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ANALOGICO E DIGITALE

Nel documento Il libro unico di Roberto Calasso (pagine 167-180)

FRA LA MENTE UMANA E L’UNIVERSO

4. ANALOGICO E DIGITALE

In una lunga e articolata intervista televisiva del 16 luglio 2016, rilasciata a Gianni Riotta per l’«Eco della Storia», Calasso spiegava che la grande protagonista dell’«opera in corso» è la polarità fra pensiero analogico e pensiero digitale, su cui tutti i volumi in qualche modo agiscono.93 Accennava così a una questione centrale della sua indagine sulla mente umana, quella delle due modalità di funzionamento del pensiero, dei due poli fra cui perennemente si dispiega la nostra psiche. Calasso ne segue i profili, i movimenti nel tempo, cercando di rintracciare, dalla preistoria all’«innominabile attuale», l’origine inafferrabile della loro diversificazione. Il tema viene esposto per la prima volta nella

Rovina di Kasch, a proposito di un punto fondamentale del volume del 1983, quello della

legittimità. Calasso mostra come essa si fondi, nel mondo moderno a cui appartiene Talleyrand, su un meccanismo essenziale del pensiero, quello della sostituzione. Quest’ultima è il perno del nostro sistema cognitivo, e si manifesta soprattutto nel linguaggio – nella procedura con cui sostituiamo a ogni referente del mondo oggettivo o immaginario, a ogni significato, un significante. Dalla sostituzione si dipartono due rami, o, come scrive Calasso nel cuore della Rovina di Kasch, «si biforca una Y che a lungo aveva vagato nel cosmo e ora si è ritratta nella mandorla della mente».94 Da una parte, una modalità del pensiero che dice che «a sta per b, e implica che a annulli b e lo uccida, talvolta per scoprirne il funzionamento»; dall’altra una che «dice: a sta per b, ma come una scheggia di granito sta per la montagna da cui si è distaccata».95 Nel primo caso vediamo all’opera la potenza della digitalità, nel secondo quella dell’analogia. Non c’è opposizione fra le due, ma eterna compresenza: esse si compenetrano e si supportano

93 Cfr. la puntata già citata di Eco della storia: http://www.raistoria.rai.it/articoli-programma/eco-della-

storia-incontra-roberto-calasso/33951/default.aspx; visitato il 6 dicembre 2017.

94 RK, p. 273. 95 RK, p. 273.

Sia detto per inciso, la conoscenza di ciò che sono l’analogia e il trasferimento – conoscenza per la quale la matematica, le diverse scienze e la filosofia sono una preparazione – ha così un rapporto diretto con l’amore.

vicendevolmente. Nel Cacciatore celeste, Calasso spiega che la loro cooperazione si evince chiaramente da due fondamentali attività: l’imitazione, che cerca la sostituzione ma suggerisce un’analogia, e la metamorfosi, che segue la spinta analogica per arrivare alla sostituzione:

Sostituzione e connessione – i due poli perenni della mente – convivono

nell’imitazione e nella metamorfosi, si intrecciano, si fomentano, si sopraffanno. Ai loro estremi: il simulatore incessante – o l’animale, la pianta o la pietra che sono il risultato delle metamorfosi senza ritorno narrate da Ovidio.96

La digitalità è all’opera nella convenzione, che maschera l’arbitrarietà del segno facendola sembrare naturale; a essa appartengono, secondo Calasso, il diritto positivo e la separazione fra Io e mondo. La digitalità è il reame del discreto, della barriera che stacca dal mondo per agire su esso, serve a creare quella conoscenza che concede al soggetto uno spazio d’azione sulla natura. Come accennato, essa si manifesta in primo luogo nel linguaggio, in cui appare evidente la capacità sostitutiva della nostra mente. È un meccanismo perennemente attivo e straordinariamente potente:

L’atto che è stato il più potente e continua a manifestare la sua potenza fu un atto silenzioso della mente: l’atto della sostituzione, l’atto con cui venne stabilito che a

stava per b, che a prendeva il posto di b, che a rappresentava b, che una pietra

sarebbe stata chiamata come un’altra pietra, che una tacca su un legno avrebbe indicato un astro. È l’atto della codifica.97

