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Il relitto della nave A (figura 48), rinvenuto nell’autunno del 1998 presso la stazione di Pisa San Rossore e tagliato dal palancolato messo in opera prima della scoperta, portava con sé numerose problematiche che al termine di uno studio completo sono state solamente in parte risolte.

Il contesto non era di semplice lettura a causa della sua natura: un ramo dell’Auser o dell’Arno, situato poco fuori l’antica Pisae, alla confluenza con lo sbocco di uno dei canali della centuriazione, ha subito nell’arco di più di dieci secoli continue alluvioni, diverse per entità e portata, che hanno reso il deposito stratigrafico di difficile comprensione. Il continuo rimescolamento dei sedimenti, dovuto al regolare scorrere del fiume, alternato agli eventi alluvionali traumatici, ha creato una situazione complessa da scavare, ma ha anche permesso la preservazione di una ventina di imbarcazioni in legno, cordame, contenuti di anfore, oggetti in cuoio e vimini, materiali metallici e ceramici di tutte le tipologie. Un banco fluviale sabbioso, in cui si sono microfiltrate le falde acquifere, è stato la chiave della conservazione nei depositi limosi del fondale fluviale di questi rari e straordinari materiali286.

La zona in cui giaceva la nave A, definita area 1, è stata scavata da team differenti e in diverse campagne non continuative: tra il 1998 e il 1999 dalla cooperativa Co.Idra, nel 2003 insieme all’Università di Pisa, nel 2006-2007 dalla ditta SeARCH e infine nel 2013- 2015 da Cooperativa Archeologia che ha anche provveduto al restauro dell’imbarcazione e alla sua musealizzazione finale nella sala 4 del Museo delle Navi Antiche di Pisa287.

In generale dell’area 1 sono state scavate tutte le fasi, a partire dal primo alveo della fine del I secolo d.C., sino al momento dell’interramento dell’ansa fluviale, avvenuto nel VII secolo d.C.

Sono state identificati gli eventi succedutisi nel corso di questi secoli in cui si sono alternate fasi di lento scorrimento della corrente a fasi alluvionali, fino ad arrivare a una situazione pre-lagunare, la quale ha provocato il vero e proprio interramento dell’area. La corretta lettura della sequenza stratigrafica, compresa quella dell’ultima campagna di scavo, mai pubblicata, ha consentito di fare luce sulla precisa datazione dell’affondamento dell’imbarcazione.

286 Cfr. paragrafo 1.1.3. 287 Cfr. paragrafo 1.2.

La nave A aveva ricevuto diverse datazioni a causa dell’assenza di continuità negli scavi e nei relativi studi. In un primo momento era stata datata dopo i primi decenni del II secolo d.C.288, poi all’età adrianea 289, successivamente alla fine del II-inizio del III secolo

d.C.290 e infine alla seconda metà del III secolo d.C., precisamente tra il 251 e il 280291.

L’analisi delle fasi di stasi fluviale precedenti e successive e degli eventi stratigrafici avvenuti durante l’alluvione, che ne ha causato il naufragio, ha rivelato che l’evento alluvionale dovrebbe essere avvenuto tra la metà e la fine del II secolo d.C., in un momento, non meglio puntualizzabile, tra il 150 e il 190 d.C292.

Tale datazione è stata inoltre corroborata dai due studi sul carico che hanno stabilito la presenza di materiali eterogenei (anfore, ceramica comune, ceramica a pareti sottili e terra sigillata africana A) in uso nella seconda metà del II secolo d.C., mescolati a materiali più tardi riferibili alle successive fasi di stasi e soprattutto a un altro evento alluvionale293

posteriore di circa un secolo. A questo secondo evento è da associare lo straordinario reperto rappresentato dal cosiddetto “Bagaglio del marinaio”, il quale ha al suo interno

288 BRUNI 2000, p. 45. 289 LEONCINI 2007, p. 14. 290 MILETI 2011, pp. 143-144. 291 REMOTTI 2012, p. 19. 292 Cfr. paragrafo 2.1. 293 Carico dell’US 6081.

