina, butandiolo e urea. Queste tre sostanze permettono di ritardare la catalizzazione del bagno, rendono più viscosa la soluzione e maggiormente elastico l’oggetto trattato. La soluzione utilizzata normalmente per l'impregnazione di legni bagnati in ottime condizioni di conservazione (cioè con un'umidità superiore al 300%) è composta da: Kauramin CE5549 800 al 25%, H2O demineralizzata al 75%, urea al 5%, butandiolo al 10%, e

trietanolammina tra lo 0,5 e l’1%.

Il trattamento è iniziato con un’immersione nella soluzione per un periodo di tempo variabile tra 2 e 6 mesi, a seconda della temperatura dell’ambiente circostante e delle condizioni di conservazione del legno.

La soluzione di Kauramina è penetrata nel legno circa 1 cm a mese per lato e il bagno preparato doveva possedere un pH tra 9 e 10, con la tendenza ad abbassarsi da controllare settimanalmente, fino al raggiungimento di un pH inferiore a 7, quando la soluzione inizia a opacizzarsi.

262 Il fatto che le ordinate siano in maggioranza in quercia e alcune in frassino, olmo e noce non deve stupire.

Le ordinate in legno diverso, visto il loro basso numero, potrebbero essere delle riparazioni, oppure la nave poteva essere stata costruita già in tal modo, utilizzando i legni che si erano riusciti a trovare.

263 Per la chiglia si vedano le analisi condotte successivamente da Dendrodata s.a.s. esposte nel paragrafo

2.3.1.

264 Si deve anche considerare che il legname era oggetto di commercializzazione sia come materiale

edilizio, sia da usare come combustibile. Esisteva una vera e proprio economia del legname, tanto che nel periodo imperiale si è appurato un aumento delle zone boschive amministrate appositamente per la vendita e il conseguente sviluppo di un network della distribuzione del legname. WILSON, BOWMAN 2018, pp. 211-236.

265 Il lavoro di restauro è stato svolto dal dottor Domenico Barreca che si ringrazia per le informazioni

Questo segna l’inizio della catalizzazione della resina melamminica: solo in quel momento è stato possibile estrarre i legni dalle vasche di impregnazione e lavarli, ripulendoli con spazzole e pennelli di setola morbida, dalla sostanza impregnante rimasta in superficie.

Successivamente, per completare la fase di catalizzazione del prodotto impregnate, è stato necessario eseguire una serie di ulteriori procedure: gli elementi trattati sono stati rivestiti di carta e poi bagnati, in modo che l’eventuale resina in eccesso potesse essere eliminata. Così rivestiti sono stati poi posizionati in sacchetti di polietilene o avvolti nella pellicola trasparente, sistemati nell'apposito forno ed esposti a una temperatura di 50°C. La durata del trattamento, compresa tra i 7 e i 14 giorni, si è interrotta non appena il campione della soluzione impregnante, posto ad asciugare in un vasetto di vetro insieme ai legni, catalizza. Una volta tolti dal forno e privati delle pellicole protettive e della carta, i reperti lignei sono stati messi ad asciugare in maniera lenta e controllata sotto una pellicola di polietilene, fino al raggiungimento del grado di umidità residua desiderato (circa il 15/20%). È stato necessario controllare giornalmente il processo, tramite apertura e ricopertura dei reperti.

Una volta asciugati, i legni della nave A, sono stati integrati con la balsite, per restituire loro l’originale forma, ed è stato utilizzato un mordente per dare colore. L’ultima fase ha previsto una ricopertura con cera e i legni così restaurati sono stati montati nella sala 4 del Museo delle Navi Antiche di Pisa su un apposito supporto in modo da riprodurre la loro collocazione originaria266.