Con un simile ma più sottile gioco di rimandi opera il polo analogico, regno del continuo, della connessione. Questa ci consente di slittare da un significato all’altro senza sostituirli fra loro, priva com’è del carattere eliminatorio della digitalità, e ci permette quindi di accostare idee, concetti e immagini pur continuando a riconoscerne la difformità. All’analogia appartengono le connessioni – i bandhu vedici – e la legge, intesa come controparte di ordine cosmico del diritto. Sua è l’immagine della rete, dell’invisibile trama su cui il pensiero si articola all’infinito, procedendo senza confini di simulacro in simulacro. L’analogia serve a conoscere il mondo nella sua complessità, a guardarne il funzionamento in una prospettiva universale: non prende dunque il mondo come dato

96 CC, p. 126.

inerte, ma come materia metamorfica. Come facilmente intuibile, nella lettura di Calasso della modernità – di quel moderno che sfocia poi nell’«innominabile attuale» – a prevalere significativamente in essa è il polo digitale, a cui la scienza tende a dare più credito e più spazio, ritenendolo più utile e spendibile in termini pratici.

Come spiegare l’insistenza con cui Calasso torna sulla distinzione fra i due poli della mente? In primo luogo, a Calasso interessa sottolineare il peso della loro concomitanza, in secondo luogo analizzare le conseguenze dell’indifferenza che viene loro riservata nella contemporaneità. Nella convinzione che soltanto uno sguardo che abbracci in toto le possibilità dalla mente possa indagare in maniera efficace il nostro tempo, Calasso mira anche a illustrare come, nella storia della cultura europea, queste due tendenze si siano trovate sempre in conflitto fra loro:

Per secoli, dall’inizio della fortuna degli Hieroglyphica di Orapollo, si può dire che la cultura europea si sia spartita fra i due poli della sostituzione (percepibile nell’accanimento a decifrare, quindi a sostituire) e dell’analogia (percepibile nella ricerca delle corrispondenze, quindi di una catena simbolica che permettesse di passare, per via di somiglianza, da immagine a immagine, senza mai uscire dal gioco cosmico delle figure).98

È una convinzione che appartiene anche a Giorgio Agamben, che accenna in modo analogo a tale contrasto, facendo riferimento al pensiero di Aby Warburg:99

Nella nostra cultura, la conoscenza (secondo un’antinomia che Aby Warbug ebbe a diagnosticare come la «schizofrenia» dell’uomo occidentale) è scissa in un polo estatico-ispirato e in un polo razionale-cosciente, senza che nessuno dei due riesca mai a ridurre integralmente l’altro.100

Secondo Calasso, la predominanza del polo digitale su quello analogico è una prerogativa dell’Occidente moderno – o, meglio, di quella parte della scienza occidentale egocentrica precedentemente descritta, che da un lato guarda alla mente come un centro operativo e trascura la natura doppia delle nostre facoltà conoscitive, dall’altro nega la commistione del soggetto con il mondo esterno e crea l’impostura della mente come foglio bianco e privo di connessioni, di un’individualità estranea al continuo:

98 FB, pp. 173-174.

99 Sul rapporto fra il pensiero di Warburg e l’«opera in corso», cfr. I parte, cap. 4 e IV parte, cap. 1. 100 G. AGAMBEN, Stanze…, cit., p. XIV.

il motivo dell’abissale differenza di presupposti che separa l’India vedica dall’Occidente. O per lo meno da ciò che, dopo lunga elaborazione e macerazione, è finito per diventare il presupposto taciuto, il buon senso occidentale: la visione dell’uomo come tabula rasa, la tavoletta di cera di cui parlava Locke. Questo è l’unico presupposto che permette di far funzionare la complicata macchina della vita sociale (e a che altro – dicono alcuni – dovrebbe servire il pensiero?).101

L’«innominabile attuale» intende la conoscenza in un solo modo, e riconosce validità quasi esclusiva a un particolare tipo di discipline scientifiche, che Calasso studia con interesse estremo fin dalla Rovina di Kasch: quelle matematiche. In special modo, guarda alle teorie degli insiemi, alle scienze computazionali e alla creazione di sistemi formalizzati. Il «tempo senza dèi», cioè il nostro, ha cercato lì – scrive – la risposta alle sue domande: «la ragione senza presupposti – ogni presupposto è un estraneo – la ha fissata nell’indagine in cui sviluppa la sua massima forza: quella logico-matematica».102 Alle scienze logico-matematiche, dunque, Calasso presta particolare attenzione, ritenendo il confronto con esse fondamentale per delineare la sfaccettata tela della mente. Ecco dunque che accanto ai poeti e ai romanzieri, agli storici e agli artisti cui abbiamo accennato, fra i personaggi dell’«opera in corso» si annoverano anche fisici e matematici del calibro di John Von Neumann, Alan Turing, Kurt Gödel o Eugene Wigner – tutti a vario titolo impegnati, nella prima metà del Novecento, a sfidare i limiti dei sistemi formali, a indagare le più disparate forme di intelligenza, a interrogarsi sulle restrizioni della stessa. In modo chiaro e sintetico, il matematico Paolo Zellini spiega, in un articolo recente, uno dei problemi fondamentali della scienza del calcolo nel XX secolo:

Turing dimostrava che i numeri calcolabili, le cui cifre decimali sono valutabili da una macchina, formano nel complesso un insieme numerabile; ma questo insieme lascia aperto, fuori di sé, un baratro di incalcolabilità paragonabile a quello dei numeri irrazionali, un territorio alieno che la mente umana non riesce a catturare se non per via di complesse costruzioni teoriche, non sempre adeguate a quel principio di realtà che anche la matematica si sforza di rispettare. I numeri e le figure ci distolgono da quel baratro, ma non fino al punto da poterlo ignorare.103

La difficoltà insormontabile delle teorie dei sistemi formalizzati appartiene, secondo Calasso, alla sfera del proprio, cioè alla scelta degli elementi da farvi rientrare, giacché

101 A, p. 395.

102 RK, p. 357.

non esiste il modo di decidere senza equivoco dell’appartenenza di un enunciato generico a una particolare teoria. Le debolezze dei sistemi formali che vengono evidenziate in tal senso sono due: il fatto che tutto ciò che sta fuori dal sistema non viene considerato in quanto trascurabile; l’arbitrio che contraddistingue il sistema può rendere trasparente tutto, ma non se stesso.104 Secondo Calasso, fino al crollo – imprevedibile ma certo – il funzionamento del sistema formale dà un senso smisurato di potenza, che deriva dall’illusione di poter gestire un dominio sconfinato. Il rovescio della medaglia è proprio nella nozione di trascurabile: se la mente per operare in un determinato ambito deve innanzitutto delimitare il campo, rinunciare a perdersi nelle infinite diramazioni che le si offrono seguendo il polo analogico, ogni scienza porta con sé un surplus di trascurabili (e di inconoscibilità):

Come nasce il trascurabile? In molti modi, ma quello che più riguardava Turing era il passaggio dai dispositivi analogici a quelli digitali. In quella trasposizione il trascurabile non si poteva evitare, perché l’analogico è il continuo e il trascurabile il discreto. Ma qual era la potenza all’opera in quel passaggio? La sostituzione. Il cervello apparteneva al continuo, ma aveva bisogno – un bisogno vitale – del discreto per operare. […] Il cervello riesce ad agire in modo efficace soltanto se decide di ignorare qualcosa. Il trascurabile è la chiave di ogni efficacia. E il trascurabile è il

residuo. Ignorare il trascurabile è un imperativo del cervello. E lo diventerà della

scienza.105

Calasso trova la smentita più acuta di questo modo di vedere le cose in alcune riflessioni di Simone Weil, contenute in una lettera al fratello André, un matematico; la filosofa vi esprime le sue perplessità sul metodo sperimentale, che ha il principale punto critico di considerare irrilevante qualsiasi dato che può contraddire l’impianto teorico di partenza, grazie alla precisa delimitazione di campo a cui ogni esperimento costringe la realtà:

«Contraddizione essenziale nella nostra concezione della scienza: la finzione del vaso chiuso (fondamento di ogni scienza sperimentale) è contraria alla concezione scientifica del mondo. Due esperimenti non potrebbero mai dare risultati identici. Si sfugge a questo attraverso la nozione di trascurabile. Ma il trascurabile è il mondo…». Quest’ultima frase combacia con la visione dei ritualisti vedici: il residuo

è il mondo. Due righe sotto: «La nozione di analogia, di rapporti identici, è centrale