Figura 48: la nave A in fase di scavo (foto di repertorio).

un gruzzolo di monete che lo rendono agevolmente databile tra la seconda metà e la fine III secolo d.C.294

La datazione appena proposta si riferisce al momento dell’affondamento della nave A; l’imbarcazione doveva essere in uso già da alcuni anni anche se non è stato possibile intuire dall’analisi dei legni, per via del loro generale cattivo stato di conservazione, se fossero vecchi o nuovi e se avessero subito riparazioni più o meno invasive.

Al fine di precisare in maniera dettagliata il periodo in cui la nave fu costruita sono state eseguite un’analisi dendrocronologica e un’analisi al radiocarbonio295.

Purtroppo, il degrado del legno e l’assenza di confronti puntuali, con le curve standard elaborate per l’età romana e depositate nelle banche dati, hanno dato risultati non indicativi.

L’analisi del carbonio-14 ha invece permesso di stabilire che i legni analizzati provenivano da alberi abbattuti in un lasso di tempo tra il 90 e il 247 d.C., con una probabilità del 95,4 %, e più nello specifico tra il 114 e il 183 d.C. con una probabilità del 68,2%.

La maggior parte del materiale ceramico rinvenuto nell’area 1 non è stato ancora studiato, per tale motivo non è stato possibile valutare nella totalità il carico trasportato, né comprendere quali materiali fossero oggetto di scambio e quali potessero essere parte della suppellettile di bordo296.

Con l’intento di comprendere quali fossero gli oggetti trasportati sulla nave si è scelto di cercare e catalogare tutti quei pezzi provenienti dall’area 1 che potevano far parte dell’equipaggiamento di bordo.

Gli elementi scelti, quasi tutti di piccolo formato, non è certo che fossero sull’imbarcazione in quanto provengono da unità stratigrafiche in cui l’idrodinamismo dei depositi potrebbe aver causato uno dislocamento dal loro luogo di giacitura primaria. Gli unici materiali che si possono con certezza attribuire all’imbarcazione sono alcuni chiodi (n. 4001, 5857, 5858, 5859), alcune lamine (n. 5655 e 5855) e un tenone con il suo cavicchio (n. 5888) rinvenuti inseriti nello scafo.

294 Cfr. paragrafo 2.2.

295 Le quali danno risultati che si riferiscono al momento del taglio dell’albero e di conseguenza

costituiscono solo un termine post quem. Cfr. paragrafo 2.3.

296 Le ceramiche proposte come suppellettili ad uso di marinai o passeggeri in LEONCINI, 2007 non si

Tutti gli oggetti catalogati potevano far parte dell’attrezzatura navale, si tratta di: chiodi (portati a bordo in gran quantità anche per le riparazioni)297, una grappa in piombo, una

roncola per tagliare le cime, un anello per districare, alcune corde, una carrucola, uno scandaglio in ceramica, un frammento di cuoio con cuciture, una bitta in pietra298, alcune

lamine plumbee (forse destinate a rivestire lo scafo) e due parti della pompa di sentina (un dischetto ligneo e parte della cassetta di piombo rinvenuta all’interno del fasciame)299.

Lo strumentario per la manutenzione a bordo era affiancato da una serie di oggetti per la pesca come uncini, aghi e pesi da rete300, comuni sia alla località che affacciava sul fiume,

sia alla dotazione di una nave, dove la pesca era una delle attività maggiormente abituali durante la navigazione.

Una piastra da cucina ricavata da una tegola, con evidenti tracce di bruciato, e alcune lucerne301, in questo caso scelte in base alla loro datazione, completano la categoria di

oggetti utilizzabili a bordo302.

Infine, sono stati analizzati alcuni elementi che potevano essere portati su un’imbarcazione da marinai o passeggeri. Si tratta di un peso da bilancia per le transazioni commerciali, un proiettile da fionda, una fibula, un’armilla, un ago crinale, una spatola/cochlear, una chiave, alcuni elementi decorativi (un intarsio con leone e una decorazione in avorio), un cavallino giocattolo, una pedina da gioco e un fischietto ornitomorfo303.

La porzione di relitto scavata risultava lunga circa 19 m e larga 7 m. La sua struttura, grazie all’analisi completa dei legni, che sono stati catalogati304 e di cui si è proposto,

dove possibile, un disegno del profilo, è stata rivista e aggiornata.

Lo scafo è stato costruito con la tecnica a guscio: in primis è stato assemblato il fasciame e in un secondo momento è stata montata l’ossatura, non fissata alla chiglia ma collegata al fasciame attraverso cavicchi e chiodi di dimensioni diverse, sia in ferro che in bronzo. Il sistema prevedeva ordinate alternate a semi-ordinate e madieri, seguiti da scalmotti e 297 Cfr. paragrafo 3.2.1, i numeri 2123, 5846, 5853, 5854 e i pezzi numero 5850 e Z668, i quali erano

appositamente usati per le lamine in piombo.

298 Numeri Z682, Z692, 2114, Z512-Z523, Z511, Z428, Z694 e Z696. 299 Numeri 5838, 5839, 5840, 5842, 5843, 5844, Z677 e 5655. 300 Numeri 2101, Z485, 2103, 2152, 5851, Z681, 2110 e Z526. 301 Numeri 5852 e Z657.

302 Sono presenti anche due pezzi di difficile interpretazione: il n. 2071, un bastoncino ligneo che potrebbe

essere un umbilicus per un rotolo di papiro, e il n. 5848, un oggetto cilindrico in lamina bronzea ripiegata, privo di confronti.

303 Cfr. paragrafo 3.2.1, numeri 848, Z448, Z451, 1023, Z430, 5845, 5847, Z540, Z507, Z652, 5731, 687. 304 Cfr. paragrafo 4.4.

staminali nella parte più alta della fiancata. Solo la porzione di fiancata a nord-ovest potrebbe essere quasi completa e arrivare fino al capodibanda.

La chiglia (n. 64) presenta una sezione trapezoidale con le batture laterali per l’inserzione delle tavole del fasciame ed era assemblata in tre tronconi con un sistema a palella e denti. La parte A, per la sua curvatura, parrebbe essere una delle due ruote.

Erano presenti un paramezzale centrale (n. 66) affiancato da due paramezzalini laterali (n. 32 e 90) più piccoli ancora in posizione. Il sistema, tipico di molti relitti antichi, presentava al suo interno anche un varco per il posizionamento della pompa di sentina: il paramezzale si interrompeva all’inizio del varco quadrangolare e su uno dei due paramezzalini (n. 32) era presente uno scasso rettangolare per l’inserimento delle strutture lignee della pompa. Sulla faccia superiore del paramezzale non compare la scassa dell’albero, elemento che spinge a ipotizzare che questa si trovi sul paramezzale che continuava dopo il vano pompa, ora oltre il palancolato. Grazie a questi ultimi indicatori si può ipotizzare che si sia in presenza della poppa e che la prua, con il posizionamento dell’albero maestro, si trovi nella parte non scavata. Tuttavia, la questione non è del tutto risolta e l’identificazione di prua e poppa e di babordo e tribordo restano presunte.

Le tavole del fasciame erano accostate a paro con il classico sistema delle mortase e dei tenoni. Sono identificabili con certezza i due torelli (n. 144 e 145) e i due controtorelli (n. 143 e 147), una cinta (n. 69) e alcune tavole del fasciame interno (collegate alle ordinate attraverso degli scassi poco profondi e numerosi chiodi in ferro). Restano invece di difficile attribuzione alcuni probabili bagli (n. 34, 47, 71) e un legno con tre scassi forse

Figura 49: tipo navale d'altura che si poteva trovare nel II secolo d.C. (da BONINO 2015, p. 45).

da identificare come una parte che sorreggeva il ponte e andava a incastrarsi nei bagli (trincarino o dormiente)305.

Rimangono sconosciute le dimensioni totali, la forma della carena, il pescaggio e il tonnellaggio della nave, solamente con un’appropriata ricostruzione si potrebbero fare delle supposizioni.

Sappiamo sicuramente che si trattava di un’imbarcazione di medio tonnellaggio, lunga tra i 20 e i 30 m (figura 49), utilizzata per navigare in mare e che potrebbe rientrare nelle tipologie della ponto o della cladivata.

Nella confinante area 5 è stato rinvenuto un legno identificato come governale della nave A grazie alle sue dimensioni e alla sua localizzazione in uno strato che comprendeva anfore del carico della nave A. Si tratta di un cilindro ligneo con tracce di corde e tre mortase per l’aggancio della pala. Ne viene proposto una ricostruzione tridimensionale sulla base di confronti con le iconografie di II secolo d.C. (Tav. 6, 1-3. Tav. 7, 1)306.