104 RK, p. 358.

per i Greci. Ponte fra il finito e l’infinito».106

Come appare evidente, la dualità dei centri focali della psiche è strettamente connessa con la natura «simulativa» della nostra conoscenza. Per tornare alla lettura che Calasso fa del nostro tempo, dobbiamo quindi, una volta di più, rifarci alla sua “formazione nietzschiana”. Nell’interpretazione di Ecce Homo, Calasso si concentra primariamente su un punto: «la prima tesi che Nietzsche ha voluto confutare è stata proprio la tesi portante di tutto il pensiero occidentale, quella che afferma la verità come adequatio rei et

intellectus».107 Di nuovo, è quindi necessario chiamare in causa l’essenza simulativa dei

nostri processi cognitivi, giacché il presupposto da cui Calasso parte, sulla scorta di Nietzsche, è questo:

ogni forma della rappresentazione è una necessaria falsificazione, che riduce immensamente il reale ma si presenta in noi come se lo comprendesse nella sua interezza […] Il dilemma della conoscenza si pone in questi termini: o il pensiero vuole il tutto – e allora uccide il soggetto che lo pensa; o il pensiero rinuncia al tutto – e allora uccide la vita.108

L’opposizione fra digitale a analogico corrisponde anche a quella fra mentalità economica e vita “vera”, cioè un’esistenza cosciente e consapevole; per quanto possiamo ignorare il polo analogico e preferirgli quello digitale, il continuo sarà sempre più vasto del discontinuo, e continuerà ad agire su esso in modo sotterraneo. Nella Rovina di Kasch, il simbolo della non-vita è la mummia di Jeremy Bentham conservata allo University College di Londra, che fa da contraltare a quella di Lenin conservata a Mosca:

E, qualsiasi cosa pensiamo, a un certo punto ci accorgiamo che stiamo utilizzando, senza saperlo, qualche lembo di quel manto sommerso. L’unica forma di vita che riesca a rinunciare totalmente alle connessioni vediche è quella di Bentham, il nostro Faraone, oggi mummia a Londra. Una vita ignara. Le connessioni vediche sono grandiosamente superflue, Bentham è grandiosamente inadeguato. Noi siamo nel mezzo, oscillanti.109

106 CC, p. 134.

107 QG, p. 33. 108 QG, p. 33.

Il problema è dunque che il polo analogico, se ignorato, acquisisce una potenza sotterranea incontrollata. Il polo digitale, del resto, dà una grande possibilità di manovra, ma finisce con l’annullare il mondo esterno trasformandolo in mero materiale da laboratorio. Questa minaccia pervade tutta la Rovina di Kasch:

Il polo digitale dà una grande potenza, ma non contiene, all’interno della macchina, quella fisicità dei valori mobili che è un ultimo palpabile ricordo del mondo esterno. Digitalità è pura sequenza di segni: quando il suo dominio si è esteso a tutto, non sappiamo più quale terra ci sostiene – se una terra c’è ancora. Continuiamo a vivere il polo analogico, ma non sappiamo più come nominarlo: è emozione muta, che opprime e non sbocca più nel suo antico estuario.110

Il volume dell’83 insiste moltissimo su questo pericolo: i limiti del polo digitale, che cerchiamo sempre di ignorare, di mascherare con la convenzione, tornano fuori e si manifestano in modi inquietanti:

nei gerghi dei sistemi, della complessità, del controllo. O altrimenti nell’assillo di un materiale che viene meno, di una forza irreversibilmente consumata, di una mancanza invincibile. E ogni volta risuona l’antico esorcismo: troveremo nuove convenzioni, procederemo con severe correzioni di metodo. Il circolo si ripete, ma sempre più stretto, in attesa che si stringa in un cappio.111

Del resto, un’indagine sulla conoscenza che si ponga con un approccio digitale non riesce a dar ragione del proprio punto di partenza: il farsi altro da sé del soggetto nell’atto stesso di pensarsi. Nell’«innominabile attuale», la scienza investe le proprie energie nella ricerca di un modo per controllare i processi conoscitivi e renderli più efficienti. L’impegno profuso nello studio delle intelligenze artificiali mira esattamente a ricostruire e a rendere gestibile all’esterno della mente quelle operazioni che il cervello compie in maniera automatica come un macchinario imperfetto. Ma l’informatica, con i suoi algoritmi, non ha ancora trovato il modo di capire la coscienza, che non si può scomporre in stati discreti:

Se l’intelligenza è stata assorbita in algoritmi non coscienti che però funzionano in modo più efficace della mente – descrizione abbreviata della rivoluzione informatica –, è facile immaginare, come passo successivo, che la coscienza subisca qualcosa di