I legni della nave A sono stati analizzati in due momenti differenti per comprenderne lo stato di conservazione e le essenze.

I risultati, qui per la prima volta comparati (figura 50), mostrano come le specie dei legni utilizzati307 siano tipici della cantieristica navale antica e si trovino lungo tutte le coste

del Mediterraneo.

La chiglia308, il paramezzale, la maggior parte delle ordinate, alcuni corsi di fasciame e

un probabile baglio (n. 47) erano in quercia; altri elementi dell’ossatura erano in olmo, frassino (due madieri e due ordinate) e noce (due ordinate e un madiere). Il fasciame

305 Cfr. paragrafo 4.1.1. 306 Cfr. paragrafo 4.1.2.

307 In alcuni casi si è potuto solamente stabilire se fosse una conifera o una latifoglia.

308 Il frammento di chiglia 64A era in legno di quercia sempreverde della sezione SUBER, mentre la

porzione 64B era in legno di quercia caducifoglia della sezione ROBUR. Cfr. paragrafo 2.3.1. Figura 50: le due analisi dei legni comparate su una stessa pianta (pannello nella sala 4 del MNAP).

interno ed esterno e i paramezzalini erano in pino marittimo, un solo corso di fasciame era in cipresso.

Il fatto che il cipresso, il noce e il frassino compiano in pochissimi casi può far ipotizzare che gli elementi in queste essenze fossero delle riparazioni, ma non è detto che durante la costruzione non fossero stati utilizzati anche legni diversi a cui si poteva accedere facilmente309.

Una terza analisi ha permesso di indentificare sulla chiglia tracce di pece di legno di pinacee. Potrebbero essere parte del calafataggio dello scafo esterno oppure di quello effettuato per impermeabilizzare i giunti principali310.

La nave A, quindi, era un’oneraria di medie dimensioni adatta alla navigazione in mare aperto che si è però andata ad arenare contro la sponda di un fiume. La domanda che sorge spontanea è come mai una nave tra i 20 e i 30 metri si trovava in un’ansa fluviale? Normalmente i mercantili di medio tonnellaggio frequentavano porti medi o grandi, attrezzati per un commercio su vasta scala e dotati di fondale con un pescaggio adatto al transito di navi anche di grandi dimensioni, oppure restavano ancorati a largo scaricando il loro carico in imbarcazioni più piccole appositamente adibite (come alcune lintres rinvenute nel deposito di San Rossore)311. Al contrario le imbarcazioni di piccola portata

effettuavano un commercio di “cabotaggio” e di redistribuzione dai grandi centri portuali. Un’oneraria media come la nave A doveva aver avuto un buon motivo per risalire il canale che dal mare giungeva al bacino in cui sono stati fatti i ritrovamenti. Inoltre, il fondale del fiume doveva essere adeguato a questo tipo di transito; è probabile che l’ansa del fiume fosse più grande di quello che si è supposto, altrimenti la nave non avrebbe potuto compiere nessuna manovra312.

Inoltre, al momento dell’alluvione sembra plausibile che la nave A fosse ormeggiata a riva, a causa del cattivo tempo, come è stata trovata ancora ormeggiata la nave C (Alkedo). Se si ipotizza che la porzione di nave superstite sia la poppa allora la nave era stata ormeggiata di prua, azione inconsueta poiché tradizionalmente le imbarcazioni di cospicue dimensioni si omaggiavano, e si ormeggiano ancora oggi, di poppa. Tuttavia,

309 Cfr. paragrafo 4.2. 310 Cfr. paragrafo 4.3.

311 BOLLINI 2005, pp. 179-180.

312 Si può ipotizzare che la nave transitasse lungo il fiume trainata ad alaggio dalla riva, è molto improbabile

non si può sapere se l’oneraria fosse in transito verso l’uscita dal canale o in direzione della città.