110 RK, p. 32.

simile. Ma appunto qui si incontra qualche ostacolo imprevisto. L’intelligenza può essere concepita come una successione di stati discreti, simulabili in linea di principio anche all’esterno della mente. Ma la coscienza? Qui, nonostante il profluvio di scritti che ne trattano, è inevitabile giungere a una osservazione paralizzante: nessuno sa di cosa è fatta la coscienza. E non solo non lo sappiamo, ma ogni apparato che dovrebbe avvicinarci a saperlo, come per esempio la fMRI o la microscopia tridimensionale, non fa che accrescere il nostro senso di inadeguatezza.112

Il distacco, la rassicurante concezione del soggetto come qualcosa di irrelato dall’esterno, una visione discreta/analogica sono limitati rispetto al problema cruciale dell’autoriflessività del soggetto cogitante; servono a intervenire sul mondo, ma dal punto di vista della conoscenza valgono poco:

La capacità di controllo (sophrosyne), l’abilità nel dominarsi, nel reggere, l’acutezza dell’occhio, la sobria scelta dei mezzi adatti per raggiungere i fini: tutto questo distacca la mente dalle potenze, concede l’illusione di usarle senza esserne usati. Ed è un’illusione efficace, che spesso trova conferme. Lo sguardo si è fatto indifferente e lucido verso tutto, pronto a cogliere qualsiasi occasione e trarne vantaggio. Ma rimane una macchia nera in questo sguardo circolare, un punto che lo sguardo non vede: se stesso. Lo sguardo non vede lo sguardo. Non riconosce di essere esso stesso una potenza, come quelle che ora pretende di dominare. Lo sguardo freddo sul mondo non modifica il mondo meno del fiato infuocato di Egis, che arse una immane distesa di terre, dalla Frigia alla Libia.113

Avendo accennato ai pericoli che si nascondono dietro all’incontrollato proliferare della mentalità digitale, mi sembra utile inserire a questo punto qualche riflessione di Jean Baudrillard, un autore con il quale Calasso mi sembra presentare alcuni punti di contatto.114 Anche al centro degli interessi del filosofo francese c’è infatti il rapporto della modernità con il simbolico; Baudrillard ragiona sul contrasto fra realtà e irrealtà in un mondo che vive nella proliferazione dei segni ma al tempo stesso pretende di muoversi al suo interno con il solo approccio digitale. Anche Baudrillard indaga l’abissale differenza che separa il nostro tempo ossessionato dalla produzione, dalla linearità, dallo scambio economico da quello delle società antiche regolate sul tempo ciclico dello scambio mistico e dei riti sacrificali. La riflessione di Baudrillard – in modo particolare in un’opera del 1976 dedicata allo scambio simbolico, L’Echange symbolique et la mort – riguarda le

112 IA, pp. 77-78.

113 NCA, p. 260. 114 Cfr. I parte, cap. 6.

conseguenze di questo passaggio proprio a livello di esperienza conoscitiva, partendo da una premessa: «al giorno d’oggi, tutto il sistema precipita nell’indeterminazione, tutta la realtà è assorbita dall’iperrealtà del codice e della simulazione».115

Un primo aspetto che anche Baudrillard sottolinea è quello dell’utilitarismo: nel mondo contemporaneo non è possibile sottrarsi al diktat operativo:

Non più somiglianza né dissomiglianza, di Dio o dell’uomo, ma una logica immanente del principio operativo. […] si esce dalla legge naturale e dai suoi giochi di forme per entrare nella legge mercantile del valore e dei suoi calcoli di forze.116

Baudrillard parla di una «configurazione operativa» del nostro tempo, di cui la digitalità è il «principio metafisico».117 Un aspetto di particolare interesse, nella sua argomentazione, è la denuncia della componente metafisica del capitale (un aspetto di cui lo stesso Calasso, come vedremo, riconosce il fascino e il potenziale metamorfico):

Una volta cortocircuitati i miti (e l’unico rischio che abbia corso storicamente il capitale gli è venuto da questa esigenza mitica di razionalità che lo ha attraversato fin dall’inizio) in una operatività di fatto, un’operatività senza discorso, una volta diventato il suo stesso mito, o piuttosto una macchina indeterminata, aleatoria, qualcosa come un codice genetico sociale, il capitale non lascia più nessuna possibilità a un capovolgimento determinato. È questa la sua vera violenza. Resta da

Nel documento Il libro unico di Roberto Calasso (pagine 167-180)