La nave poteva essere stata traghettata all’interno del canale fluviale perché aveva necessità di essere riparata, magari in un cantiere navale poco fuori Pisa, oppure poteva essere in fase di carico-scarico, ragione che spiegherebbe come mai quello che finora è stato riconosciuto come carico, compresi i materiali scivolati nell’area 5, sia in quantità modesta rispetto alle 60-200 tonnellate che poteva caricare. Ovviamente questa ipotesi andrebbe rivista con lo studio completo dei materiali rinvenuti nell’area 1, tenendo sempre conto che il carico potrebbe essere stato rimosso dopo l’affondamento o potrebbe essere scivolato nelle aree non scavate, compresa quella al di là del palancolato dove giace il resto dell’imbarcazione.

Mentre erano in corso di studio i primi materiali del carico, rinvenuti nella campagna di scavo del 2003, è stata proposta una rotta: la nave dall’alto Adriatico (per la presenza di anfore di Forlimpopoli313) avrebbe navigato fino alla costa africana, passando per lo

stretto di Messina; successivamente, grazie alle correnti favorevoli, avrebbe risalito la costa della penisola Iberica, poi fatto uno scalo in un porto della Gallia Narbonense (dove avrebbe caricato le anfore Gauloise 4), fino a concludere il suo viaggio a Pisa.

Una rotta di questa tipologia è estremamente improbabile. Il sistema di traffici marittimi dell’età imperiale era basato essenzialmente su rotte dirette, intendendo con questa espressione non una navigazione in linea retta bensì un commercio privo di “rotture del carico” 314. Imbarcazione di portata media, come la nave A, collegavano i porti principali

che, essendo dotati di tutte le infrastrutture necessarie, a loro volta gestivano la redistribuzione delle merci nel loro territorio di influenza attraverso imbarcazioni di piccolo tonnellaggio315. Infatti, una rete integrata dei porti mediterranei, basata sulla

interdipendenza economica dei relativi retroterra, poteva gestire contemporaneamente rotte commerciali dirette da porto a porto316, senza “rotture del carico” e con navigazione

di altura, e commerci di cabotaggio a lunga e a breve distanza.

313 Tuttavia, le anfore di Forlimpopoli venivano anche prodotte nell’ager Pisanus e Volaterranus.

314 È stato studiato che per l’epoca romana i “carichi diretti” potevano appartenere a tre categorie: carichi

con lo stesso tipo di merce proveniente dalla stessa regione (per cui si può ipotizzare una rotta), carichi con merci diverse prodotte nello stesso areale (e anche in questo caso si può ipotizzare una rotta) e infine carichi contenenti merci diverse prodotte in differenti aree e stivate in un porto di redistribuzione (in tale caso non si può ipotizzare una rotta). RICE 2016, pp. 170-189.

315 CIBECCHINI 2011, pp. 483-485.

316 Per un aggiornamento sullo sviluppo del commercio nel Mediterraneo antico, con confronti statistici tra

Nel nostro caso il carico è composto da materiali misti prodotti in regioni diverse, anche distanti tra loro (per esempio le anfore galliche e le ceramiche africane), caricati contemporaneamente in un porto dove evidentemente erano presenti merci provenienti da tutto l’impero. Tale porto poteva anche essere quello di Pisa che oltre a redistribuire le merci smerciava anche i prodotti provenienti dall’entroterra. Le rotte alto-tirreniche (figura 51) che partivano dal sistema portuale pisano317, sulla base dell’areale di

distribuzione, potevano essere dirette a Marsiglia, a Ostia o verso la Corsica e la Sardegna, utilizzando le isole dell’arcipelago Toscano318.

Il periodo dell’affondamento ipotizzato si trova in quel periodo storico in cui a fianco dei prodotti dell’Italia centrale, che riscuotono ancora successo, e delle merci della Baetica e della vicina Gallia si inseriscono con forza le merci africane, che dall’inizio del III secolo d.C. raggiungeranno l’egemonia sul commercio mediterraneo319.

La storia della nave A non è ancora giunta alla conclusione: una ricostruzione virtuale della sua forma potrà chiarire in futuro gli interrogativi che sono ora rimasti in sospeso. Indubbiamente si può dire che un’imbarcazione che aveva concluso la sua esistenza in maniera così traumatica ha iniziato una nuova vita come reperto archeologico, a cui è stata dedicata un’intera sezione, esposto in un museo destinato appositamente ad antiche navi romane.

317 Cfr. paragrafo 1.1.2.

318 PASQUINUCCI, MENCHELLI 2010, pp. 9-10. 319 MENCHELLI 2003, pp. 101-102.

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